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recensione di Diego Capuano

Il cinema statunitense moderno nasce da equivoci, rifiuti e ripensamenti.
Alla presumibile ricerca delle radici (del male) che avevano portato al tragico spettro del Vietnam, nel sondare la storia della prima metà del secolo degli Stati Uniti d'America, attraverso la lettura del libro di John Toland "The Dillinger Days" Robert Benton e David Newman di "Esquire" percorsero i sentieri della Grande Depressione, la malavita già contestualizzata, rappresentata e mitizzata dalla cultura di massa, dal cinema. Gangster, con mitra e ghigno, combattuti e vinti dalle altolocate forze dell'ordine.
Già genere cinematografico tra i più emblematici e stimolanti soprattutto agli albori dei primi anni 30, il gangster movie ha poi successivamente indossato altri abiti non disdegnando contaminazioni - con il coevo noir in primis - e cavando da storie e miti due schegge premonitrici, autentici genitori del "Gangster Story" che sarà: tra il 1948 e il 1950, "La donna del bandito" di Nicholas Ray e "La sanguinaria" di Joseph H. Lewis, opere che dimostrano ancora oggi caratteristiche basiche per l'avvento del film di Arthur Penn; e firmate non a caso da due outsider del cinema americano, sebbene Ray sia stato rispetto a Lewis più abile ad entrare nella Hollywood ricca ed esposta.
Cresciuto in Texas e a conoscenza di storie e mitologie della coppia di gangster, a Benton bastò leggere in una nota di quel libro i nomi della coppia di banditi più celebre del 900 per azionare l'idea da sposare insieme al sodale Newman: una storia americana raccontata con dinamiche proprie della recente lezione della Nouvelle Vague francese. Ecco l'intuizione vincente degli sceneggiatori, che proposero il progetto ad un alfiere dello stesso movimento: Francois Truffaut. Declinando l'offerta perché impegnato con la lavorazione di "Fahrenheit 451", ricevendo la visita dell'attore e produttore Warren Beatty che gli proponeva un poco convincente biopic dedicato ad Edith Piaf, fece in modo di ergersi a tramite tra i due sceneggiatori e colui che sarà il Clyde del film.
Fu Warren Beatty che, entusiasta, lo propose ad Arthur Penn - con il quale lavorò per "Mickey One (1965) - , inizialmente perplesso. E che la ripropose dunque a Truffaut, agli ormai navigati William Wyler e George Stevens e a molti altri. Certamente incuriositi dalla possibilità di rappresentare le gesta di Bonnie e Clyde ma scettici nei confronti di una storia che in quel dato momento gli sembrava fuori tempo e moda, troppo violenta e rischiosa.
Davvero non interessava al grande pubblico? Forse sì o forse no ma l'ormai consolidata amicizia tra Beatty e Penn contribuì a convincere il regista ad accettare la proposta.
Eccolo allora il corto circuito decisivo: fissare i paletti della storia in ben radicate province americane, redigere un ponte tra l'oggi e il domani delineando analogie socio-economiche e agire sotto la dichiarata influenza di un'amata corrente cinematografica proveniente dalla veccha Europa. La Nouvelle Vague, per l'appunto. Giovani francesi che amavano il classico cinema statunitense, nobilitandolo a dovere anche dal punto di vista critico; e che, a loro volta, risulteranno dunque fonte decisiva per il rinnovamento del cinema hollywoodiano che sul finire degli anni 60 gettò le basi per un decennio memorabile per l'industria cinematografica statunitense.

