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recensione di Ivan Barbieri
Il corto animato, o meglio quella che dopo pochi minuti scopriremo essere la sessione di riprese del medesimo, dal titolo "Somethin' Cookin'" apre il film di Zemeckis con una formula già di per sé programmatica. Nelle primissime scene, sullo sfondo di un set adibito a cucina, vanno in scene le gag slapstick tipiche dei cartoon Warner tra due personaggi inediti, nati dalla penna del romanziere Gary Wolf: Roger Rabbit, il coniglio che dà il titolo al film pur non essendone il protagonista, e Baby Herman, poppante "con le voglie di un 50enne e il pisellino di 3 anni". Dopo qualche minuto di incessanti inseguimenti, Roger viene brutalmente interrotto dalla voce del regista che sbraita fuori campo a seguito di un errore commesso dal coniglio: l'inquadratura si allarga rivelando la presenza di una troupe intenta a girare in studio le scene appena apparse sullo schermo. Con un semplice movimento di macchina, l'intero mondo dei cartoni viene quindi immediatamente (ri)contestualizzato all'interno di un meccanismo produttivo plausibile, circoscritto in un mondo reale, rigidamente vincolato ai dettami economici che regolano l'attività artistica degli studios. Tra chi guarda e il film si insinua quindi un terzo soggetto, tradizionalmente occultato dall'esperienza cinematografica finale dello spettatore, che qui invece apre il film vero e proprio, quello in carne e ossa. La trama, saldamente ormeggiata alla tradizione del genere noir, vede in un misterioso omicidio di cui il coniglio viene accusato lo snodo cruciale su cui indagherà Eddie Valliant (Bob Hoskins), l'alcolizzato eroe della vicenda. Nel bel mezzo dell'inghippo si inseriscono le sensuali mosse di Jessica Rabbit, ambigua femme fatale in grado di far girare la testa a uomini e disegni, e i sordidi piani del malvagio Giudice Morton (Christopher Lloyd) che coinvolgono la colorata Cartoonia.

Si è soliti guardare a "Chi ha incastrato Roger Rabbit" (si scrive proprio così, senza il punto interrogativo) come pietra miliare soprattutto per le sue peculiarità tecniche: non è il primo caso di convivenza tra attori reali e cartoni animati, ma la commistione perfetta che Industrial Light And Magic di Spielberg e Lucas (certificata dall'Oscar) realizza tra l'immagine animata e la pellicola di Zemeckis rende il film, prima che avvincente o riuscito, soprattutto molto affascinante. E il fascino è accentuato dall'unione di universi cinematografici (probabilmente oggi li chiameremmo franchise) mutuamente escludentesi in circostanze "normali": vedere convivere Bugs Bunny e Topolino nella medesima scena, vale a dire i simboli assoluti di un'intera epoca dell'animazione e icone di due mayor rivali, testimonia da sé come l'esperimento di Zemeckis e Spielberg si sostanzi in primo luogo in un sentito omaggio a serie rivoluzionarie come Looney Tunes o Merrie Melodies, nonché ai classici di Walt Disney. In realtà a stupire oggi non è tanto la compresenza di umano e non umano all'interno di un'immagine ibrida in grado di assimilare forme diverse e opposte, quanto piuttosto l'unione tra il sudiciume del filone hard-boiled e la tradizionale spensieratezza del cartoon, dove morte e sesso (elementi fondanti del noir) vengono di fatto annullati. Il vertice di tale ibridazione cinematografica di chiara matrice post-moderna lo si trova nel personaggio dell'alcolizzato detective interpretato da Bob Hoskins: egli odia i cartoni (uno di loro ha fatto fuori il fratello) e possiede i vizi tipici di chi ha sangue nelle vene, eppure sarà costretto non solo a lavorare per loro, ma a trasformarsi letteralmente in uno di essi per avere la meglio sui cattivi (sarà fondamentale per eliminare le faine al servizio del villain Morton). Il processo che ne regola la trasformazione assottiglia il divario tra cartoni animati e uomini in carne e ossa, omaggiando tra l'altro forme di comicità fisiche che hanno fatto la fortuna di Charlie Chaplin e tanti altri. Una barriera tra due mondi che si disintegra proprio per l'azione comica del protagonista, peraltro già anticipata da una battuta del coniglio Roger ("Vedi, una risata può essere una cosa molto potente...a volte nella vita è l'unica arma che ci rimane"). A tal proposito, da un lato vi è chi ha voluto intravedere nelle modalità di ingresso a Cartoonia un esplicito doppio senso sfacciatamente sessuale (leggasi a tal proposito l'analisi di Marco Toscano presente nel "Robert Zemeckis" curato da Gianni Canova), in linea con le modalità espressive del resto del film (basti pensare al fare "farfallina" in fuori-campo); d'altro canto non è stato da altri mancato di suggerire come il trattamento riservato ai cartoni si rifaccia a un atteggiamento apertamente razzista nei piani alti hollywoodiani, e che se questi vengono confinati nel sinistro distretto dell'animazione gli indizi per una voluta metafora sociale siano ben presenti.

