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recensione di Pietro S. Calò

Claire Lescot (Georgette Leblanc) è una cantante di successo che tiene sulla corda molti uomini potenti che le fanno la corte. Soprannominata "l'inumana" per la sua apparente freddezza, affronterà una durissima educazione sentimentale.
"L'Inhumaine" consacra Marcel L'Herbier alla non più tenera età di trentasei anni. Si era già messo in mostra con una serie di film di buon successo commerciale e di critica, in special modo con "El Dorado" (1921), e ancor prima durante la Grande Guerra, quando offrì le sue competenze al Servizio Cinematografico dell'Esercito Francese.
In un periodo storico in cui la Francia e gli Stati Uniti si contendono il primato dell'industria del cinema, Marcel è folgorato dai film di Cecil B. DeMille, in particolare da "I prevaricatori" ("The Cheat", 1915) e da questi inizia a elaborare la sua poetica, personalissima e di scarsa influenza, che condivise con un grande dimenticato teorico e analista, Ricciotto Canudo.
Di intelligenza vivacissima (poeta, critico, fondatore della IDHEC, la prestigiosa scuola di cinema parigina poi rinominata Femis e, non ultimo, pioniere della Televisione Francese), Marcel fu addentro ai tempi che viveva, ai suoi fermenti sociali e artistici che osservò con estremo interesse nel meglio che questi esprimevano: le Avanguardie, l'Espressionismo, il cinema rivoluzionario russo, da cui attinse in maniera eterodossa pasticciandone forme e contorni, per poi dar vita all'Impressionismo cinematografico, una corrente tutta francese e francese di matrice (l'Impressionismo pittorico) che pur poco fortunata costituisce un movimento a sé e un bagaglio clamoroso di tecniche, trovate e strumenti per il cinema a venire.
Rielaborato l'Espressionismo delle ombre, sbeffeggiato il cinema rivoluzionario, piegato alle sue esigenze il talento avanguardistico di Leger e Cavalcanti, anticipato di due anni "Metropolis", ecco a voi "L'Inhumaine" (che per aggiungere ulteriore confusione in italiano diventa "Futurismo").
l film non è bellissimo. E l'attore protagonista non si suicida per davvero, finge.
Le avvertenze ci sono parse necessarie per un motivo molto preciso: la bellezza, il senso stesso di un film che a breve diventerà centenario, non vanno cercate nel soggetto né nel suo intreccio. In generale, la grandezza di L'Herbier non sta nella sua scrittura, che in questo film è abbastanza discutibile e che offre un assist decisivo a chi, dovendo scegliere uno solo dei suoi film, preferisce (e di molto) "Il denaro" ("L'Argent", 1930), la messa in scena dell'omonimo capolavoro di Emile Zola che sconta le stesse problematiche del romanzo, sia una patologica incapacità all'ellissi, sia un racconto fin troppo dettagliato (la prima versione del film pare durasse sette ore). Nondimeno, se non il più bello, "L'Inhumaine" è il film che meglio rappresenta l'autore.
E che adesso andiamo a scoprire.


