Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
6.0/10

"Baarìa" ha fatto parlare di sé ancor prima della sua uscita nella sale per i motivi più disparati: per gli alti costi di produzione (venticinque milioni di euro!); per il set tunisino (tre volte più grande di quello di "Gangs of New York"!); per il cast pieno di nomi famosi (dalla b di Aldo Baglio alla s di Salemme non ne manca uno!); per l'uscita poco felice del presidente del consiglio, che ha definito il film "un capolavoro" (perché aveva apprezzato una sequenza); per il produttore Pier Silvio Berlusconi, che ha definito il film alla medesima maniera del padre, pur dicendo subito dopo di non averlo ancora visto. Siamo pertanto arrivati in sala stremati dal troppo celiare intorno ad aspetti collaterali al film, fatto che non può non aver acuito le perplessità sull'ultima fatica di Tornatore, che sembra scontare a ogni film un non ben noto peccato originale (l'aver vinto l'Academy Award?) e una conseguente, e abbastanza fastidiosa, gogna critica.

I soliti dubbi gravitanti il film di Tornatore non erano, però, campati in aria.
L'impianto da kolossal di casa nostra con tutte le star e le starlette di cui prima, già faceva storcere il naso di suo; se a questo aggiungiamo che si esce dalla sala con gli stessi dubbi di quando si entra, si capisce che qualcosa non funziona davvero.
La magniloquente storia della famiglia Torrenuova, che segue praticamente tutta la vita di Peppino (da suo padre Cicco a suo figlio Pietro) e con essa di Bagheria (il paese natale del regista) è di evidente impostazione autobiografica (verosimilmente Pietro, che colleziona pezzi di pellicola come se fossero figurine, è Peppuccio stesso) e va avanti per accumulo di sequenze, nel tipico stile del regista. L'amarcord tornatoriano non è tenuto insieme dall'onirismo tipico di Fellini (anche se di tanto in tanto gli strizza l'occhio), ma solo dalla vita della popolazione di Bagheria: il ponte tra il singolo e la società è però privo di qualsivoglia complessità, livellato da semplicismi che rifuggono dal mettere in scena svolte realmente importanti (ad esempio, la disillusione politica del suo protagonista dopo il viaggio in Unione Sovietica).
"Baarìa" è un flusso di ricordi incessante, senza soluzione di continuità, e per questo fa paura: potrebbe durare cinque minuti come cinquecento. Per l'intera durata si susseguono scene(tte) quasi autoconclusive, che finiscono con una dissolvenza che le riporta al nero oblio della memoria. Questa narrazione volutamente sincopata comporta la mancanza di dialogo fra storia e Storia, manca cioè quel salto di qualità che renderebbe "Baarìa" un film universale sulla storia d'Italia.
A niente valgono le continue carrellate, i dolly e le panoramiche del regista siciliano, con la sempre più ridondante musica di Morricone che non lascia un attimo di tregua al film: non ci può essere forma che tenga quando il contenuto è sì friabile. E a niente vale soprattutto la patetica e posticcia sequenza di raccordo finale, che preferiamo dimenticare.
Tralasciando poi il virtuosismo spesso accademico di Tornatore - che forse dovrebbe provare a lavorare di sottrazione per riuscire a ottenere effetti nuovi e aprire altri orizzonti per il suo cinema - quello che limita enormemente il comparto visivo è la laccatissima fotografia di Enrico Lucidi, che sa essere funzionale solo nelle poche scene notturne. In tal modo il lavoro di ricostruzione scenografico, piuttosto preciso e dettagliato, guastato da una patina dolce&gabbanesca.

In questa rassegna di difetti e esagerazioni, non si può non parlare del cast: i veri protagonisti del film sono due, i giovani e sconosciuti Francesco Scianna (che interpreta Peppino Torrenuova in maniera abbastanza convincente) e Margaret Madè (magnetica e di gran presenza scenica), che dividono la scena con veterani come Angela Molina e Lina Sastri (rispettivamente la madre da anziana e la nonna di Mannina/Madè) e le tantissime e giustamente vituperate apparizioni di attori nostrani. Esse danno spesso una sensazione di inutile aggiunta (vedi l'uso di Beppe Fiorello), se non di dichiarato occhiolino al pubblico (il "casuale" incontro tra Ficarra e Picone, l'autocitazione di "Malèna" con la Bellucci).

Cosa rimane dunque di "Baarìa"? Resta un film personalissimo, probabilmente il più sincero di Giuseppe Tornatore da tanti anni a questa parte: un'opera a suo modo unica, perché sconsiderata. Proiettata com'è verso il passato, verso le tradizioni e le superstizioni di una regione sempre ai margini della vita italiana, Tornatore non si accorge - o non si interessa - della perdita di legame con il presente, relegando i suoi ricordi a un tempo e a un luogo magico e cristallizzato nella memoria, che è quello del film stesso. Il grande pregio e il grande difetto di "Baarìa" consta quindi nel suo provincialismo: è un film chiuso in se stesso, che per essere compreso totalmente non può prescindere dal luogo che racconta. Eliminando il dialetto baarìoto, ad esempio, si tradisce un elemento contraddistintivo fondamentale, poiché solo quella lingua può amalgamarsi alla gestualità e all'ambiente. Così ogni sequenza, ogni detto popolare citato, pur nella loro inessenzialità, rappresentano un tassello di passato che appartiene a tutti i siciliani che, tramite i classici racconti dei nonni e dei genitori, conoscono anche le generazioni più giovani, pur non avendo vissuto certe esperienze: si tratta di un sostrato comune che (noi) intendiamo alla perfezione e che non può non provocarci un sussulto al cuore per come esse prendano forma sullo schermo. Forse, il desiderio di Giuseppe Tornatore era solo questo: un atto d'amore alla sua terra, senza mezze misure. C'è riuscito solo in parte, cadendo spesso nella semplice illustrazione, ma in un cinema italiano così povero di audacia, dobbiamo dargli almeno atto di averci provato.


27/09/2009

Cast e credits

cast:
Francesco Scianna, Margareth Madè, Angela Molina, Lina Sastri, Enrico Lo Verso, Salvatore Ficarra, Nicole Grimaudo


regia:
Giuseppe Tornatore


distribuzione:
Medusa


durata:
150'


produzione:
Tarak Ben Ammar, Marina Berlusconi, Mario Cotone


sceneggiatura:
Giuseppe Tornatore


fotografia:
Enrico Lucidi


scenografie:
Cosimo Gomez, Maurizio Sabatini


montaggio:
Massimo Quaglia


costumi:
Luigi Bonanno


musiche:
Ennio Morricone


Trama
Una famiglia siciliana raccontata attraverso tre generazioni: da Cicco al figlio Peppino al nipote Pietro... Sfiorando le vicende private di questi personaggi e dei loro familiari, il film evoca gli amori, i sogni, le delusioni di un'intera comunità vissuta tra gli anni trenta e gli anni ottanta del secolo scorso nella provincia di Palermo. Negli anni del fascismo Cicco è un modesto pecoraio che trova, però, il tempo di dedicarsi al proprio mito: i libri, i poemi cavallereschi, i grandi romanzi popolari. Nelle stagioni della fame e della seconda guerra mondiale, suo figlio Peppino s'imbatte nell'ingiustizia e scopre la passione per la politica