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recensione di Manuel Billi
8.0/10

Spudorata. Questo è l'aggettivo che più si addice all'ultima fatica di François Ozon. Abbandonati gli intellettualismi da ultimo arrivato che affliggevano alcune delle opere precedenti (nate vecchie e presto dimenticate), il regista riprende il personale percorso di rivisitazione dei generi iniziato con "Otto donne", adattando un racconto di Elisabeth Taylor (1912-1975) che è un incredibile concentrato di luoghi comuni sul sogno amoroso e sulla smania di successo (lotta tra libertà e conformismo, tra sogno e realtà), nella scelta del quale il regista sembra aver fatto propria una massima di Douglas Sirk sulle fonti del melodramma cinematografico: noi attingiamo dalla spazzatura...

L'angelica eroina, scrittrice di romanzacci rosa, ridisegna la dimora sognata da bimba, la propria "casa di bambola", una sorta di Xanadu dei sentimenti, prigione dorata e kitsch nella quale riparare separandosi dal mondo (dimenticandosi di "vivere la realtà"). Figlia dell'Ottocento, la donna è una sorta di Madame Bovary che non legge i feuillettons ma li scrive (dunque una Bovary "al cubo"), e come la protagonista del romanzo di Flaubert costruisce i rapporti umani ed amorosi sulla scorta delle letture (qui scritture) fatte/partorite: entrambe sono eroine vittime della cattiva arte, potremmo dire, che credono che il Bello sia una categoria estetica riconducibile all'Eccessivo.

L'arte non imita più la vita, ma imita il sogno e, parafrasando Wilde ed il suo paradossale "rovesciamento", la vita imita il sogno, diviene sogno. Infatti, scrivere di ciò che non si è vissuto e sperimentato (libero esercizio dell'immaginazione) significa, per la protagonista, rinnegare la realtà e optare per il sogno: il principio di piacere si impone su quello di realtà e pure la morte diventa un orpello di pizzo nero da ostentare al cimitero leggendo un peana funebre menzognero. Ostinazione, abnegazione, volontà di apparire più che di essere, di costruire fragili regni di cartapesta: itinerario prevedibilissimo, dalla prima all'ultima inquadratura. Non a caso, la vera storia d'amore, quella non sognata/idealizzata tra la protagonista e la Lucy Russell vista e amata ne "La nobildonna e il duca", saffica e di struggente intensità, è posta ai margini del racconto ed "esploderà" solo nel finale.

E' evidente che l'interesse di Ozon non risieda nella messa in scena, in bella forma, di un plot originale, ma nel prendere la materia di partenza, incredibile campione di una tradizione "sentimentale" figlia degenere del tardoromanticismo, e piegarla e deformarla fino al grottesco, rendendo quasi sublime cotanta stucchevole e programmatica esibizione di buone cose di pessimo gusto (tra le tante, una piuma di pavone gettata su una tomba, un bacio che suggella l'inizio di un amore scambiato sotto la pioggia, con tanto di arcobaleno ad avvolgere, come un'aureola camp, i due amanti...). Come disse Eco a proposito del sentimentalismo, due o tre clichè sono indice di cattivo gusto, ma un catalogo ragionato di ornamenti e situazioni kitsch può essere addirittura commovente.

Romola Garai presta il volto ed il corpo al personaggio principale, prendendo a modello la Viviane Leigh di "Via col vento" e la Bette Davis di "La figlia del vento", così come Ozon sembra guardare al Cukor di "Piccole donne" e al primo Minnelli nella prima metà (la costruzione del sogno-Amore), mentre la seconda parte (de-costruzione del sogno-Morte) viene dritta dal Wyler più barocco e malsano (ad esempio, il ritratto modernista di una "passatista", splendida e tragica "contraddizione visiva" che sintetizza efficacemente il senso ed il cuore del film, sembra uscito dai drammi dei registi succitati, piuttosto che dalla "letteratura alta", "Ritratto di Dorian Gray" in primis).

Ozon, come Flaubert, è e vuole essere il doppio cinematografico della scrittrice Deverell, l'occhio meccanico novecentesco che si confronta e fa proprio l'universo culturale e sociale di un altro secolo. Lo sguardo adottato non è oggettivo e distanziato ma deformato, essendo il punto di vista privilegiato quello dell'eroina: viviamo e condividiamo, visivamente, il delirio infantile ed amoroso della donna; non ci struggiamo per lei, ma con lei. In questo modo, il regista riesce in un'impresa non da poco: cogliere il senso intimo, l'anima ingenua e fanciullesca del feuilleton e donarla allo spettatore di oggi che, se ben disposto, non potrà che goderne.

"Angel" mira ad essere (ed in fondo lo è) non già un'operazione nostalgica o postmoderna (concetto/ombrello che andrebbe emarginato dagli studi prima che finisca con l'inghiottire noi tutti), ma un oggetto anomalo fuori del tempo e dalle mode, non (solo) un film ambientato all'inizio del XX secolo, ma un ipotetico film "tardottocentesco", ovvero un'opera che sembra un prodotto di quel tempo e non solo una riflessione su quell'epoca, fragile e vulnerabile come l'universo costruito dall'eroina, che si strugge al calore delle bombe e che al rosso sangue preferisce il color porpora delle tappezzerie. "Angel" sta al mondo che rappresenta come il raggio verde al tramonto: ultimo anomalo bagliore di un modus imaginandi e vivendi spazzato via dal disagio, dal malessere, dal dolore che il nuovo secolo porterà con sé. Dietro la patina ed oltre le cortine color malva si nasconde una visione del mondo disperata, tragicamente consapevole della fine del tempo/dei tempi in cui era lecito/legittimo sognare.

(collaborazione con Gli Spietati)


05/05/2008

Cast e credits

cast:
Simon Woods, Sam Neill, Lucy Russell, Charlotte Rampling, Romola Garai


regia:
François Ozon


distribuzione:
Teodora Film


durata:
118'


produzione:
Denis Lenoir


sceneggiatura:
François Ozon


Trama
Successo, amore, fallimento e morte della scrittrice Angel Deverell nell’Inghilterra di inizio secolo
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