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recensione di Pietro S. Calò
7.5/10
Durante un raid sanguinoso, Rikuo (Gorō Kishitani) interviene con un preciso colpo di padella e salva la vita al potente Sawada (Yamashiro Shingo), boss dell’omonimo clan.
Così, da lavapiatti Rikuo diventa "zio", una sorta di capo-mandamento yakuza, pronto a scalare i vertici della gerarchia malavitosa.
Si sceglie una donna, Chieko (Arimori Narimi) e due fedelissimi che lo seguono ovunque.
Qui finisce la rapida ascesa e comincia il suo velocissimo e inesorabile precipitare: Rikuo è un cane sciolto e rabbioso; la sua maleducazione lo perderà definitivamente.

Miike, nel prolifico 2002 (ben nove sono i film licenziati quest’anno) mette mano a un romanzo di Fujita Gorō che nel 1975 era stato portato sul grande schermo da Fukasaku Kinji. Non si tratta propriamente di un remake in quanto, per esempio, il film di Miike è ambientato negli anni ottanta mentre quello di Fukasaku racconta per intero l’incredibile vita di Rikuo che nasce nel 1924 e muore nel 1956.
 In team coi suoi collaboratori più fidati (Takechi Shigenori alla sceneggiatura, Yamamoto Hideo alla fotografia, Shimamura Yasushi al montaggio e Endô Kôji alle musiche) Miike entra nella pelle di quest’uomo problematico e riesce nel difficile intento di non solo farci fare il tifo per lui (capita sempre con i loser, al cinema) ma di rendercelo quasi simpatico.
In una storia cupa e votata al peggio, Rikuo prende spesso le sembianze di un Buster Keaton in perenne disarmonia col mondo, le sue rappresentazioni e i suoi oggetti, trovandosi a essere protagonista quasi involontario di gag sulle quali non si può altro che ridere: quando col suo metodo timido-aggressivo corteggia Chieko gracchiando nel microfono del karaoke. O quando, allo stesso modo goffo ed elegante nel suo impermeabile lunghissimo e svolazzante à la Matrix, dissona con la capigliatura riccia e la pelle scura che lo rendono così diverso da tutti gli altri, nemici e non, finché la cinepresa non inquadra lungamente il suo volto, una espressione lugubre e pensierosa che lo fa diventare un puro segno grafico, un perfetto emoticon triste [questo, :( ].
Siamo già preparati al suo istrionismo fin quando non lo vediamo nel suo momentaneo e discreto rifugio che mette su un CD Heavy Metal ad altissimo volume e accompagna l’infernale ritmo in 4/4 scaricando sui muri l’intero caricatore di una pistola a tamburo, creando una sorta di rima con la batteria scatenata. Al culmine, rivestito di un boxer coi disegnini, è protagonista di una folle sparatoria con la Polizia finché, finiti i colpi, corre in casa a prendere un fazzoletto bianco che sventola allegramente in segno di resa, quasi scusandosi di un gioco che si è interrotto inaspettatamente.
Insomma, Miike è stato molto accurato nella costruzione di un personaggio tragicomico ma assolutamente coerente con la sua, magari balzana, idea del mondo. In ciò persino il suo inciampo nella tossicodipendenza non è altro che un accidente tra i tanti e neanche tra i più rappresentativi.
Nessuno capisce Rikuo (troppo semplice, non è filtrato da quelle sfumature nelle cui pieghe si costruiscono i rapporti) e Rikuo non comprende la natura umana, incapace com’è di collocarla su di un piano lineare, coerente.
La raffinata definizione dei rapporti sociali in terra nipponica è per il nostro eroe decisamente oscura. L’aver salvato la vita a un potente boss ha instaurato in Sawada la condizione di "On", un debito attivo che si muove disinvolto dal piano sociale a quello psicologico, la riconoscenza e l’obbligo nei confronti del salvatore, il "Giri".
Forse è un concetto troppo elaborato per la mente semplice di Rikuo che nel passaggio dal particolare al generale, dalle ambiguità dei sentimenti alle regole di ordine sociale, si perde completamente. E sbaglia. Sbaglia anche con la sua donna, Chieko che, essendo stata da lui stuprata, vanta un credito nei suoi confronti, un credito che Rikuo le riconosce con una logica disarmante che stupisce anche lei: "Tu sei mia moglie", le dice, salvo aggredirla nuovamente, nell’unico modo di cui Rikuo è capace nell’approcciarsi all’umanità.
Così, Rikuo arricchisce la galleria dei personaggi miikani che tanto avrebbero voluto imparare a volare e se in "The Bird People in China" (1998), film decisamente atipico della sua filmografia, era in questione una ricerca bressoniana dello stato di Grazia, in "Graveyard of Honour" torniamo in territori a lui più congeniali, laddove Rikuo è "un palloncino destinato a perdersi e scoppiare nell’atmosfera". Tale riferimento è sia detto sia mostrato nell’omonimo film di Fukasaku e non se ne avrà a male Miike se utilizziamo il suo spazio per fare alcuni raffronti con il geniale ma meno conosciuto maestro Kinji.