Le foto segnaletiche d'epoca che aprono il film introducono lo spettatore stabilendo fin dal principio una distanza temporale che si sposa con gli ambienti texani attraversati dai personaggi.
I luoghi dell'America marginale, abitata da un'umanità che nel bene e nel male reca in sé una formazione ed un'essenza che non sa fare a meno degli insegnamenti degli avi, sembrano aver immobilizzato la propria crescita. Resta uno sguardo puro, autentico, che però nei suoi spigoli non necessariamente sa guidare verso il domani gli spiriti delle nuove generazioni.
Tanto gli sceneggatori quanto il regista giocano con le possibilità di ribaltare l'immaginario ancestrale del fuorilegge, attuando talvolta un meccanismo degli opposti, capace di rendere al film quella complessità che supera puntualmente la superfice dell'apparenza.
Ciò è riscontrabile dalla figura di Bonnie Parker e Clyde Barrow. A tal proposito si consiglia di dare uno sguardo alle autentiche foto dei fuorilegge in questione: gli obiettivi rudimentali sono già riflettori per esaltare i due oltre le mere gesta criminali. Atteggiamenti spavaldi con ovvi furori giovanili: pose divistiche con o senza armi da fuoco, in suggestioni complici e non. Nell'inevitabile confronto con la trasposizione sul grande schermo si denota una fedeltà iconografica di fondo che si sposa con meditate e dunque significative differenze: gli abiti - dal cappello al foulard, dalla giacca alla gonna - sono rimeditati partendo dal materiale originale. Forme, colori, conseguenti movenze e sorrisi ricalcando quelli poveri d'epoca subiscono però una parafrasi temporale credibile anche per ipotetici banditi degli anni 60. Alcune scenografie, i costumi, i volti dei personaggi prendono colori e valenze contemporanee secondo una formula penniana di un nuovo immaginario che sa parlare di stile. E di uno stile che, di conseguenza, sa farsi contenuto.
Di presenza tutt'altro che disdicevole, i veri Bonnie e Clyde furono già precursori di un immaginario e di uno stile. Faye Dunaway e Warren Beatty sono bellissimi e, riproducendo quel passato pongono le figure ed il contesto fermandosi sempre e comunque prima di rischiare la caricatura, l'inverosomiglianza, le barriere che separano lo sguardo filmico dalla realtà storica.
Altra scelta cardine di questa riformulazione risiede nell'utilizzo del colore piuttosto che del bianco e nero che aveva segnato le gesta dei criminali più famosi del cinema. La fotografia di Burnett Guffey accorcia dunque visivamente le distanze con il passato prediligendo varie tonalità di giallo (del sole, dei campi di grano, dei capelli di Bonnie) in abbinamento a verdi e grigi/marroni (terreni, interni di abitazioni, abiti) in cromatismi di grande suggestione, dediti a presentare una luminosità sempre sull'orlo di essere imbevuta in un immaginario visivo bruno, in rischiose sfumature.

La trasfigurazione penniana si muove in spazi e linguaggi prettamente filmici, ma negando la pedissequa rilettura degli eventi reali dona ai personaggi - ed in particolar modo ai due protagonisti - un rispetto che può dirsi assoluto. A convincere Arthur Penn ad accettare la regia dopo le titubanze iniziali, fu, per l'appunto, l'opportunità di partire da un genere, trascenderlo cavandone una storia di due persone. Una storia d'amore, naturalmente. Qui risiede ad esempio una modifica di Penn allo script - accantonare l'omosessualità di Clyde in favore dell'impotenza dello stesso, onde evitare derive strampalate e al contempo favorire un aspetto capace di contribuire alle problematiche intime della coppia - ed è qui che il film racchiude il suo cuore pulsante nella prima straordinaria sequenza: Bonnie si muove nuda nella sua camera da letto; inquieta, suggerisce già una desiderata evasione dalla piatta quotidianità dell'arida provincia. Scorgendo dalla finestra un giovane estraneo, si affaccia e scaturisce già lo sguardo che sancisce l'innamoramento. La ragazza lo apostrofa accusandolo di gironzolare lì per rubare l'auto della mamma. Abbiamo, dunque, l'apertura della storia d'amore ed il contrappunto ironico che caratterizzerà l'intera opera di Penn. Da quel momento comincia la storia dei due: la sceneggiatura di Benton e Newman annulla per buona parte le sottolineature temporali, rinunciando agli andirivieni del vero Barrow dalle prigioni alla libertà. Qui il Clyde novello Jesse James attua con la sua ragazza una perpetua fuga contro il tempo che diventerà presto una fuga anche contro la morte. Le cadenze quasi picaresche - avvalorate dalla pertinente colonna sonora imbeccata da Newman ("Foggy Mountain Breakdown" di Earl Scruggs & Lester Flatt) - fanno da strada di giocosa ingenuità alle scorribande della coppia. Alla quale si aggiungeranno il fratello di Clyde, Buck, con l'ostile moglie Blanche, nonché il giovane scapestrato C. W. Moss. Al di là dei pregnanti e significativi confronti tra Clyde e Buck, la banda ne risulta essere una sorta di campione di quella carovana ampia che guarda con simpatia alle malefatte della coppia: improvvisatori e talvolta distratti, erano l'indicibile specchio attraverso il quale la civiltà contandina intravedeva una ribellione che andava per la verità oltre la volontà delle gesta compiute.

