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recensione di Giancarlo Usai
8.5/10

Per capire un po' meglio la direzione che sta prendendo la carriera del grande Robert Zemeckis, vale forse la pena partire da una considerazione tecnica. Se scorriamo tutta la filmografia del cineasta americano, "Benvenuti a Marwen" rappresenta la seconda volta in assoluto in cui ha scritto da solo la sceneggiatura dell'opera prima di dirigerla. Solitamente in coppia con il suo storico sodale Bob Gale, altre volte con l'intervento di altri sceneggiatori, quasi sempre Zemeckis, fedele alla scuola del suo "fratello maggiore" Steven Spielberg, si è concentrato sul lavoro di set, sulla regia e la direzione degli attori. Ma, soprattutto nei recenti titoli che appartengono al nuovo millennio, qualcosa di diverso si era già intravisto: una visione del mondo che si stava consolidando, una necessità, quasi un'urgenza, di comunicare qualcosa in un modo così personale che, forse, solo la scrittura, più ancora della regia, poteva veicolare nella maniera più efficace possibile.

È così, dunque, che arriviamo a "Benvenuti a Marwen", pellicola sfortunatissima in patria, sia al botteghino sia nei responsi della critica. Film tratto da una storia vera, certo, perché Mark Hogancamp esiste davvero e vive a New York, ma, dopotutto, nel cinema di Zemeckis che cosa conta se un soggetto è originale o meno? Stiamo parlando di uno dei più geniali manipolatori di Hollywood, di un funambolo della macchina da presa e dell'arte della narrazione, capace di plasmare, trasformare, capovolgere qualsiasi punto di vista sorprendendoci con un movimento di macchina inatteso, uno stacco di montaggio impensabile, una battuta pronunciata nel modo più acuto. Ecco, tutto questo, ancora una volta, si realizza davanti ai nostri occhi increduli, con un gioco cinematografico virtuoso e sorprendente che non dimentica mai l'origine tragica del racconto.

Prima di tutto, la storia. Mark è un artista, un eccellente disegnatore di New York vittima della sua stessa diversità: ama indossare scarpe da donna, è attratto dall'universo femminile in modo non convenzionale. Ciò gli costa un'aggressione odiosa, da parte di un gruppo di suprematisti bianchi, che lo taglia letteralmente in due. La sua vita si spezza in un prima e in un dopo: perde la memoria, il suo talento nel disegno. Allora ricostruisce pian piano ciò che resta dei suoi ricordi attraverso delle creazioni materiali, che hanno preso il posto dei fumetti e delle vignette: ricrea nel giardino di casa sua Marwen, immaginaria cittadina del Belgio teatro di violenti scontri tra i nazisti da una parte e un gruppo di coraggiose donne dall'altra, ovviamente ai tempi della Seconda guerra mondiale. In mezzo c'è Hogie, un soldato senza macchia e senza paura, coraggioso e micidiale in battaglia, dal fascino irresistibile verso quelle stesse donne-soldato che lo proteggono e lo coccolano come un re. Zemeckis rispolvera l'utilizzo della motion capture, stavolta con ingenti quantità di computer grafica, per animare le vicende di Marwen. E così, con un gioco di macchina e di montaggio schizofrenico, continua a passare dal mondo reale al mondo in miniatura. Da una parte le sofferenze reali di Mark, il dolore lancinante e profondo, dall'altra le avventure irreali di Hogie, il suo alter ego capace di essere ciò che lui non sarà mai: un virile eroe duro da uccidere.

