Ondacinema

recensione di Matteo De Simei
8.5/10

Resta cu' mme, nun me lassà
Alzi la mano chi se lo aspettava. Marco Bellocchio alle prese col best seller, si intende. Lui che in oltre mezzo secolo di carriera e ventuno lungometraggi all'attivo aveva al limite scomodato Von Kleist e Pirandello. Lui che ormai dal 1999 con "La balia" non attingeva più a un soggetto già esistente. Forse il paragone non si pone neanche perché questa volta non sono neanche celebri drammaturghi ad essere catturati dalla sua cinepresa, bensì un giornalista italiano divenuto celebre e stimato da molti solamente negli ultimi tempi e che quattro anni fa ha realizzato un romanzo autobiografico divenuto in breve tempo il caso editoriale dell'anno. Le perplessità suscitate dalla ferma decisione di Bellocchio di voler adattare in chiave cinematografica "Fai bei sogni" di Massimo Gramellini sono tanto più avvalorate dalla spregiudicata e vitalistica libertà formale, sia di pensiero che di scrittura, evidenziata in questi strepitosi ultimi venti anni. Si pensi ai capolavori del duemila o (anche solo a volersi soffermare in questo decennio in corso) al piglio esuberante nel voler dar adito a un tema di attualità così complesso e delicato come il caso di Eluana Englaro, o ancora al visionario e viscerale intermezzo sul potere di "Sangue del mio sangue". In virtù di queste considerazioni verrebbe da chiedersi: perché proprio ora sul più bello rintanarsi nel facile adattamento di un romanzo scritto da altri?

La verità è che superate le 77 candeline, Bellocchio ha sempre più saldamente in mano il Cinema italiano. Il suo è un linguaggio ribelle e ossessivo, libero e personale, unico nella sua "diversità" e nella sua esclusività. Perché pur rimanendo fedele ai fatti e agli affetti che il libro descrive, con "Fai bei sogni" il regista piacentino cesella ancora una volta e ancor di più, immagini, suoni e parole del suo cinema pulsante e identitario, collettivo e al tempo stesso personalissimo (monumentale e sconcertante in questo senso, come Bellocchio sia riuscito a rendere proprio un romanzo autobiografico senza ledere o sminuire i sentimenti e le emozioni dello scrittore). Perché è indubbio che il cineasta sia rimasto folgorato dal dramma e dalla toccante storia descritta da Gramellini, ma le parole "adattamento" o "biopic" rappresentano più un MacGuffin per poter dare libero sfogo alle ossessioni di una vita, per poter tornare prepotentemente alle tematiche cardine della sua filmografia, come il tema atavico del rapporto tra una madre e il proprio figlio. In quel figlio che prima si ribella, poi cerca di sopravvivere al dolore, infine lo anestetizza, precludendosi qualsiasi sentimento o emozione. Non vi ricorda nulla? Mentre a Bobbio, nella seconda metà degli anni sessanta, un giovane nichilista di nome Alessandro architetta e mette in atto l'omicidio di sua madre, a Torino nello stesso periodo, il piccolo Massimo piange la sua assenza. Il tempo filmico è lo stesso ma nella realtà scorrono 51 lunghissimi anni. Da quell'omicidio avvolto nella nebbia della Val Trebbia ai giorni nostri Bellocchio e il Cinema sono profondamente cambiati: l'aura nichilista è cessata ma non il dolore del non vivere, acuito dalla voce di Modugno che dalla radio canta ineffabile come il destino "Resta cu' mme, nun me lassà".