Histoire feérique vue par Marcel L'Herbier

Si tratta del testo della prima didascalia. Essa non dice "messa in scena", "realizzata", "animata", essa dice "vista".
E così noi vediamo invece di guardare (vale a dire: non cerchiamo una logica delle cose ma le scrutiamo e le registriamo), come ci avevano ammonito alcuni decenni prima Renoir padre e i suoi colleghi. Vediamo una Parigi dall'alto la cui bruma non ci permette di identificare altro che la guglia di Notre Dame; la panoramica a schiaffo si muove verso i ponti deserti fino a concludersi con l'innesto di una villa lussuosa su cui la cinepresa termina il morbido e elegante movimento disvelante in continuità spazio-tempo che in realtà non c'è, essendo quella un inserto arbitrario giuntato nel montaggio e abilmente camuffato. La villa appartiene alla famosa e affascinante cantante Claire. Vediamo arrivare delle macchine lussuose da cui scendono singoli signori eleganti accolti da servi in livrea e mascherati talché siano sordi e sorridenti (e anche tutti uguali, naturalmente). L'ingresso nella villa delle orge di "Eyes Wide Shut" ha più di un debito con questa nostra prima sequenza che ha lo scopo e il merito di abbandonare lo sguardo e ottenere l'ingresso in un mondo altrimenti a noi precluso (Tom Cruise annuisce).
Composta e sbirciata la legione dei pretendenti (politici, sportivi, persino un marajah) restiamo per lungo tempo (quasi cinquanta minuti) all'interno di una architettura messa in piedi da Robert Mallet-Stevens e in special modo nel suo "giardino d'inverno" nel cui laghetto scorazzano anatre impettite e che fa da location alla cena in cui la volubile Claire annuncia la sua volontà di andare in giro per il mondo, subito dopo il concerto che si terrà l'indomani. Così, i pretendenti di Claire hanno a disposizione quella sola nottata per farle cambiare idea. Marcel si focalizza su quattro di questi: Frank Mahler (Fred Kellerman), un ricco americano proprietario di molti teatri a New York; il fosco Kranin (Leonid Walter de Malte), un agitatore politico di fede socialista; il marajah (il miglior attore del blocco, il fido Philippe Hériat) dagli occhi grandissimi e dilatati, e infine il nostro eroe, francese, giovane, bello e inquieto Einar Norsen (interpretato da un altro fido attore di Marcel, Jaque Catelain), che arriva pure in ritardo.
Questo primo blocco (saranno tre in totale) si svolge, salvo inserti diegetici e necessari, per intero nella villa e pongono la questione dell'Inumana (che a rigore sarebbe stato più corretto chiamare l'Avant-umana, prima dell'Umanità), sorda a tutti i corteggiatori compreso il nostro eroe che, rifiutato, se ne va sbattendo la porta e lasciando al servitore mascherato, sordo e sorridente, un biglietto d'addio. Il duro lavoro preparatorio è finito: abbiamo un soggetto e una bozza di intreccio; abbiamo conosciuto le varie psicologie dei corteggiatori che sono stati focalizzati; abbiamo l'eroe su cui operare il tranfert; abbiamo anche l'eroina, che in realtà non è molto attraente.
Questa infatti è un'altra piccola delusione: Georgette Leblanc quando gira il film ha già 55 anni. Bella non lo era stata neanche da giovane ma è comunque una cantante celebre (i riferimenti a Sarah Bernhardt si sprecano), ha un carisma indiscutibile cui si aggiungono aderenze di tutto rispetto: è la sorella di Maurice (l'inventore di Arsenio Lupin), la moglie del Nobel per la Letteratura Maeterlinck, l'amante saffica di Margaret Anderson (fondatrice della celebre "The Little Review") e, infine, è una discepola di Gurdjeff. Oltretutto, il soggetto del film è farina del suo sacco.
Inutile sognare ciò che non è stato ma oggi, a cento anni di distanza, siamo autorizzati a immaginare cosa sarebbe stato quel ruolo interpretato da Louise Brooks (che esordì due anni dopo ma che forse non avrebbe retto il ruolo di cantante) o Kiki de Montparnasse (più a suo agio con le canzonacce da caserma) o Brigitte Helm (la Maria di "Metropolis" che ebbe poi come attrice in "L'argent").
