Ondacinema

recensione di Eugenio Radin

Let’s go Bowling!

"Avevo una patata bollente in mano e la buttai prima di bruciarmi…
Non volevo tornare in ufficio e mi fermai a giocare a bowling.
Volevo pensare ad altro per un po’."
(Walter Neff ne “La fiamma del peccato")

"Al diavolo, Drugo. Andiamo al bowling!"
(Walter Sobchak ne "Il grande Lebowski")

All’interno di una delle pellicole più emblematiche della produzione noir americana degli anni Quaranta qual è "La fiamma del peccato" di Billy Wilder, il protagonista, turbato dalla proposta della seducente femme fatale Phyllis Dietrichson di assassinare il ricco marito per ereditarne il patrimonio, si concede una partita di bowling per cacciare i cattivi pensieri e "pensare ad altro per un po’". Il bowling dunque acquista un preciso valore semantico all’interno dell’opera: è ciò che allontana dalla mente del protagonista il pensiero terrorizzante dell’omicidio, un’oasi di spensieratezza immersa in una vicenda angosciosa e cupa.     
E "Double Indemnity" non è l’unico noir in cui il bowling è presente e in cui assume questa connotazione: anche ne "I quattro rivali" di Jean Negulesco, ad esempio, esso rappresenta le possibilità lavorative, una sistemazione stabile, la capacità di condurre una vita onesta. Infine potremmo citare "Doppio gioco" di Robert Siodmak, dove il protagonista, Burt, rifiuta una partita propostagli dal padre, firmando così inconsapevolmente la propria condanna a morte.     
In tutto il cinema noir classico insomma, lì dove compare, questo sport tipicamente americano sta a rappresentare un’ancora di salvezza di fronte alle tentazioni criminali dei personaggi[1].   
Qualche decennio più tardi, due fratelli del Minnesota, Joel ed Ethan Coen, scelgono di girare un’allucinata parodia del noir, in cui il bowling assume una dimensione centrale all’interno delle vicende (molto più che negli esempi citati degli anni Quaranta). Non a caso i titoli di testa de "Il grande Lebowski" si accompagnano a una serie di inquadrature a ralenti che vanno a cogliere i piccoli gesti, i rituali, gli ingranaggi e i maccanismi umani della sala da bowling in cui i tre amici protagonisti: il drugo, Walter e Donny, passano la maggior parte del loro tempo libero. Birilli, strikes e tornei fanno da sfondo ai dialoghi centrali del film, ad alcune delle scene più comiche, nonché alle pochissime sequenze in cui i Coen si sbizzarriscono con virtuosismi registici (e che dunque vengono messe in risalto rispetto al resto dell’opera, dove i movimenti di macchina sono per lo più minimali). Ma esso conserva, infine, la caratterizzazione originaria che già aveva nel film di Wilder: la pista da bowling rimane pur sempre l’oasi di pace in cui rifugiarsi quando tutto si mette male, quando gli eventi sembrano precipitare. A fronte di un mondo che pare aver perso il senso dell’orientamento, il bowling diviene dunque in luogo in cui è ancora possibile trovare delle regole e delle certezze ("Questo non è il Vietnam. È il bowling: ci sono delle regole!" griderà Walter). Dopo ogni evento tragico (o, in questo caso, tragicomico) la risposta è sempre la stessa: qualche tiro in pista. È così all’inizio, dopo che gli uomini di Jackie Treehorn irrompono in casa del drugo e gli urinano sul tappeto; è così dopo il fallimento del piano di Walter per sbaragliare i rapitori di Bunny e tenersi il riscatto; persino dopo l’evento più drammatico del film, ovvero la morte di Donny, la risposta dei protagonisti è sempre la stessa: "Let’s go bowling!". Come vedremo questo è soltanto il primo elemento con cui il film si inserisce nel solco della tradizione noir per scardinarla completamente: si inserisce nella tradizione, abbiamo detto, perché il topos qui esposto è, come abbiamo visto, caratteristico di diversi film della hollywood classica; ma al contempo la scardina perché la drammaticità è presto trasformata in commedia, in farsa, in parodia, in scherzo.

The Big Joke

"Sai questo… questo è un caso molto, molto complicato, Maude. Un sacco di input e di output. Sai, fortunatamente io rispetto un regime di droghe piuttosto rigido per mantenere la mente, diciamo, flessibile".

