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recensione di Luca Sottimano
6.0/10

Si sa, l’abito non fa il monaco, ma forse può bastare a trasformare un criminale che vive una trasformazione spirituale in un sacerdote sui generis e favorirne inattesa redenzione. Presentato alla Mostra di Venezia e candidato all’Oscar come miglior film internazionale, “Corpus Christi” narra le vicende (tratte da fatti realmente accaduti) di Daniel, giovane che si trova in riformatorio per aver commesso un omicidio di secondo grado. Avrebbe voluto diventare sacerdote ma la sua fedina penale ora glielo impedisce. Quando però è assegnato per un lavoro in una segheria di una piccola città, ne approfitta per visitare la chiesa locale e fingere di essere un prete. Incontra il vicario, il quale, credendo alla sua menzogna, lo lascia a capo della chiesa mentre va in riabilitazione per un problema medico: il ragazzo inizia così a svolgere tutti i doveri del sacerdozio.

"Mi adagio ovunque il vento mi conduca", dice a Marta, ragazza incontrata per caso in chiesa che viene tratta in inganno dalla veste talare che il quegli porta con sé. Dagli occhi piccoli, dalla pelle chiarissima e dallo sguardo perso nel vuoto,  ha le fattezze e i connotati di un alieno trapiantato suo malgrado sul nostro Pianeta: trascorre lungo tempo in viaggio, si ferma a contemplare i paesaggi naturali e transita fugacemente da un ambiente all’altro, dalla segheria in cui è costretto a lavorare, alle discoteche in cui cerca piacere forti, fino al piccolo villaggio in cui provare a ricominciare una nuova vita. Assumendo sempre atteggiamento etereo e distaccato: i suoi background sono sovente fuori fuoco, sintomo del suo scollamento dal mondo che lo circonda. Di fronte a quello che gli accade intorno, volge lo sguardo nella direzione opposta, evitando ogni coinvolgimento. Finché, rimanendo finalmente stabile in un luogo e integrandosi pienamente nella sua nuova realtà, non si prende a cuore una questione spinosa la cui ombra aleggia sull’intera comunità, un’incidente automobilistico in cui hanno perso la vita sette ragazzi del posto. È giusto seppellire insieme alle vittime quello che viene riconosciuto come il responsabile? Riporta a galla la problematica e, attraverso le sue prediche poco ortodosse, cerca di scuotere le coscienze dei suoi abitanti, ancorati nell’odio. E così impara a non abbassare lo sguardo, ad affrontare di petto chi gli sta davanti e tenta di fermarlo, lasciando alla fine traccia del suo passaggio. Un raggio di luce in un villaggio rimasto sempre lugubre e pervaso da un alone di morte, ma in cui ora i suoi abitanti vengono spinti anche loro a guardare in faccia e ad accogliere chi prima era emarginata.

Se dunque nel rendere visivamente la peculiare parabola del suo protagonista "Corpus Christi" è efficace, meno lo è nel quadro complessivo, in quanto il regista Jan Komasa  si ispira a chiari modelli di cui cerca di ricalcare stile e tematiche. Impone una messa in scena rigorosa, veicolata da piani fissi e profondità di campo, illuminazione fredda giocata su toni grigi, che nel rigore e nel respiro delle sue inquadrature cerca di accedere e trasportare Daniel ad una dimensione trascendentale, elevandolo dal mondo di violenza e al sangue del riformatorio a cui appartiene e da cui vorrebbe fuggire, i cui sprazzi che affiorano sono resi ricorrendo ad un’instabile macchina a mano e a un ritmo concitato. Echi dell’ultimo Schrader (a sua volta influenzato da Bresson), il cui "First Reformed – la creazione a rischio" ne costituisce inevitabile pietra di confronto, nella figura di un prete anticonvenzionale che mette in discussione la sua fede, e il cui incontro con una giovane ragazza gli fa aprire gli occhi. Il motivo del mondo criminale che entra in contatto con quello religioso richiama invece il cinema di Abel Ferrara, e in particolare, “Il cattivo tenente”, nel suo nichilismo di fondo. Modelli molti alti, con cui "Corpus Christi" perde il confronto, peccando di poca originalità sul fronte delle riflessioni teologiche, che rimangono solo abbozzate, senza la profondità raggiunta dagli autori sopra citati. Così come nella sua dimensione di thriller crime, troppo algido e trattenuto, privo del senso di sporco, di squallore, proprio del filone. Un film dunque le cui premesse e intenzioni di partenza non corrispondono al risultato finale, che non lascia il segno al termine della visione. L’abito, appunto, non fa il monaco.


21/10/2020

Cast e credits

cast:
Bartosz Bielenia, Aleksandra Konieczna, Eliza Rycembel


regia:
Jan Komasa


titolo originale:
Boże Ciało


distribuzione:
Wanted Cinema


durata:
116'


produzione:
Aurum Film


sceneggiatura:
Mateusz Pacewicz


fotografia:
Piotr Sobociński Jr.


scenografie:
Andrzej Górnisiewicz


montaggio:
Przemyslaw Chruscielewski


costumi:
Dorota Roqueplo


musiche:
Evgueni Galperine, Sacha Galperine


Trama
Daniel è un ventenne che vive una trasformazione spirituale mentre sconta la sua pena in un centro di detenzione. Daniel vorrebbe farsi prete ma questa possibilità gli è preclusa per la sua fedina penale. Uscendo dal centro di detenzione, gli è assegnato un lavoro presso un laboratorio di falegnameria in una piccola città, ma al suo arrivo, una serie di equivoci lo porta ad essere scambiato per un sacerdote e inizia a professare in una piccola parrocchia. La comparsa di questo giovane e carismatico predicatore diventa l’occasione per la comunità, scossa da una tragedia avvenuta qualche tempo prima, per cominciare a rimarginare le sue ferite.
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