Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
7.5/10
Nella prima metà degli anni '00, sull'onda lunga  del successo nei festival europei delle opere di Kim Ki-duk e di Park Chan-wook, anche la distribuzione italiana si aprì al cinema della Corea del Sud. L'idillio ebbe naturalmente breve vita, ma ci permise di conoscere alcuni tra gli autori e le opere più interessanti degli ultimi dieci anni.

Il quarto lungometraggio di Kim Jee-woon continua il lavoro del regista di Seoul sui generi e dopo la ghost-story di "Two sisters" la rivisitazione continua col gangster movie: se è sempre possibile ritrovare dei precedenti cinematografici (o letterari) per un film, con "Bittersweet life" Kim ci facilita le cose, giocando a carte scoperte. Mescolando noir crepuscolare (Melville), pulp (fiction) e l'estetica della violenza coreana (alcune sequenze gridano il nome di Park Chan-wook), il regista di Seoul imbastisce un film dalla trama arcinota che non ha assolutamente intenzione di inventare alcunchè (lo stesso protagonista, elegante, freddo, inespressivo e un po' arrogante, sembra il figlio coreano del samourai Jef Costello), ma che si concentra in maniera visivamente sontuosa nella messa in scena e nella disposizione perfettamente calibrata - o quasi: certe parentesi ridanciane potevano essere evitate - del materiale narrativo.

La trama è presto detta: Sunwoo, un manager di un albergo, in realtà uomo di fiducia del gangster Kang, deve pedinare la giovane ragazza di questi e "liquidare la questione" in caso di tradimento. L'elegante, freddo, inespressivo e un po' arrogante "direttore" però se ne infatua e la salva, facendo finta che niente sia successo. Il capo scopre il tradimento della sua donna e decide di vendicarsi su Sunwoo, che riesce, però, a sfuggire ai suoi aguzzini e medita di distruggere il suo ex-mentore.

Pellicola elegante, con una fotografia magica e patinata che immortala le strade e i locali della città come potrebbe fare solo il grande Michael Mann con Los Angeles, "Bittersweet life" è dotato di un comparto registico studiato che raggiunge alti picchi di virtuosismo. Kim, com'era già evidente in "Two sisters", appare interessato alla superficie, il che non è necessariamente un limite, ma piuttosto un modo diverso di scavare all'interno dei personaggi, partendo dal mondo esteriore. Si sofferma soprattutto sulle superfici luccicanti (la carrozzeria dell'auto, il tergicristallo, la vetrata della finestra), e ne esalta i riflessi e le dicotomie percettive, chiudendo il film in un loop riflettente senza soluzione. In "Bittersweet life" tutti i luoghi, fisici o mentali che siano, rappresentano lo spazio adeguato dove Sunwoo porta avanti la sua malinconica lotta contro se stesso e i suoi sentimenti.

In conclusione: imperfetto, derivativo, a tratti anche esagerato quanto si vuole, ma una piccola grande lezione di come dalla pura estetica si possa giungere al puro sentimento.


06/07/2010

Cast e credits

cast:
Lee Byung-hun, Kim Yeong-cheol, Shin Min-a, Hwang Jeong-min


regia:
Kim Ji-woon


titolo originale:
Dal Kom Han In-Saeng


distribuzione:
Lucky Red


durata:
118'


sceneggiatura:
Kim Jee-woon


fotografia:
Kim Ji-Yong


scenografie:
Ryu Seong-hie


montaggio:
Choi Jae-geun


costumi:
Cho Sang-Kyung


musiche:
Jang Yeong-gyu


Trama
Sun Woo da sette anni lavora per una gang malavitosa, guidata dal boss Kang, fingendosi al lavoro nel ristorante La Dolce Vita. Un giorno Kang chiede a Sun Woo di eseguire un nuovo compito: starà fuori città per affari alcuni giorni e vorrebbe affidargli la custodia della giovane fidanzata, Hee Soo, visto che è l'unico di cui si può fidare ciecamente. Con la scoperta del tradimento, però, la vendetta che ne seguirà sarà terribile
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