Nel periodo storico della Grande Depressione la nazione subiva un ampliamento della forbice già significativa tra ricchi e poverì, con tassi di disoccupazione altissimi e beni primari non sempre a disposizione dei più. Il potere economico era uno spettro non comunicante con i meno abbienti e di conseguenza i banditi giovani (letti anche come futuro) in combutta con le istituzioni rappresentanti le detestate autorità (le forze dell'ordine) erano una delle poche risorse verso un proletariato da fondare. Ed è fuori discussione che tra fughe e scontri la simpatia di Penn sia tutta rivolta ai suoi due protagonisti, né eroi né antieroi: il senso di ribellione dei due è soltanto parziale e rispetto ai precedenti film dedicati a coppie in fuga (vedi sopra) il regista evitare accuratamente la mitologia: il romanticismo è pressochè assente a favore di una dimensione intima che nelle sequenze di apparente quiete scandaglia i reconditi stati d'animo riuscendoli poi a protrarre anche al di fuori di tali scene. Dagli inappagamenti sessuali scaturiscono logiche insofferenze, frustrazioni. Litigi e silenzi che aprono poi squarci di indecisioni in situazioni più concitate: si veda l'entrata in scena dell'Eugene di Gene Wilder, fulcro di una delle scene più gioconde del film. In un repentino cambiamento di ritmo ed umore Bonnie frena l'auto, gli allegri spiriti, e ribalta la commedia dando il via alla trasferta che la porterà a rivedere per l'ultima volta sua madre, in uno dei frangenti più intensi della pellicola.  È questo anche il momento più elegiaco del percorso, dove la fotografia diviene sgranata, flou attraverso un ricercato effetto ottico, acquisendo i connotati di una cartolina d'epoca. Qui davvero per una manciata di minuti si scolpisce il tempo e solo qui, forse, subentra la consapevolezza di un tragico destino ormai già in fase di scrittura avanzata: "prova a vivere a 5 km da me e non vivrai a lungo, tesoro", dirà la signora Parker alla figlia.

Probabilmente già un preludio al celeberrimo finale della storia, che consacra a sua volta una rappresentazione della violenza come mai si era vista nel cinema americano. In combinazione a guerre e giovani corpi che tornavano in patria nel bel mezzo di annunciati massacri, Penn voleva innanzitutto scavalcare l'ipocrisia di chi avrebbe potuto osare (ormai i codici bacchettoni della censura venivano ad ammorbidirsi) finendo con l'edulcorare quel che resta uno dei punti chiave della vita, delle gesta, della morte di Bonnie e Clyde: la violenza, per l'appunto.
Una prima sequenza di capitale importanza la si ha quando il primo omicidio di Clyde ci viene mostrato crudo e diretto. Il climax è quello allegro di un'automobile imbrigliata in una strettoia proprio nel successivo momento culmine di una rapina: un uomo anziano si aggrappa alla vettura e, inquadrato il suo volto dietro al vetro del finestrino, la pistola di Clyde entra nell'inquadratura. La macchina da presa non stacca sul criminale, ma restando sull'esagitato vecchietto ci mostra lo sparo in pieno volto, e di conseguenza la morte e la notevole quantità di sangue, a distanza ravvicinata. La violenza viene introdotta con la puntualità di una secca e decisa sberla. Sangue ne scorrerà lungo la breve vita di Bonnie e Clyde. E con violenza inaudita i loro corpi saranno infine massacrati da una scarica di pallottole.

In una sceneggiatura che prevedeva una ordinaria e fugace rappresentazione di un risaputo epilogo, Arthur Penn trovò il colpo di genio e la quadratura di una visione di cinema che non aveva eguali: la costruzione della sequenza finale è all'insegna di una elaborazione che si consiglia di trovare altrove - ed è possibile farlo senza troppa fatica - onde evitare un eccessivo appesantimento descrittivo.
Gli sguardi dei due innamorati si incrociano fulimnei per un'ultima volta, raccogliendo la storia del loro rapporto in una circolarità contenente l'inizio e la fine.
L'inaudita violenza dell'epilogo è restituita in una stasi che assembla con esemplare continuità riprese da più angolazioni e rallenty. Qui è racchiuso l'annullamento definitivo della mitologia classica ed una disposizione in prima linea della labile ma vitale rigenerazione giovanile.
In un balletto dalla disillusa poetica o in una ballata che così finisce:
Some day they'll go down together
they'll bury them side by side.

To few it'll be grief,
to the law a relief

but it's death for Bonnie and Clyde

(da "The Story of Bonnie and Clyde" di Bonni Parker).


01/10/2018

Cast e credits

cast:
Warren Beatty, Faye Dunaway, Michael J. Pollard, Gene Hackman, Estelle Parsons, Gene Wilder, Denver Pyle


regia:
Arthur Penn


titolo originale:
Bonnie and Clyde


distribuzione:
Warner Bros.-Seven Arts


durata:
111'


produzione:
Warner Bros.


sceneggiatura:
Robert Benton, David Newman, Robert Towne


fotografia:
Burnett Guffey


scenografie:
Dean Tavoularis


montaggio:
Dede Allen


costumi:
Theadora Van Runkle


musiche:
Charles Strouse


Trama
Nella Dallas del 1933 si conoscono i giovani Clyde Barrow, ladro di automobili, e Bonnie Parker, cameriera: sarà colpo di fulmine. I due, ai quali si aggiungeranno poi altri complici, diventeranno una famosa coppia di rapinatori. In una fuga dalla polizia e contro il tempo si lasceranno alle spalle una scia di morti e di sangue. Ma un tragico destino li attenderà.