Come che sarebbe stato, l'attrice è questa e comunque si difende. Il suo volto oblungo è sdrammatizzato (ma anche in-umanizzato) da una calotta come si usava durante la Belle Epoque e da due seriche e lunghissime piume che sventolano in testa e dinamizzano un volto poco mobile e piuttosto impietrito; una cintola di crine le ballonzola sulla mezza figura la cui intera è esile e poco memorabile. Questa prima parte ha una qualità espositiva di ottima fattura e che bene ha sintetizzato le esigenze narrative con quelle poetico-estetiche.
La villa cubista è stata curata in ogni dettaglio: ampi ambienti su cui gli attori si muovono delicatamente sui suoi orli; volumi cubici e parallelepidi disposti su diversi piani per alzare e abbassare i punti di vista in plongée e contro-plongée assegnati a monte; archi ricorrenti (ingressi, sedie, poltrone...) che sul piano strettamente formale della teoria cubista (giustapposizione di volumi che formano figure intere ma di cui riusciamo a percepire le autonomie dei singoli blocchi) sembrano l'intervento sulle Eterne Rette Parallele che non si incontrano mai e invece sono fatte collidere e così si elidono a vicenda.
Notevole è il lavoro sulla pellicola impressa: il suicidio di Einar riesce a dare un'idea molto precisa della folle velocità della sua auto sportiva (e anche molto diversa da quella che riuscì ad esprimere René Clair due anni dopo): sovrimpressioni della strada percorsa in costante accelerazione finché (vedi sopra) le due strisce di carreggiata parallele non si incontrano; primi piani sempre più dilatati di Einar e leggermente deformati dalle ottiche; dettagli delle mani che stringono il volante e che tremano, lui e loro, per le vibrazioni; inserti in parallelo degli strumenti a corda, tensivi, nel corso della festa in villa; campi fissi e lunghi che si accavallano frenetici sempre più accorciati dei pericolosi tornanti che la macchina sta percorrendo a velocità sempre maggiore; caduta nel burrone; inversione (di marcia ma anche retorica) di un placido somarello guidato da una bella campagnola (Marcelle Pradot, moglie di Marcel) che giunge lemme lemme sul luogo del disastro e può solo prenderne atto e andare (coi suoi tempi) ad avvisare "quelli della villa".
Altro grande lavoro (di cui si ha piena contezza dal restauro certosino della Lobster Film operato nel 2014) è quello sulla colorazione. L'imbibizione (e qualche viraggio nelle sequenze più "espressioniste") tinge la pellicola su due ordini: il blu, usato per gli esterni notturni e brumosi (nonché pericolosi) e il verde, il giallo e il rosso per gli interni. Il rosso, nello specifico, ci diventerà familiare in quello che potremo chiamare "il tema dell'amore" tra Einar e Claire ma, più acceso, servirà a determinare anche il ruolo ambiguo di Kranin accentuato da una sequenza in cui sogna Claire tutta sua, flou, che va a evangelizzare il popolo mongolo, entusiasta di lei. È, questa sequenza, una sorta di mezzo sberleffo al cinema rivoluzionario russo, fatto principalmente di una precisa collocazione della cinepresa fissa, preferibilmente di taglio, entro cui il profilmico (le masse rivoluzionarie) si agita febbrilmente.
Ancora: per il diletto degli invitati in villa, una orchestrina jazz si scatena per tutta la sequenza in un ritmo infernale di banjo, fiati e batteria. La colonna sonora che ascoltiamo però è molto più amichevole di quanto le immagini farebbero presagire, forse perché la partitura originale di Darius Milhaud è andata perduta e si suppone addirittura che mai sia esistita poiché, si pensa, essa venne improvvisata e mai trascritta in due passaggi di sole percussioni.
Un ultimo doveroso accenno riguarda infine il legame psicologico che si instaura tra i nostri due eroi. Se Claire è l'in-umana (o avant-umana), Einar è il passivo che non lotta e anzi minaccia pure il suicidio. Se Nietzsche si evoca quasi da solo (ricordiamo che siamo in mezzo alle due grandi guerre, c'è molto sgomento e gioia irrazionale in questo tempo), non possiamo non rispondere con Dostojevskji (che tanta influenza ebbe sul filosofo tedesco): il suicidio non è solo auspicabile ma addirittura necessario. Ma, attenzione: non il togliersi l'unica vita che possediamo, bensì il far morire quel che si è per rinascere meglio di ciò che si è. È questo il senso dell'ironia di Claire (come ci informa la didascalia) che ride in faccia al suo eroe che si vuole già sconfitto e gli regala uno stiletto. Che però è solo un piccolo gioiello. E lui capirà.