Un'elaborazione eterna
Bellocchio apre le danze con un prologo di grande slancio vitale che fa da presagio al dramma imminente. Massimo, nove anni, interpretato da un intenso Nicolò Cabras rimane improvvisamente orfano di madre (inutile sottolineare come la recitazione nel cinema di Bellocchio ricopra una componente essenziale. Qui, in particolar modo, viaggia su binari altissimi, dal dolore scomposto di Mastandrea sino alle impercettibili ma evocative apparizioni di Fausto Russo Alesi e Piera Degli Esposti, passando per la rivelazione Barbara Ronchi). È solo il primo dei ricordi di Massimo che, ormai quarantenne, vive imprigionato da quel terribile trauma. Degli ultimi trent'anni passati rimane la stessa sofferenza e la prospettiva reiterata del corridoio della casa, che diviene il "luogo" di dolore, quell'analogia casa/psiche evocata ne "I pugni in tasca". Attraverso un montaggio volutamente straniante che aliena lo spettatore e lo disorienta tra i meandri del presente e del passato più o meno lontano (analogia lampante con l'ultimo lavoro che si domanda quanto sia presente il passato), Bellocchio ricostruisce l'infanzia del protagonista, la verità negatagli ma anche e soprattutto il suo rifiuto di scoprirla. Massimo non sa che sua madre si è gettata dalla finestra ma il suo subconscio, Belfagor, si. Da bambino simula i tuffi di Cagnotto in televisione e getta una scultura di Napoleone dalla finestra cercando di dimostrare la forza di gravità. Infine subisce il trauma del suicidio in diretta del facoltoso imprenditore braccato dalla Finanza nei primi strascichi di Mani Pulite, quando è ormai un giornalista sul trampolino di lancio. Massimo sa ma non vuole sapere. Quando è sull'orlo della solitudine e delle crisi di panico, il suo angelo custode gli fa conoscere la dottoressa Elisa, figura salvifica femminile che rimedia in parte all'assenza incolmabile della madre. Non a caso il secondo e ultimo slancio vitale avviene proprio con un ballo sfrenato e in compagnia della sua donna (uno tra i momenti più alti del film), come a rappresentare un trait d'union col prologo.

Bellocchio instilla nel suo film un elemento imprescindibile del suo cinema, ovvero il cambiamento del nostro Paese nel trentennio che va dal settanta al duemila. Lo fa attraverso la professione di Massimo, il giornalista senza tregua che in poco tempo è sballottolato da Torino a Roma, passando per la guerra in Sarajevo. Quella del giornalista è una dimensione disumana e tragica perché il suo modo di comunicare rischia di fargli "descrivere sommariamente la realtà. A meno che uno non si alieni e non si dimentichi di una realtà diversa". "Fai bei sogni" è dunque un film sulla salvezza della scrittura come testimonia ancor più la meravigliosa e disarmante sequenza della lettera scritta a un giovane di nome Simone (ma poteva chiamarsi benissimo Alessandro) che desidera ardentemente uccidere sua madre per la sua anaffettività.

A cuore aperto
Si potrebbe scrivere/parlare ancora a lungo di questo complesso meccanismo di pulsioni ed emozioni messo in atto dall'ultimo Bellocchio, uno sfogo smisurato i cui sentimenti sono intraducibili e troppo profondi per essere descritti, soprattutto nelle loro imperfette complessità. Si potrebbe anche sottolineare e analizzare le molteplici analogie presenti nel film, dall'opposizione alla fede  del piccolo Massimo che come il piccolo Leonardo ne "L'ora di religione" si inquieta con Dio (rimarginando poi le ferite grazie alla figura di Don Ettore. Un prete che "salva", anche questo fatto è una svolta nella poetica di Bellocchio), alle ribellioni represse dei protagonisti sessantottini de "I pugni in tasca" e "Nel nome del padre". Sino al tormentato rapporto madre-figlio in "Vincere" e "L'ora di religione".  Si potrebbe, forse si dovrebbe. Ma "Fai bei sogni" è un'opera che va assimilata con poche parole, tanto silenzio e un cuore aperto, spalancato. Come fa Bellocchio, che chiude di fatto il cerchio coi demoni del suo passato. Si vive la vita e si vive la morte. Si ride e si piange. Si odia e si ama. Ovvietà che in mano a Bellocchio diventano essenziali, come il magniloquente finale: il ricordo di un bambino di quarant'anni che rievoca la sua mamma giocare a nascondino con lui. Un ricordo che neanche la flebile voce della persona amata intenta a sussurrare "lasciala andare" può distogliere.  


12/11/2016

Cast e credits

cast:
Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo, Nicolò Cabras, Roberto Herlitzka, Barbara Ronchi, Guido Caprino


regia:
Marco Bellocchio


distribuzione:
01 Distribution


durata:
133'


produzione:
IBC Movie, Kacac Film, Rai Movie, Ad Vitam


sceneggiatura:
Marco Bellocchio, Valia Santella, Edoardo Albinati


fotografia:
Daniele Ciprì


scenografie:
Marco Dentici


montaggio:
Francesca Calvelli


costumi:
Daria Calvelli


musiche:
Carlo Crivelli


Trama
Massimo è un giornalista affermato ma non ha mai superato il trauma derivante dalla morte della madre avvenuta quando lui aveva 9 anni