Il film di Fukasaku si racconta con un taglio più decisamente storico.
Il prologo è una sorta di "4° potere": girato e montato come un reportage, inframmezzato da foto d’epoca su cui si rincorrono testimonianze di gente che aveva conosciuto Rikuo, voci che si accavallano e spesso si contraddicono. Il tutto in un bianco/nero ad alto contrasto. La storia di Miike ha invece una decisa dominanza del verde nelle sue gradazioni più oscure e opprimenti a connotare gli ambienti malsani delle bische e dei bar mentre nei bordelli si affaccia lo scolastico filtro rosso. Fukasaku fa corrispondere la sua storia con la rovina del Giappone che entra in guerra quando Rikuo è rinchiuso nel riformatorio e da cui esce subito dopo la resa. D’altra parte Fukasaku ci tiene a informarci della data di nascita del nostro eroe, una data funesta, quel 6 agosto che sarà poi il giorno di Hiroshima. La piccola storia è contenuta in quella grande risultando un prezioso documentario del Giappone nel momento peggiore del suo impero millenario, mortificato dall’occupazione americana (che detta legge su tutto, anche su contrabbando e prostituzione) e dal cosiddetto "terzo popolo" (cinesi e coreani che da schiavi sono diventati "i vincitori della guerra"). Segnaliamo un romanzo di qualche anno addietro, "Tokyo anno zero" (David Peace, 2007) che tratta quasi precisamente le stesse tematiche.
Il film di Miike è invece ambientato in un momento depressivo del suo Paese, quegli anni ottanta nei quali l’industria cinematografica giapponese ha toccato i suoi momenti più bassi, di produzioni e di talenti. Come Miike, anche Fukasaku alleggerisce la carica tragica di Rikuo con tecniche da slapstick come, per esempio, l’uso nella stessa sequenza del ralenti cui seguono movimenti convulsi e accelerati che si chiudono con vere e proprie "bombe di rosso" nelle sequenze in cui è mostrata una sparatoria tra gang. Così come questa tecnica è uno stilema di Fukasaku, allo stesso modo Miike è affezionato ai suoi movimenti più caratteristici, travelling di accompagnamento dell’azione in campo medio che quando stringono sul primo piano del protagonista sono seguiti con la macchina a mano e che sono continuamente riquadrati per tenere sempre l’azione al centro della scena.
Non se ne abbia a male Miike se consideriamo il film di Fukasaku mezzo punto in più del suo…
29/03/2016

Cast e credits

cast:
Yoshiyuki Daichi, Harumi Inoue, Ryôsuke Miki, Narimi Arimori, Goro Kishitani


regia:
Takashi Miike


titolo originale:
Shin Jingi no Hakaba


distribuzione:
Daiei Motion Picture Company


durata:
131'


produzione:
Daiei Motion Picture Company - Excellent Film - Toei Video Company


sceneggiatura:
Goro Fujita (romanzo) - Shigenori Takechi (script)


fotografia:
Hideo Yamamoto


scenografie:
Tatsuo Ozeki


montaggio:
Yasushi Shimamura


musiche:
Yukiya Sato


Trama
Durante un raid sanguinoso, Rikuo interviene con un preciso colpo di padella e salva la vita al potente Sawada (Yamashiro Shingo), boss dell’omonimo clan. Ma la sua rovina è ormai prossima...