Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
8.0/10

diamanti grezzi

Nelle interviste Josh Safdie ha più volte ricordato la folgorazione scaturita dalla visione, ai tempi dell'università, de "Il posto" di Ermanno Olmi, tale da invitare alla lezione successiva anche il fratello Benny (che stava studiando astrofisica): a quel punto il loro destino era già segnato sotto la stella della Settima arte, prima come studenti e presto come autarchici filmmaker di guerrilla movie. I fratelli Safdie sono nati e cresciuti a New York e s'inseriscono nell'ormai gloriosa tradizione di cineasti cinefili e indipendenti indissolubilmente legati alla Grande Mela. Nel 2008 esordiscono con "The Pleasure of Being Robbed" e nel 2010 firmano un'opera autobiografica, "Daddy Longlegs", ispirata alla loro complicata relazione con il padre. Qui conoscono Ronald Bronstein, che recita il ruolo del protagonista, per poi diventare un loro stretto collaboratore sia in fase di scrittura, sia in cabina di montaggio. In un'intervista dell'epoca al New York Times, i due giovani registi parlavano del loro prossimo titolo, "Uncut Gems", che avrebbe preso spunto dai racconti del genitore mentre questi lavorava nel Diamond District di Manhattan. Invece, "Uncut Gems" impiega quasi un decennio a vedere la luce e i due riescono nell'impresa solo dopo il discreto successo di "Good Time" (2017).

"Diamanti grezzi" inizia in realtà in Etiopia, quando due minatori estraggono delle pietre preziose e, guardandovi dentro, sembrano penetrare i segreti dell'universo risalendo lungo il colon del nostro protagonista, Howard Ratner, un gioielliere del quartiere dei diamanti che, dopo la visita medica, ritorna subito al suo negozio, trovandovi due bruschi esattori inviati da Arno, un uomo con cui ha un debito di centomila dollari. La gioielleria di Howard è sin dalle prime battute un luogo soffocato dalla presenza di persone, claustrofobia che la regia nervosa amplifica ulteriormente, non lasciando spazio vitale alla figura del protagonista che appare in perenne stato d’assedio. Adam Sandler modula voce, gesti e anche la propria fisicità per interpretare magnificamente questo personaggio, la cui vitalità esorbitante e litigiosa lo costringe a rinegoziare continuamente i parametri entro cui sopravvivere: parametri di natura squisitamente economica, poiché ogni cosa nella vita di Howard è commercio.
Il nostro raggira, vende, impegna, s'indebita, scommette cifre esagerate sulle partite di Nba dopo che Kevin Garnett prende in prestito proprio quell'opale nero che si vedeva nell'incipit, convincendosi sia un amuleto che gli permetterà di esprimere il proprio talento ai massimi livelli. Howard vive al di sopra delle sue reali possibilità, come in un'allucinazione che attraversa impermeabile alle peripezie che gli capitano: se ad esempio gli esattori gli tolgono Rolex, anelli, catene d'oro, nella scena successiva egli li sfoggia nuovamente; se lo spogliano nel tentativo di umiliarlo, egli si riveste. Il personaggio di Sandler prende quindi le mosse dallo schlemiel, figura chiave dell'immaginario ebraico, per dilatarsi in un (anti)eroe larger than life.

I fratelli Safdie propendono per uno stile immersivo à bout de souffle, assimilabile all'esecuzione di "Good Time": la differenza di timing è però sostanziale all'impegno profuso dai due cineasti, poiché la contrazione in 24 ore del film precedente si estende a circa una settimana, riuscendo nel prodigio di mantenere lo stesso feroce nervosismo, la medesima tensione mozzafiato lungo le due ore e un quarto in cui si sviluppa la narrazione.
Lo stato d'assedio a Howard è posto innanzitutto dai due cineasti che lo pedinano, gli costruiscono intorno un fitto reticolo di corpi, volti e voci che si avvicendano e si sovrappongono di continuo: le inquadrature sono sempre sporcate dalla presenza di elementi eccentrici, presenze secondarie (o loro porzioni) che circondano il protagonista, la fotografia granulosa forgiata dall'esperto Darius Khondji e l'illuminazione bagnata delle scene notturne immergono la pellicola in un'atmosfera vischiosa, che chiama in causa l'iperrealismo iperbolico dei grandi maestri della New Hollywood.
La regia dei Safdie alterna brevi tracking shot alla macchina a spalla, il montaggio interviene segmentando il movimento dei personaggi in scatti nervosi e, insieme alle pulsazioni elettroniche della colonna sonora di Daniel Lopatin, produce un ritmo perennemente extrasistolico.

