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recensione di Eugenio Radin

“Lungi da te far morire il giusto con l’empio,
così che il giusto sia trattato come l’empio; lungi da te!”
(Genesi, 18, 25)


The Ox-Bow Incident

Siamo agli albori della Seconda Guerra Mondiale quando William Wellman, rimasto colpito dalla lettura di un romanzo di Walter Van Tilburg Clark intitolato “The Ox-Bow Incident”, si presenta agli studi della 20th Century Fox per proporre un adattamento cinematografico del testo. Darryl Zanuck però, fondatore e padrino del celebre studio, avvezzo ai western fordiani (che gli frutteranno il premio Oscar nel 1944) non sembra credere granché nelle possibilità di successo di una pellicola così atipica e crepuscolare, priva di eroismo e dai toni pessimistici e cupi. Tuttavia, con mentalità imprenditoriale e attenendosi a una prassi tipica dello studio-system dell’epoca, accetta di produrre la storia, a patto che Wellman si impegni a dirigere altri due film, di carattere più commerciale: “Thunder Birds”, pellicola di propaganda bellica basata sulle vicende dell’aviazione americana (interessante più che altro da un punto di vista tecnico) e “Buffalo Bill”, opera biografica e senza particolari pregi.
Il progetto viene affidato così al produttore Lamar Trotti, che ne stende anche la sceneggiatura. Il budget piuttosto basso costringe inoltre attori e regista a lavorare negli spazi chiusi degli studios, con pochissime riprese in esterni: particolare che, seppur imposto dall’alto, contribuirà a rendere ancora più claustrofobica l’atmosfera generale del film.

Tra il western e il suo superamento

Riguardo a tale atmosfera gioca però un ruolo decisivo l’esperienza della guerra che gli americani stavano combattendo in Europa. Il secondo conflitto mondiale diviene, rapidamente e allo stesso modo in cui lo era stato il primo, un evento totalizzante, che influenza non soltanto questioni politiche ed economiche, ma la stessa industria dello spettacolo e gli ambienti culturali, dalla letteratura fino al cinema.
Spesso la guerra diviene vero e proprio soggetto delle pellicole, sia per quanto riguarda film patriottico-propagandistici o di intrattenimento (com’è appunto il caso del già citato “Thunder Birds”, dello stesso Wellman), che in opere più impegnate e in produzioni più mature, alcune delle quali destinate ad assurgere alla dimensione di veri e propri cult-movie (è, ad esempio, il caso di “Casablanca” di Curtiz).
Talvolta però, e in misura ancora maggiore, gli avvenimenti bellici influenzano indirettamente il mondo dell’arte, stimolando la nascita di tendenze stilistiche nuove (il neorealismo italiano in primis) e riflessioni sociali più consapevoli. Come sostengono Giaime Alonge e Giulia Carluccio nel loro testo sul cinema classico americano: “L’esperienza - diretta o meno - della guerra funge da acceleratore per una sorta di via hollywoodiana al realismo. Molti film dell’immediato dopo-guerra [ma anche, per l’appunto, film contemporanei al conflitto, n.d.r.] affrontano con schiettezza, oltre che con una carica innovativa sul piano stilistico, grandi questioni sociali”.
Tale fenomeno, che subirà un brusco ridimensionamento negli anni del maccartismo, avrà una notevole influenza anche sulle logiche dei generi hollywoodiani, dal noir, alla commedia, fino, per l’appunto, al western.
Come fece notare qualche anno dopo André Bazin, all’interno di quest’ultimo genere: “l’influenza indiretta della guerra fa sì che ai temi tradizionali si sostituisca e si sovrapponga una tesi morale e sociale”. È in questo senso che possiamo ritenere “Alba Fatale” il capostipite di quello che il maestro della critica francese definiva sur-western: “un western che si vergognerebbe di non essere che se stesso e che cerca di giustificare la propria esistenza con un interesse supplementare: di ordine estetico, sociologico, morale, psicologico, politico, erotico…, insomma, un qualche valore estrinseco al genere e che si suppone lo arricchisca”: in questo caso, con una profonda riflessione sulla giustizia.
Se l’epopea cinematografica del western nasce come la costruzione di una mitologia nazionale fatta di eroici mandriani e famiglie di coloni, locomotive e cavalli, fuorilegge e indiani, ma soprattutto di universi valoriali piuttosto manichei: di cowboys giusti e senza macchia e di selvaggi spietati dallo sguardo impenetrabile, quella stessa mitologia viene ora guardata con occhio esterno e sottoposta al tribunale del dubbio, spogliata dalla veste idealista e restituita a un realismo tragico.
Se guardiamo alla costruzione drammatica di “Alba Fatale” ci accorgiamo che essa rimane aggrappata a diversi cliché del genere: un cowboy giovane e bello arriva assieme al suo pard in una piccola cittadina sperduta la cui vita è concentrata nel saloon e dove non rimane che “giocare, bere, dormire, mangiare e litigare”. In questo piccolo universo abitato da tipi umani ben riconoscibili (l’uomo di legge, il giudice, l’ex militare, l’alcolizzato, etc.), presto arriva la notizia che due ladri di bestiame hanno assassinato un allevatore della zona. L’assenza dello sceriffo permette alla folla, capeggiata da un ex generale sudista, di farsi giustizia da sé e di linciare i criminali.
Anche la scelta di ambientare nella natura selvaggia la scena della cattura e della conseguente impiccagione rimanda a un topos che risale agli albori del genere: quello della contrapposizione tra wildness e tame, i due ambienti che rispecchiano rispettivamente la mancanza di legge e la civiltà.
Il plot-twist finale però, in cui si scopre che l’allevatore è ancora vivo e che i tre uomini appena giustiziati sono del tutto innocenti, capovolge questi valori, mostrando come sotto quella violenza e quelle morti non si nasconda altro che la rabbia repressa della popolazione, prontamente direzionata verso il primo capro espiatorio da capi militari autoritari e affamati di potere (il parallelo con i massacri della guerra è evidente).
Ciò che però più cambia, nel film di Wellman, rispetto alla classicità del genere, è lo stile con cui questa storia è raccontata: uno stile che all’eroismo e alla speranza nel domani sostituisce un generale sentimento di impotenza e un pessimismo verso un Nuovo Mondo già troppo corrotto.
Con un'estetica sobria ed essenziale Wellman demolisce la drammatizzazione e l’archetipo dell’eroe romantico; la freddezza delle inquadrature rinuncia alle grandi sequenze fordiane, alle cavalcate e agli scontri coi nativi, ai grandi spazi, ai canyons e alle praterie, per concentrarsi invece sui volti spenti e tristi dei personaggi, ripresi spesso in plongée o in contre-plongée per evidenziare i rapporti di forza o di debolezza.