Umano troppo umano

La seconda parte ha una dominante gialla che nelle versioni degradate varia tra l'ocra e il marrone, tonalità che forse renderebbero meglio la marca "umana troppo umana" di quello che è il più breve dei tre episodi (ventotto minuti circa). È mattino. Claire, combattuta, dovrebbe cantare in serata nel prestigioso Theatre des Champs Elysées. Nel frattempo il perfido Kranin ha convocato un infuocato (in tutti i sensi) Comitato Centrale per andare in loco e oltraggiare la cantante. Anche la didascalia esplicativa si tinge di rosso fuoco e ne approfittiamo per ricordare che il campione della targhetta è opera di Leger, una sorta di dettaglio di una macchina cubista.
Nel teatro, apripista all'esibizione, vediamo il celebre Ballet Suedois capitanato da Jean Borlin (che vedremo due anni dopo anche in "Entr'acte") acclamato da una folla di tremila comparse. Claire si esibisce dopo una contestazione soffocata dagli applausi del pubblico e, così toccata dagli eventi, canta probabilmente la più bella canzone del mondo che non possiamo udire, il caveat per poter diventare finalmente umana, come tutti.
Ma la storia non è ancora finita, come suggerisce un improvviso viraggio che polverizza il bianco e mette in evidenza una serie di ombre espressioniste riflettute nella grande vetrata del camerino di Claire. La maggior parte di loro è il pubblico che sfolla felice dal teatro; un'altra ci restituisce le fattezze di un uomo che non sappiamo più essere vivo o morto. Si tratta di una intera sequenza di raccordo che serve a fissare la metamorfosi di Claire e a introdurre l'elemento "noir" che occuperà gran parte del terzo e ultimo episodio, il più convulso, il più discutibile, il più lungo (quasi un'ora). Entriamo allora nel feerico (non esiste una precisa traduzione in italiano del termine: magico, fantastico, rendono l'idea non perfettamente) mondo di Einar, l'uomo che credevamo morto e invece è un ingegnere-inventore. Il laboratorio è una costruzione di Leger che mette su tre dimensioni quello che aveva sempre dipinto su due. La dominante cromatica è verde (probabilmente un rimando al futuro, alla fantascienza: non sono verdi i marziani?) inframmezzati dal rosso dell'Amore Combattuto e dal noir che sarà totalmente preso in carico dal Marajah e dalle sue astuzie asiatiche.
Tripudio di pendoli e blocchi spogli e freddi come altari, il laboratorio mescola tali elementi suprematisti con spirali, linee spezzate, diagonali governate da moti perpetui di cui il più suggestivo è una serie di dischi snelli e simmetrici posti di taglio che danno la necessaria energia cinetica a quella che, nei quadri di Leger, è la quiete delle macchine in una tregua momentanea. Einar, incredibilmente "risorto" , invece di prendersi due sberle dalla donna ingannata ottiene il suo interesse.
L'Herbier ebbe molte critiche per questa, diciamo, caduta di stile: quando sembrava stesse raccontando la storia di una emancipazione (e l'idea della Legrand sicuramente era tale) lui cambia le carte in tavola e fa compiere l'ultimo grado di elevazione all'uomo che ha inventato macchine imprevedibili e prometeiche per, aggiunge in un primo piano ispirato forzatamente melodrammatico, "Amore dell'Umanità".
Non vogliamo infierire sui buchi di sceneggiatura, le accelerazioni folli del racconto, le incoerenze, le cadute; chi sia stato a compiere il balzo, infine, se l'uomo o la donna, poco importa: l'Oltre-Uomo è uno stato estemporaneo e, adesso che si amano, l'inventore può buttare le sue macchine angoscianti. Viene alla memoria un saggio di Georges Bernanos, scritto subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando era ancora esule in Brasile. Si chiama "La Francia contro i robot" ed è dedicato a un ingegnere (anche lui, come Einar, come lo sarà Jacques Hamelin ne "L'argent"...), il signor Rendu, che col suo lavoro giudizioso, competente, silenzioso ma non sottomesso, rappresentava quella che il grande scrittore chiamava, con una felicissima intuizione da fare propria, "la Francia Immortale".
Marcel L'Herbier riposa dal 1979 nel cimitero di Montparnasse, Parigi. Se passate di là, portategli un fiore.


11/04/2017

Cast e credits

cast:
Georgette Leblanc, Fred Kellerman, Philippe Hériat, Léonid Walter de Malte, Jaque Catelain


regia:
Marcel Lherbier


titolo originale:
L'Inhumaine


distribuzione:
Boîte à Images - Film Associates


durata:
135'


produzione:
Cinégraphic


sceneggiatura:
Pierre Dumarchais, Marcel L'Herbier, Georgette Leblanc


fotografia:
Georges Specht


scenografie:
Claude Autant Lara, Pierre Chareau, Michel Dufel, Fernand Léger, Robert Mallet-Stevens


montaggio:
Marcel L'Herbier


costumi:
Claude Autant Lara, Paul Poiret


musiche:
Darius Milhaud (partitura perduta)


Trama
Claire è una cantante di successo che tiene sulla corda molti uomini potenti che le fanno la corte. Soprannominata "l’inumana" per la sua apparente freddezza, affronterà una durissima educazione sentimentale.
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