Il vociare è perpetuo e onnipresente: quando non contratta con qualcuno faccia a faccia, il protagonista si barcamena in querule chiamate telefoniche, e l'impasto sonoro creato dall'overlapping dei dialoghi, dal diluvio sonoro della musica e dai rumori di sottofondo è una presenza senza soluzione di continuità che forgia quell'illusione di una realtà esaustiva ricercata da Robert Altman – al cui "California Split" può rimandare il tema del gioco d’azzardo. Sugli scommettitori patologici il cinema indipendente newyorkese ha una discreta tradizione, a partire da "The Gambler" di Karel Reisz, dove un professore universitario gioca di continuo assommando un debito dopo l'altro, fino a "Il cattivo tenente" di Abel Ferrara delle cui mean streets affollate e grevi i fratelli Safdie conservano sicuramente una buona memoria.
Se l'Axel di "The Gambler" analizza obiettivamente l'eccitazione iniettata dall'azzardo di scommettere avendo un'alta probabilità di perdere e il tenente di Ferrara precipita in una spirale autodistruttiva, è interessante pensare Howard in relazione a Cosmo Vitelli, antieroe protagonista de "L'assassinio di un allibratore cinese" di John Cassavetes. Cosmo si muove di sala in sala, Howard è trasportato da un luogo a un altro da un raccordo di montaggio: in entrambi i casi la fotografia (modernissima quella dell'opera di Cassavetes, cruda, piena di lens flare e di accesi viraggi) dipinge una realtà in cui i protagonisti divagano in un'erranza che permette loro di tessere incautamente la trama del proprio destino. Lungo un percorso a tappe costituito dalle scommesse compulsive, dai debiti contratti, dalle interazioni con gli allibratori, coi creditori, con gli amici e i nemici sia Cosmo che Howard realizzano il sogno della loro vita divenendo virtuali alter ego dei registi, poiché le loro azioni allestiscono la realtà.


Per approfondire: speciale Traiettorie sul film.


17/02/2020

Cast e credits

cast:
Adam Sandler, Julia Fox, Lakeith Stanfield, Kevin Garnett, Idina Menzel, Eric Bogosian


regia:
Ben Safdie, Joshua Safdie


titolo originale:
Uncut Gems


distribuzione:
Netflix


durata:
135'


produzione:
Elara Pictures; IAC Films; Sikelia Productions


sceneggiatura:
Joshua Safdie, Ben Safdie, Ronald Bronstein


fotografia:
Darius Khondji


montaggio:
Ben Safdie, Ronald Bronstein


musiche:
Daniel Lopatin


Trama
Nel 2012, dopo aver corrotto con 100mila dollari due minatori falascia sottopagati, il gioielliere ebreo newyorkese Howard Ratner mette le mani su un opale nero allo stato grezzo contrabbandato dall'Etiopia. Avendo stimato il suo valore attorno a un milione di dollari, ha intenzione di metterlo all'asta per saldare il debito di 100mila dollari che ha col cognato Arno. Howard infatti è uno scommettitore incallito, la cui continua ricerca di puntate sempre più rischiose condiziona una vita già di per sé complicata; in procinto di divorziare dalla moglie con cui ha tre figli, ha una relazione segreta con la sua dipendente Julia, che sfrutta la cosa per non presentarsi quasi mai al lavoro, avendo passato la notte a fare festa; inoltre, uno spazientito Arno gli ha messo alle calcagna Phil e Nico, due personaggi legati al mondo della malavita.