"Il grande Lebowski" è un film che ama scherzare, non solo a livello narrativo, tramite i personaggi, ma anche e soprattutto a livello metatestuale, tramite il riferimento alla tradizione cinematografica precedente e, in particolare, al sistema dei generi della Hollywood classica. L’intento ludico della pellicola è già messo in chiaro nella sequenza di apertura del film:
La mdp sorvola un terreno brullo e desertico, seguendo il movimento di una tumbleweed: la palla di sterpaglia rotolante che è luogo comune di molto cinema western, sulle note di un motivetto country: "Sons of the pioneers". Fuori campo, la voce di quello che si rivelerà essere un saggio cowboy ci introduce al racconto: "Nel lontano Ovest conoscevo un tipo, un tipo di cui voglio parlarvi. Si chiamava Jeffrey Lebowski, o almeno così lo avevano chiamato gli amorevoli genitori, ma lui non se ne serviva più di tanto. Jeffrey Lebowski si faceva chiamare: il drugo". Il riferimento al lontano Ovest e il tono solenne del narratore accrescono la convinzione dello spettatore di trovarsi davanti a una pellicola western, ma in un attimo l’inquadratura si fa buia, passando dal giorno alla notte e la ripresa si alza inquadrando in campo lungo una grande città metropolitana. La voce fuori campo ci rivela dove ci troviamo: "La chiamavano Los Angeles: la città degli angeli". Il passaggio repentino dal giorno alla notte, dal deserto alla città, spiazza lo spettatore che è costretto a rivedere le proprie convinzioni. Ciò a cui stiamo per assistere non è un film western: Los Angeles non è la città dei cowboys, è la città di Raymond Chandler, la città del noir.         
Il procedimento qui attuato, questo mash-up tra generi diversi, è già tipico della New Hollywood, ma tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta si fa più forte con la nascita del cinema postmoderno, di cui i Coen sono tra i rappresentanti più illustri. All’interno della loro filmografia, oltre al noir (non solo con "Il grande Lebowski", ma anche con "Blood Simple", "Fargo" e "L’uomo che non c’era") i due cineasti hanno omaggiato il gangster-movie ("Crocevia della morte"), la commedia ("Arizona Junior", "Mr. Hula-hoop"), il western ("Fratello, dove sei?", "Il Grinta", "Non è un paese per vecchi"), il film di spionaggio ("Burn After Reading"), sempre cercando di andare oltre alla definizione classica dei generi e alle loro caratteristiche standard. Tuttavia, mai come in questo caso, il gioco della parodia è stato così profondo. 
"The Big Lebowski" è un pastiche infarcito di omaggi, citazioni, allusioni che gioca con la consapevolezza dello spettatore e che dunque si inserisce a pieno titolo nella tradizione del film postmoderno[2]: vediamo in che modo.    
Anzitutto, ci si potrebbe chiedere cosa ci autorizza a definire la pellicola in questione un noir, o per lo meno una sua caricatura, soprattutto considerando che già la definizione del noir classico ha confini labili ed è oggetto di discussione[3]. Mostreremo dunque quali siano gli elementi caratteristici del genere presenti anche nel film dei Coen per poi mostrare in che modo "Il Grande Lebowski" giochi con questo, secondo una logica postmoderna.  
L’atmosfera allucinata che caratterizza il film e che raggiunge il suo apice nelle due sequenze di sogno, è il primo elemento tipico del genere in questione: si pensi a un classico come "L’ombra del passato" e in particolare, all’interno di questo, si pensi al momento in cui il detective Marlowe viene drogato affinché riveli importanti informazioni circa il caso a cui sta lavorando. Stando a Gandini tuttavia: "a essere caratterizzante del film noir non è semplicemente la presenza del sogno, e la sua associazione a uno stadio di turbamento mentale del soggetto, ma anche la sua pervasività, basata su una proliferazione incontrollata di atmosfere oniriche". Questo, a ben vedere, vale pure per "Il grande Lebowski": anche lì dove non c’è un vero e proprio sonno, l’atmosfera è quella tipica di un’allucinazione mentale. Si prendano come esempio la sequenza in cui il drugo si reca per la prima volta nello studio di Maude Lebowski e quella riguardante la festa nella villa di Jackie Treehorn, che non a caso sfocerà in un incubo vero e proprio, causato dal sonnifero inserito dal pornografo nel white russian del protagonista. Le due scene qui richiamate, inoltre, ricordano vagamente anche il thriller-horror (in particolare quella che coinvolge Maude), che non a caso è uno dei generi nei confronti del quale il noir è maggiormente debitore[4].       