Il regista di Chicago ama rischiare, corre pericoli costantemente in tutte le sue opere. In "Benvenuti a Marwen", Zemeckis flirta addirittura con il trash per tutto il tempo. Le sue allegorie, le sue similitudini, i suoi accostamenti sono sempre sul filo dell'eccesso, dell'impossibile. Eppure, sempre, con una delicatezza disarmante, il suo sguardo non oltrepassa mai la linea di confine. Sì, certo, c'è l'arte come terapia che allontana dal dolore, c'è l'amore, in realtà più immaginato e frainteso che reale e concreto; c'è tutto questo che, nel pieno del rispetto di un'idea di cinema solare e aperto al mondo, contribuisce a sottolineare l'assunto sulle proprietà curative di un luogo come il cinema. Ma c'è anche dell'altro, che Zemeckis lascia sottotraccia, lascia soltanto intuire. Ed è questa parte nascosta e non dichiarata di "Benvenuti a Marwen" che troviamo stupefacente: senza mai parlare di omofobia, di sessualità, di discriminazione, entriamo in un mondo contemporaneo dove la componente dissonante rispetto alla consuetudine viene bandita, dileggiata, nella migliore delle ipotesi semplicemente non capita. Lo stesso Mark, cui dà volto e voce un bravissimo Steve Carell, non riesce a spiegare alle sue amiche il senso delle sue pulsioni. E nemmeno a Zemeckis interessa chiarirle: quando Hogie si innamora della nuova arrivata Nicol è vero amore? Reale attrazione? Oppure è una proiezione che vorrebbe tendere alla normalità, quando in realtà il protagonista sa o comunque sente che non potrà mai provare certi sentimenti? Al cineasta di Chicago chiarire il senso di questi dubbi non interessa. Non è un difetto di sceneggiatura, come molti in America hanno scritto. In realtà, è una scelta consapevole, un atto di delicatezza e di rispetto. Bisogna essere convintamente gay per poter essere vittima di un crimine d'odio? O è sufficiente essere soltanto diversi dalla verità conforme accettata?

Siamo partiti dall'annotazione di un insolito Zemeckis sceneggiatore in solitario proprio per arrivare qui, al cuore di "Benvenuti a Marwen", un cuore diviso in due parti. Da una parte c'è il profilo più strettamente cinematografico, dove l'autore di "Ritorno al futuro", con padronanza assoluta della produzione, riesce a fondere nelle proprie mani tutte le istanze più caratterizzanti del suo cinema: l'animazione in motion capture, come nella trilogia "Polar Express"-"La leggenda di Beowulf"-"A Christmas Carol", l'incontro di questa con il mondo reale, in gioco di specchi che ricorda i bei tempi di "Chi ha incastrato Roger Rabbit"; e poi, ancora, l'ossessione per i salti nel tempo, la fascinazione per i cuori puri e ingenui che si confrontano con il mondo al massimo del suo cinismo e del suo essere materiale (in Mark rivivono alcuni tic di Forrest Gump, per esempio).
Ma dall'altra parte, il cuore del film è proprio quella sua necessità autoriale di raccontare, di aggiungere temi a temi, senza trasformare un dramma fantasy in un pedante pamphlet fazioso. "Benvenuti a Marwen" è una nuova tappa di un viaggio che non smette di sorprendere: dopo l'omaggio al melodramma classico mascherato da spy-story di "Allied", il cinema di Zemeckis compie un'altra virata e rilancia ancora. "Benvenuti a Marwen" merita una visione attenta, appassionata, partecipata. Dietro i codici e il linguaggio del cinema mainstream, infatti, Zemeckis cela una drammatica urgenza di fare luce su angoli bui di realtà inquietante, con un po' di dolcezza e di poesia. Tutto questo continua ad essere magnifico.


ps. Per i feticisti di "Ritorno al futuro" c'è anche un altro motivo per vedere il film, qualcosa di molto familiare che a un certo punto ricompare, fuori dal tempo


11/01/2019

Cast e credits

cast:
Steve Carell, Leslie Mann, Diane Kruger, Merritt Wever, Janelle Monáe


regia:
Robert Zemeckis


titolo originale:
Welcome to Marwen


distribuzione:
Universal Pictures


durata:
116'


produzione:
ImageMovers, Universal Pictures, DreamWorks


sceneggiatura:
Robert Zemeckis


fotografia:
C. Kim Miles


scenografie:
Stefan Dechant


montaggio:
Jeremiah O'Driscoll


costumi:
Joanna Johnston


musiche:
Alan Silvestri


Trama
Mark Hogancamp è vivo per miracolo, ma non ha più memoria di sé, in seguito al pestaggio omofobo subito da parte di cinque teppisti. Per reagire alla sua situazione costruisce una storia fittizia che lo vede protagonista nella II Guerra Mondiale, in lotta contro i nazisti. I suoi protagonisti? Delle bambole e dei pupazzi che va rivivere attraverso le fotografie in un Belgio immaginario ricostruito nel giardino di casa...