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recensione di Rudi Capra
9.0/10

il buco frammartino

...un’ombra, una goccia,
un sogno, un gioco di prestigio,
un lampo di luce,
una nuvola, un tuono.
Così dovresti guardare tutte le cose
(Sutra del Diamante)


I. Un’ombra, una goccia

Italia, 1961. Mentre a Milano viene ultimata la costruzione del Pirellone, un gruppo di speleologi piemontesi si cala nelle profondità del Pollino per esplorare l’abisso del Bifurto, all’epoca la terza grotta più profonda al mondo. Muti testimoni di questa impresa dimenticata: gli animali, gli alberi, il cielo, le rocce e l’anziano pastore Zi’ Nicola (Nicola Lanza).

Non è ovviamente un caso il parallelo tra il Nord arrembante del boom economico e il Sud dirupato, ancestrale, consegnato ai cicli quieti e costanti della natura. Frammartino compone sin dalle prime scene un gioco di opposizioni e giustapposizioni entro l’immagine e tra le immagini, che rinvia alla difformità dei ritmi umani e naturali: l’arrivo degli speleologi alla stazione e le onde del mare, la discesa degli speleologi nel villaggio e un gatto calico che vaga fra i tetti, il pullmino degli speleologi che sale su una strada sterrata accanto a un torrente che scende a valle. A legarle in un rapporto di (dis)continuità, la giustapposizione di forme verticali (il faro, il monte, un pino) e movimenti obliqui (gli esploratori, l’acqua, l’asino, le vacche), esemplificando un principio compositivo caro a Ozu (si vedano i celebri incipit di "Tarda primavera" o "Erbe fluttuanti").

Infine, il racconto si biforca. Da un lato, Zi’ Nicola avvolto dall’ombra della morte. Dall’altro, la lenta discesa degli speleologi nella tenebra amniotica del Bifurto, nella calma eco di uno stillicidio che manifesta meglio di ogni immagine un diverso scorrere del tempo.

II. Un sogno, un gioco di prestigio

Dice lo stesso Frammartino: "La grotta ti costringe a un confronto con il tempo. Lì sotto non c’è il ciclo normale giorno-notte, né i cambiamenti termici che regolano il nostro corpo […] Si è nel buio, con la temperatura costante, e qualcosa accade anche a livello fisico. Si ha la sensazione di essersi calati da due ore e ne sono passate dieci. C’è uno smarrimento temporale che appartiene agli abissi."

Si comprende allora come il confronto tra la grotta e il suo esterno rappresenti soprattutto un confronto tra il tempo (definito) della civiltà e quello (infinito) del cosmo. I simboli della civiltà contemporanea – Sophia Loren, Kennedy, la Fiat – sono pagine bruciate che sfiorano le pareti della grotta, immagini incendiate e lanciate dagli speleologi, come in un infantile gioco di prestigio, per sondare le dimensioni e le profondità dell’abisso.
La vita umana acquista allora la consistenza di un sogno, perché l’invisibile vastità del cosmo ne costituisce un ideale e infinito fuoricampo, proprio come il Bifurto costituisce il fuoricampo del parco del Pollino. L’esistenza umana appare in Frammartino decentrata, distanziata, scorporata dall’abituale prospettiva antropocentrica, uniformata ad acqua corrente, fuoco che brucia, nuvole che passano, erba che respira.

III. Una nuvola, un tuono

In questa esplorazione del fuoricampo dell’umano, il sonoro curato da Simone Paolo Olivero ha un ruolo importantissimo. Realizzato con un sistema Dolby Atmos di ultima generazione e quasi 50 sorgenti sonore simultanee, "Il buco" si apre e si chiude con il suono, che è precedente e postumo alle immagini. Come nello splendido "Il pianeta azzurro" di Piavoli (1982), il linguaggio umano è ridotto a brusii inintelligibili, livellato al murmure dell’acqua, ai campanacci delle vacche, al crepitio del fuoco, al verso dei colombi, al frinire delle cicale. Come l’esistenza umana non ha priorità fra le esistenze, così il linguaggio umano non ha priorità fra i suoni, degradato a mero flatus vocis.

Ma l’atto stesso dell’ascolto detiene nel film un primato gnoseologico. Gli speleologi ascoltano il rimbalzo delle pietre per indovinare le forme e l’estensione della grotta. Allo stesso modo il dottore, condotto al capezzale del morente Zi’ Nicola, ausculta il petto, il respiro. E il montaggio alternato giustappone la morte e il fondo della grotta, immerso in un silenzio invalicabile che rappresenta il limite estremo della conoscenza e della sua rappresentazione.

IV. Un lampo di luce

In fondo è proprio così che si conclude l’impresa, con la necessaria traduzione in numeri (683 metri di profondità), in immagini, in una cartografia del sottosuolo che dona un’illusione di completezza. Di illusione si tratta, dopotutto "la Calabria è una terra con una natura selvaggia, una dimensione informe e contraddittoria, e in questo è profondamente italiana, perché il concetto di non finito fa parte della cultura del nostro paese". E fa parte anche del film, che si chiude con la nebbia, con l’eco indistinta della voce di Zi’ Nicola, oramai né umana né animale, che rimbalza per le valli.

Il cinema stesso, che come ricorda Frammartino è nato nel medesimo anno di speleologia e psicanalisi (1895, tre diverse strategie di esplorazione della realtà), non è altro che scrittura con la luce. In questo caso la suggestiva fotografia di Renato Berta, una calligrafia del chiaroscuro attraversata da repentini pennacchi di luce (più La Tour che Caravaggio) nel buio uterino della grotta. Il cinema carsico di Frammartino si configura allora come una maieutica delle immagini vergini (à-la Herzog), una sartoria dell’invisibile cucita intorno alla simbolicità del buco, non-figura che si pone al contempo come frontiera del visibile e geografia dell’invisibile.


27/09/2021

Cast e credits

cast:
Nicola Lanza


regia:
Michelangelo Frammartino


titolo originale:
Il buco


distribuzione:
Lucky Red


durata:
93'


produzione:
Doppio Nodo Double Bind, Rai Cinema, Société Parisienne de Production, Essential Filmproduktion GmbH


sceneggiatura:
Michelangelo Frammartino, Giovanna Giuliani


fotografia:
Renato Berta


scenografie:
Giliano Carli


montaggio:
Benni Atria


costumi:
Stefania Grilli


musiche:
Simone Paolo Olivero


Trama

Italia, 1961. Mentre a Milano viene ultimata la costruzione del Pirellone, un gruppo di speleologi piemontesi si cala nelle profondità del Pollino per esplorare l’abisso del Bifurto, all’epoca la terza grotta più profonda al mondo