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recensione di Antonio Pettierre
8.0/10

Chicago oggi. La città è in subbuglio per un’invasione aliena e un uomo e una donna sono in auto in fuga dall’assedio imposto dalle forze dell’ordine. L’uomo è un poliziotto di colore ed è deciso a scappare per mettersi in salvo, con la speranza di organizzare una qualche resistenza contro il nemico alle porte. Riescono a eludere i controlli e immettersi in un tunnel che li portano fuori dal centro abitato. Si vede la luce al fondo, ma all’improvviso un rumore assordante blocca l’auto e delle figure si avvicinano uccidendo la coppia. Con un controcampo sono inquadrati due ragazzini nel sedile posteriore allibiti e spaventati.

Questo è l’incipit di “Captive State” di Rupert Wyatt, regista britannico già autore dell’acclamato “L’alba del pianeta delle scimmie”, che getta lo spettatore all’interno dell’incubo oppressivo della storia. Durante i titoli di testa, attraverso immagini televisive e grafici, si viene informati dell’occupazione della Terra da parte degli alieni e della resa incondizionata di tutte le nazioni. Gli alieni rinchiudono l’umanità nelle grandi città impedendo di uscire a chiunque e imponendo una sorta di legge marziale.

“Captive State” inizia con la centrale di polizia che controlla il fratello di un appartenente a una cellula di resistenza dopo dieci anni di occupazione e la narrazione si sviluppa in modo articolato seguendo le vicende di Gabriel Drummond (Ashton Sanders), figlio sopravvissuto della coppia vista nell’incipit, e del poliziotto William Mulligan (John Goodman) responsabile di un’unità speciale antiterroristica.

La fantascienza è un genere che si presta a leggere la contemporaneità attraverso metafore e la scelta di Wyatt è quella di utilizzarlo nella sua versione “debole” senza eclatanti effetti speciali (c’è una quasi completa assenza di CGI) ma focalizzandosi sulla messa in scena e sulle dinamiche psicologiche dei personaggi all’interno di una sceneggiatura in cui lo stato delle cose a-normali sono rappresentate per sineddoche. Così la presenza degli alieni è data per interposta persona attraverso quell’umanità che si è asservita al potere costituito e alla lotta di pochi per la liberazione; alle immagini di astronavi che solcano i cieli per deportare i ribelli; a droni che volano in città controllando ogni movimento. Certo, poi Wyatt gli alieni ce li mostra, ma a quasi metà film e senza indulgere troppo: sorta di essere antropomorfi completamente ricoperti da aculei che comunicano con suoni inarticolati e un volto sottostante glabro e con una bocca che appare uno sfintere.

Tra i tanti temi affrontati da Wyatt i più interessanti e sviluppati in modo coerente sono due.
Il primo è quello del controllo. Come abbiamo detto non esiste la privacy, visto che si è osservati continuamente. L’escamotage visivo è un parassita (una specie di verme) inoculato nel collo delle persone che in qualche modo comunicano continuamente con le centrali della polizia dotate della tecnologia extraterrestre. Non c’è scampo in questa società in cui la schiavitù è resa sistema e dove i mezzi di comunicazione di massa sono uno strumento di controllo sociale totale. Metafora delle nostre comunità, dove ormai tutti sanno tutto di tutti e non esiste un solo spazio di libertà individuale se non quello di estraniarsi dal sistema di trasmissione: o con l’asportazione del verme dal collo (con il rischio di morire e comunque essere scoperti alla prima ispezione) oppure indossando un collare che disturbi la counicazione del verme. E visivamente d’effetto quest’ultima idea di Wyatt. Un collare da schiavo per rendersi libero per qualche momento, quasi a dire come la libertà ha un prezzo da pagare molto alto, in un cortocircuito iconico dove mezzi di costrizione sono allo stesso tempo strumenti di liberazione.

Il secondo tema è la mancanza di etica da parte di governanti che pur di salvarsi sono disposti a scendere a patti con il male. Gli alieni vivono sotto le fondamenta delle città occupate e sfruttano le risorse del pianeta fino all’estremo sfinimento. La società è divisa tra i pochi che mantengono un benessere effimero donato dagli alieni e la massa povera ridotta alla fame. La cultura è bandita, la scienza è vietata: le università chiuse e nessuno può esercitare professioni come il medico o l’ingegnere. La denuncia di un capitalismo sfrenato che distrugge il mondo e la natura è quantomeno palese nella messa in scena attuata da Wyatt in “Captive State”. 