Per quanto di primo acchito "Chi ha incastrato Roger Rabbit" possa apparire come una scheggia impazzita impossibile da inserire in modo univoco all'interno della Storia del Cinema, a ben vedere la sua collocazione all'interno della carriera di Robert Zemeckis non risulta affatto problematica. Consci di un'unicità propria di "Chi ha incastrato Roger Rabbit" che non può essere negata nè sminuita, tematiche care al regista di origini lituane rispuntano comunque in tutto il film. Innanzitutto la corsa contro il tempo che sostiene la sezione finale (che però risulta la meno incisiva, perché procede per accumulo perdendo la genialità della prima ora) costituisce non solo un meccanismo narrativo gratuito e abusato, ma una coerente riproposizione di una vera e propria ossessione che irrora le vene dell'intera filmografia di Zemeckis, basterebbe citare arbitrariamente uno qualsiasi dei suoi lavori. Ma la stessa ricerca di un'immagine ibrida e sperimentale coinvolge da sempre l'attività di Zemeckis, dagli impossibili incontri di Forrest Gump con JFK alla sfrenata adesione a quella motion capture che lo ha tenuto occupato per quasi un decennio, portando chiaramente in dote il marchio di fabbrica del film-maker. Ibridazione che dalla mera tecnica si allarga ai linguaggi, agli stilemi cinematografici. In altre parole, ai generi. D'altronde quasi nessuno dei film di Zemeckis si incastona rigidamente all'interno di un genere e "Chi ha incastrato Roger Rabbit" ne è un fulgido esempio.

Da anni si discute di un possibile sequel di questo capolavoro e ha fatto capolino persino il nome di J.J. Abrams. Notizie e rumors volevano a un certo punto Zemeckis al lavoro su un fatidico secondo capitolo animato con la motion capture, secondo alcuni lo sceneggiatore Jeffrey Price aveva già pronto lo script. In realtà non se ne è fatto mai nulla, e probabilmente niente verrà fatto. "Looney Tunes: Back in Action" del 2004, girato da Joe Dante, è la cosa più simile al film di Zemeckis che si sia vista sul grande schermo: ne ripropone la tecnica ma anche alcuni assunti di base (i cartoon sono attori professionisti con un'esistenza privata slegata dal loro lavoro), pur facendone un prodotto essenzialmente legato all'infanzia. L'insuccesso di quella operazione ha probabilmente chiuso le porte a un ritorno di Roger e Jessica. Non dobbiamo quindi preoccuparci troppo che qualcuno possa rovinare la memoria di questo gioiello di fine anni 80.

04/03/2018

Cast e credits

cast:
Bob Hoskins, Christopher Lloyd, Joanna Cassidy


regia:
Robert Zemeckis


titolo originale:
Who Framed Roger Rabbit


distribuzione:
Touchstone Pictures, Amblin Entertainment


durata:
103'


produzione:
Steven Spielberg, Kathleen Kennedy


sceneggiatura:
Jeffrey Price


fotografia:
Dean Cundey


montaggio:
Arthur Schmidt


musiche:
Alan Silvestri


Trama
L'investigatore Eddie Valliant viene assunto per far luce sulle vicende private del cartone animato Roger Rabbit, le cui amnesie sul lavoro hanno fatto perdere la pazienza al proprietario degli studi R.K.Maroon. Il caso sembra avere vita breve (ben presto si scopre che viene "tradito" dalla moglie), ma un misterioso omicidio spinge l'alcolizzato detective a scavare nel sordido mondo di Hollywood e Cartoonia.