Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
7.0/10

Amos Gitai, a suo tempo soldato miracolosamente salvatosi nel corso di un’azione bellica, nell'anno in cui termina la seconda intifada, ritorna al proprio mantra: la difficile convivenza tra Israeliani e Palestinesi. Attraverso i volti e le parole di tre donne mostra come la lezione euripidea, secondo cui l’orrore dei conflitti assume più plastica evidenza quando lo si lascia narrare a chi più intimamente lo subisce, mantiene intatta la sua universale attualità. Le tre protagoniste, in misura differente e ciascuna nell’alveo del proprio carattere, sono come delle Ecube, delle Andromache del XXI secolo: riducendo all’essenziale la guerra guerreggiata e la mostrazione di morti e feriti (un attentato terroristico e l’incendio di un villaggio, marginali nel plot), è con lo sfogo e l’elaborazione della sofferenza espresse con pudore ed equilibrio che il regista israeliano conquista lo spettatore.

L’incipit del film mostra Natalie Portman nei panni di una giovane americana di origini ebraiche, Rebecca, che nel chiuso di quello che si rivelerà un taxi si abbandona alle lacrime per quasi sei minuti di piano sequenza mentre percepiamo il crescendo di una musica che sa di cantilena. Si tratta di Had Gadya (Il capretto), celebre filastrocca di origine aramaica, già presente in un suo altro film di Amos Gitai, assai nota nel Vicino Oriente, e che esprime metaforicamente l’ineluttabilità della sofferenza generata dalla guerra e dalla difficile convivenza tra Israeliani e Palestinesi, l’eterno stallo diplomatico, l’immutabilità di una condizione refrattaria ad ogni speranza.

Ad accentuare tale sensazione, l’inquadratura, un primo piano sul profilo dell’attrice, è volutamente claustrofobica, perché realizzata all’interno dell’abitacolo del taxi e pressoché fissa: lo spettatore è costretto ad assistere da vicino al pianto di Rebecca e senza potersene ritrarre. Solo in seguito se ne vengono a sapere le ragioni: la giovane ha rotto il fidanzamento con Julio. Ma intanto, dopo il suo pianto e per sua insistenza, desiderosa di lasciarsi alle spalle ciò che ormai è il passato, il taxi riparte. Rebecca è una giovane dal carattere aperto e senza pregiudizi, che rivela l’animo della sognatrice, tanto che ha del Vicino Oriente una concezione romantica destinata a franare sotto il peso delle vicende storiche.

La donna che guida il taxi familiare è invece Anna (Hanna Laszlo), una donna ebrea, matura, intelligente e determinata che, suo malgrado, è costretta a sostituire il marito, ferito in un attentato.

La terza donna del film è Leila (Hiam Abbas), moglie palestinese di uno che gli altri chiamano l’Americano, verso la cui abitazione Anna è diretta allo scopo di recuperare un sostanzioso credito. Leila è una donna anch’essa matura, ma dai modi più enigmatici, di poche parole, dette al momento giusto e che soprattutto nasconde un segreto nel segreto: il danaro che il proprio marito deve a quello di Anna è diventato preda degli appetiti giovanili del figlio Walid, a sua volta trascinato sul versante estremista della montante protesta palestinese. Così, il giovane odia Israele non meno di quanto sia diffidente verso i costumi dei genitori, giudicati troppo filoccidentali e ingiustificatamente progressisti.
Leila è un personaggio tra due fuochi: il marito saggio e comprensivo e il figlio irascibile e influenzabile come quelli della sua generazione. Dal momento che per recuperare il credito Anna è costretta ad attraversare la cosiddetta free zone, una zona franca oltre il Giordano, al di là di un dedalo di posti di blocco, e che una buona parte del film è girato dall’interno del taxi, possiamo parlare di un road movie.

A dare anche allo spettatore la sensazione di essere continuamente in viaggio è lo scaltrito ricorso del regista a lunghi piani sequenza durante i quali la macchina da presa pencola all’interno del taxi o di rado se ne allontana. La fotografia dai colori spenti appiattisce uniformandoli i pur vari paesaggi attraversati. Altro aspetto degno di nota è l’utilizzo della sovrimpressione nella prima parte del film. Durante il tragitto in Giordania, alle immagini dei luoghi attraversati si sovrappongono quelle che chiariscono le motivazioni del litigio tra Rebecca e Julio; costui, riepilogando le vicende belliche cui ha partecipato, confessa quasi compiaciuto di aver intrattenuto rapporti con una donna palestinese. Il silenzio di Anna alla guida e anche lei immersa nei suoi pensieri, l’assenza di qualsiasi colonna sonora e il fatto che l’inquadratura sia un primo piano in sequenza coinvolge decisamente lo spettatore.