Del resto, la speranza di una rinascita è costruita attraverso un complesso complotto ordito da pochi che arriveranno a sacrificare le loro vite e dove le persone non sono quelle che veramente appaiono. Tutto gira intorno a Gabriel, giovane uomo, che diventa l’emblema dello scopo finale di molti dei personaggi della storia: salvando lui si salva l’intera umanità. E tutto ciò avviene tramite la costruzione di un doppio inganno, in una mise en abyme diegetica di estrema eleganza narrativa.

“Captive State” ha un ritmo da thriller e, in particolare, la messa in scena dell’operazione dell’attentato nei confronti del governatore alieno, e la successiva caccia ai cospiratori, che contraddistingue la seconda parte della pellicola, riesce a tenere alta la tensione. Ma il film di Wyatt non è di facile e immediata fruizione per la voluta mancanza di una rappresentazione allargata dei tòpoi della fantascienza, restando ancorato a un reale molto vicino al quotidiano vissuto che desta apprensione e malessere nello spettatore non più abituato a film in cui l’effetto speciale e l’identificazione con un eroe a tutto tondo ne permetta la partecipazione.
Ma per questo, alla fine, si ammira l’epicità delle gesta di piccoli uomini e donne disposte a donare la vita per salvarne altre, un sacrificio totale, quasi una dichiarazione di un martirologio laico per la sconfitta di una morale (auto)imposta in modo passivo.

Lo stile di Wyatt predilige inquadrature di primi piani con pochi controcampi e un montaggio che alterna composizioni di segmenti lenti a sincopati. Anche i campi lunghi sono contati. Ad esempio, quelle del fiume dove partono le navi aliene: di memoria magrittiana, così come gli alieni. “Questa non è un’astronave”, “Questo non è un alieno” - pare dirci Wyatt così come René Magritte dipingeva una pipa intitolando il quadro “Ceci n’est pas une pipe”. Oppure le macerie e le periferie fatiscenti di una metropoli collassata. Ciò che si osserva non è reale nel momento in cui si vede sullo schermo, ma sono le emozioni, le idee che esse provocano nello spettatore. Ed è la memoria il motore primevo della sopravvivenza degli uomini: quella della Storia antica, su cui l’organizzazione basa il complotto per sconfiggere gli alieni; e quella della storia privata che si svelerà nella scena finale. Il nucleo centrale e sotterraneo di “Captive State” è composto da una trinità idealistica strutturata da Memoria, Resistenza e Sacrificio che distinguono l’Uomo dall’Alterità.

Il resto degli elementi filmici è consequenziale: la fotografia che predilige i toni grigi e plumbei, con una desaturazione del colore che imprigiona in uno stato claustrofobico i personaggi; la recitazione in sottrazione degli attori, dove spiccano un enorme John Goodman e una Vera Farmiga, deus ex machina della vicenda, nel ruolo di Jane Doe – nomen omen – icona di una, nessuna e centomila donne pronte al sacrificio per il prossimo.

“Captive State” è un’opera che mette in scena in modo completo e complesso il malessere della nostra contemporaneità attraverso un utilizzo archetipico della macchina-cinema, in cui la finzionalità dell’immagine è risolta nella drammaturgia dei rapporti di un quotidiano in lento disfacimento.


25/03/2019

Cast e credits

cast:
John Goodman, Ashton Sanders, Jonathan Majors, Vera Farmiga


regia:
Rupert Wyatt


titolo originale:
Captive State


distribuzione:
Adler Entertainment


durata:
109'


produzione:
Amblin Partners, Lightfuse & Gettaway, Participant Media


sceneggiatura:
Rupert Wyatt, Erica Beeney


fotografia:
Alex Disenhof


scenografie:
Keith P. Cunningham


montaggio:
Andrew Groves


costumi:
Abby O Sullivan


musiche:
Rob Simonsen


Trama
La Terra è governata da una razza aliena da dieci anni. La popolazione è divisa tra chi accetta il presente e chi si oppone all’occupazione, organizzando una ribellione.
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