La morte dell’eroe e il pericolo della massa

È soprattutto la figura dell’eroe, come abbiamo accennato, a sgretolarsi sotto i colpi del western wellmaniano: seppur non manchi un divo protagonista, il personaggio interpretato da Fonda è assai distante dal cowboy classico “alla John Wayne”. Complice anche la fisionomia gracile dell’attore, il personaggio principale, introverso e pensieroso, rimane qui in una posizione di passività, dalla quale sfugge a ogni possibile controllo degli avvenimenti. È piuttosto un osservatore, un riferimento dell’istanza narrante, che non spicca sugli altri per coraggio o determinazione e che anzi spesso rimane in secondo piano rispetto ai personaggi, ben più incisivi, di Dana Andrews o di Frank Conroy. Egli poco può fare per impedire l’esecuzione sommaria: invoca un giusto processo, ma non compie gesti avventati per ristabilire un equilibrio e finisce infine per riconoscere la propria impotenza di fronte alla massa, sotto la guida della quale ogni individualità si discioglie in una leviatanica cecità morale: “Credo ci siano altri uomini buoni qui” - scrive uno dei tre prigionieri alla moglie, poco prima di venir assassinato - “ma forse non sanno quel che fanno. Sono loro di cui ho compassione. Perché per me sarà finita tra poco, mentre essi dovranno ricordarsene per tutta la vita”. Al cuore di tale sentenza (che tradisce un evidente rimando alla passione cristiana: “Perdonali Padre, perché non sanno quello che fanno”) e al cuore del film sta evidentemente la spietata critica nei confronti delle masse, descritte come degli organismi acefali creati dal malumore e dominati da un’istintività animale, che portano con sé l’incapacità di distinguere il giusto dall’ingiusto e sbarrano in tal modo il cammino dell’etica.
Il risentimento di Wellman nei confronti della massificazione della società è evidente, ma in questo il regista statunitense non fu un caso isolato: tale risentimento funse da minimo comune denominatore per moltissime personalità culturali del Novecento (e persino di parte dell’Ottocento), che videro in tale fenomeno il terreno fertile per i totalitarismi che stavano scuotendo l’Europa e che avevano condotto il mondo verso una nuova guerra mondiale. Come scriveva Nathaniel Hawthorne già un secolo prima di Wellman: “Quando una massa ignorante si mette a voler vedere con i propri occhi, è fin troppo facile che veda lucciole per lanterne”.
Non solo la massa rende impossibile all’uomo l'esercizio della propria moralità, non solo rende sfumati i contorni di opinione e verità, ma rende altresì vana qualsiasi azione eroica, perché la forza del singolo si annulla di fronte alla potenza del Leviatano.