Un peso specifico ancor maggiore lo rivestono altri due flashback che coerentemente non sono contaminati dalla sovrimpressione in quanto una scrittura siffatta ne avrebbe annacquato il valore.
Il primo è quello di Anna che, giunta nei pressi di un villaggio palestinese dato alle fiamme dagli estremisti cui Walid si è unito, racconta a Rebecca tutte le traversie patite, dalla fuga della famiglia da Auschwitz alla ricerca della stabilità lavorativa nei diversi insediamenti israeliani. Tra l’altro, ad emergere dai flashback di Gitai sono le situazioni paradossali: a decretare il tracollo dell’azienda messa su con tanta fatica da Anna e dal marito non sono solo le due intifada ma anche le misure governative sui lavoratori palestinesi via via assunti. In un secondo flashback, quello finale, a Rebecca, tacita interlocutrice, Samir dispensa pacatamente le cicatrici della propria esistenza snocciolando un campionario di sofferenze che costituiscono l’altra faccia della luna rispetto alla narrazione di Julio nella prima parte del film.
Orfano, profugo, disoccupato, emigrato negli Stati Uniti col miraggio di una rinascita (di qui il suo appellativo di Americano), Samir è tornato in Palestina per ricomporre i cocci della propria vita. Rispetto a quello precedente, con una scrittura più elementare perché basato unicamente sulle parole della donna, questo flashback è di piu pregevole fattura. La sequenza si svolge infatti all’esterno, l’uomo cammina insieme alla giovane fra le alte palme che insieme al sole non ancora alto stride con la crudezza delle parole; poi, grazie al campo lungo, tra le palme emergono le capre e anche la loro placida presenza sembrerebbe antifrastica rispetto al contesto, se non fosse che la loro immagine rimanda al tema musicale con cui si è aperto il film. Samir è insomma tornato in Palestina per chiudere la parabola della propria vita, mentre quella della violenza non si è ancora estinta.

Di seguito, una delle ultime inquadrature del film mostra Anna e Leila all’interno del taxi riprese da dietro mentre litigano sul credito che la prima vanta nei confronti della seconda. La loro animosità e il loro puntiglio sono così esasperanti da spingere Rebecca a uscire dal taxi al posto di blocco israeliano. Il suo gesto, seguito con un breve piano sequenza, è quello di chi ricerca la libertà, di chi fugge dall’odio a costo di votarsi all’ignoto.

Per la conclusione, emblematica, Gitai ritorna all’interno del taxi, dove il litigio continua. Il tutto è ripreso con la cinepresa fissa e sottolineato dal crescendo della colonna sonora d’apertura; due dettagli che esprimono cinematograficamente un sostanziale stallo nel cosiddetto processo di pace e un pessimismo di fondo circa la possibilità di interrompere il mulinante circuito dell’odio.


26/05/2020

Cast e credits

cast:
Uri Klauzner, Aki Avni, Makram Khoury, Carmen Maura, Hiam Abbass, Hana Laszlo, Natalie Portman


regia:
Amos Gitai


titolo originale:
Free zone


distribuzione:
Istituto Luce


durata:
90'


produzione:
Agav Films, Agat Film and CIE, Agav Hafakot, Artemis Productions, Golem


sceneggiatura:
Amos Gitai, Marie Josè Sanselme


fotografia:
Laurent Brunet


scenografie:
Miguel Markin


montaggio:
Yann Dedet


costumi:
Aline Stern


Trama
Rebecca è un'americana che vive da poco tempo in Israele e, rotto il fidanzamento, intraprende a bordo di un taxi di proprietà di Hanna (Hanna Laszlo)un viaggio verso la free zone, ovvero un territorio al confine tra Israele e Giordania. La guidatrice è alla ricerca dell'"Americano", in realtà un palestinese che deve al marito un consistente somma di danaro. Rebecca la convince a portarla con sè. Raggiunta la meta, Leila, moglie palestinese del creditore, spiega che il danaro è in realtà sparito.