Ragione, verità e giustizia

È indubbio che il succo della pellicola stia in una grande riflessione sulla giustizia: “Alba fatale” anticipa, in questo senso, altre celebri pellicole che, negli anni seguenti, assunsero tale questione come soggetto centrale delle proprie storie: da “Mezzogiorno di fuoco” a “L’uomo che uccise Liberty Valance”  (volendo uscire dal genere western e impossibile non citare “La parola ai giurati” di Lumet, con lo stesso Fonda in un ruolo molto simile a quello interpretato nel film di Wellman).
L’opera si pone però in netta contrapposizione sia rispetto a un umanesimo che vuole il trionfo della ragione umana sulle forze oscure della natura, sia rispetto a quella corrente trascendentalista - tipicamente americana - che rappresentava l’uomo in una sorta di comunione mistica con essa. La natura non è qui la dimora accogliente dell’uomo, né un’idealizzazione romantica, né tantomeno l’ancella della ragione. Essa è, piuttosto, lo scenario psicanalitico in cui le pulsioni inconsce e gli istinti si manifestano e trovano il loro libero sfogo, in cui la sete di violenza dell’uomo si fa strada.
Il bosco in cui vengono catturati i presunti ladri di bestiame è il luogo in cui si capovolgono i valori illuministici e dove la civiltà e l’eroismo mostrano la loro seconda faccia; lo spazio in cui la giustizia mostra il suo lato oscuro e dove la legge morale non ha più alcuna autorità sui personaggi; la dimensione dove la prospettiva oggettiva si trasforma in soggettiva, dove l’uomo non è più in grado di affermare la realtà, ma solo di fornirne una propria (parziale) interpretazione.
“Non esistono verità, ma solo interpretazioni” certo, ma la tesi nicciana è in qualche modo confutata da Wellman, perché ogni rappresentazione dev’essere in primo luogo un’adeguatio, un attenersi agli eventi reali, alla corrispondenza ai fatti, e perché non ogni massima soggettiva può assurgere alla dimensione di imperativo categorico, non ogni interpretazione può essere morale. Si potrebbe certo obbiettare che non esistono fatti morali o immorali, ma alla prospettiva del superuomo, dell’eroe tragico, Wellman preferisce quella dell’uomo, con tutte le sue debolezze, le sue credenze, i suoi pregiudizi e le sue sfumature valoriali.
La chiave è, ancora una volta, la lettera che il condannato scrive alla moglie in punto di morte, recitata poi di fronte a un pubblico colpevole e affranto, dal personaggio di Fonda: “Un uomo non può farsi la legge da sé e uccidere senza far male a tutto il genere umano, perché così ha violato non una sola legge, ma tutte le leggi del mondo. La legge è qualcosa di più grande che non la parola dei codici o i giudici o gli avvocati che la mettono in atto. È tutto quanto il mondo ha imparato circa la giustizia e il bene e il male”.
È la coscienza morale, il sentimento che richiama l’uomo alla giustizia, quella che Wellman vuole risvegliare e quella che la massa tende a obnubilare, conducendo gli uomini verso la banalità di un male perpetrato quasi per sbaglio, per una sciocca incomprensione, per una notizia falsa gridata ai quattro venti: “Non può esserci di quella che chiamiamo civiltà se gli uomini non hanno coscienza”.
Sul finale Wellman lascia una speranza, lancia un appello alla coscienza che sola può aprire le porte di una fraternità universale, rendere gli uomini consapevoli di loro stessi e delle loro azioni e riportare l’armonia e l’equilibrio. Ma la voce che risuona tra gli ambienti del piccolo saloon cittadino è quella di un morto, perché la storia ha già fatto il suo corso e ormai non rimane che raccontarla.



Bibliografia:

G. Alonge, G. Carluccio, Il cinema americano classico, Laterza, 2006
M. Tetro (a cura di), S. Di Marino (a cura di), Guida al cinema western, Odoya, 2016
A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, 1999
C. Cohen, Il western - il vero volto del cinema americano, Lindau, 2006
F. Scapolla, La leggenda del western - da John Ford a Quentin Tarantino, Il Melangolo, 2016


13/05/2019

Cast e credits

cast:
Henry Fonda, Dana Andrews, Anthony Quinn, Mary Beth Hughes, William Eythe, Harry Morgan, Jane Darwell


regia:
William A. Wellman


titolo originale:
The Ox-Bow Incident


distribuzione:
20th Century Fox


durata:
75'


produzione:
20th Century Fox Film Corporation


sceneggiatura:
Lamar Trotti


fotografia:
Arthur C. Miller


scenografie:
James Basevi, Richard Day, Frank E. Hughes, Thomas Little


montaggio:
Allen McNeil


costumi:
Earl Luick, Sam Benson


musiche:
Cyril J. Mockridge


Trama
In una piccola città di frontiera dei ladri di bestiame hanno derubato e assassinato un allevatore locale. L'assenza dello sceriffo permetterà alla folla, capeggiata da un ex generale sudista di farsi giustizia da sé, prima di scoprire che i fatti non sono andati esattamente come pensavano.