Altro tratto caratteristico del noir, abbondantemente presente anche nell’opera coeniana, è ciò che Vivian Sobchak definisce "Lounge time", ovvero il "tempo dell’indugio", che si ricollega all’assenza di uno spazio domestico, al quale si contrappongono una serie di luoghi di passaggio, di ambienti impersonali, insicuri, disagevoli in cui il protagonista passa, senza riconoscerli come propri. Il "tempo dell’indugio – scrive la Sobchak -  viene considerato non come un’attività rigeneratrice, […], ma, in senso negativo, come inquietudine improduttiva, mancanza di un’occupazione, pubblica, ambigua e disturbante esibizione di inattività"[5].
Il drugo, così come la maggior parte degli altri personaggi coeniani, vive esattamente nella condizione descritta dalla Sobchak, che è la stessa condizione che contraddistingue, ad esempio, i personaggi bogartiani. Persino la sua stessa casa ci è presentata come un ambiente inabitabile, continuamente soggetto alle devastazioni dei vari malviventi di passaggio e del suo stesso inquilino. Se si guarda anche al proliferare di spazi e di ambienti presenti nella pellicola, soprattutto in confronto ad altri film degli stessi autori, si avrà un’ulteriore prova riguardo a ciò: Lebowski è continuamente sballottato da un luogo a un altro, incapace di trovare riposo. 
La volontà di mostrare il lato oscuro dell’american dream caratterizza ulteriormente tanto il noir classico che quello dei Coen: anche se a prima vista potrebbe non sembrare, la pellicola è ricolma di riferimenti politici che però non sembrano alludere a un momento storico preciso: l’azione si svolge ai tempi della prima guerra del Golfo, come ci ricorda la voce fuori campo in apertura, ma Walter è un reduce del Vietnam, il drugo è un hippie che sembra direttamente uscito dagli anni Settanta, gli avversari sono nichilisti di origine tedesca, e così via. Il mash-up non riguarda solamente i generi, ma anche i personaggi, archetipi di diverse ere della storia americana (anche il cowboy, in tal senso, rappresenta il passato glorioso della conquista dell’Ovest), che vengono amalgamate ed esposte alla critica sottile dei registi.   
Infine, anche alcuni elementi narrativi che contraddistinguono l’opera in questione sono ritrovabili in molti noir classici: il fatto che l’intera vicenda ruoti attorno a un oggetto da recuperare, così come era ne "Il mistero del falco" o ne "L’ombra del passato"; la stessa ambientazione losangelesiana; il rapimento, già presente ne "Il grande sonno"; la presenza di un ricco magnate che commissiona e/o ostacola il caso.           
Eppure tutti questi elementi subiscono una destrutturazione comica: l’oggetto da recuperare è un tappeto sudicio di urina e non un oggetto di valore, il rapimento si rivela inesistente, il ricco magnate diventa una macchietta cartoonesca.   
Per esaminare più da vicino in che modo il film in questione giochi con i classici del passato, confrontiamo la sequenza in cui il drugo viene assoldato dal ricco Lebowski per risolvere il rapimento della giovane moglie Bunny, con l’incipit di uno dei più celebri noir di tutti i tempi: "Il grande sonno" di Howard Hawks, a cui "Il grande Lebowski" si ispira già dal titolo e del quale esso è, in fondo, una palese parodia. 
I Coen sembrano voler ricalcare pari-pari la sequenza di Hawks. In entrambi i casi abbiamo il maggiordomo che apre la porta e invita l’ospite-detective a entrare nel lussuoso appartamento. Ne "Il grande sonno" queste prime inquadrature sono seguite dall’incontro tra Marlowe (Humphrey Bogart) e Carmen, figlia ninfomane del ricco signor Sternwood. Nei Coen questo elemento è anticipato a pochi istanti prima, quando il drugo incontra Bunny Lebowski, nel giardino con piscina della villa. Dopo di che in entrambi i film il protagonista si ritrova in presenza del ricco magnate che gli commissionerà il caso, in entrambi gli esempi questo personaggio è rappresentato in sedia a rotelle e circondato da un ambiente caldo (una serra nel primo film, una stanza con caminetto nel secondo); in entrambe le sequenze poi, il protagonista-detective inizia a fumare mentre gli viene spiegato il caso e gli viene mostrata la lettera di ricatto, che la mdp inquadra in primo piano.     


Eppure, l’azione dei fratelli cineasti nei riguardi del classico hawksiano è duplice: se da un lato lo omaggiano, dall’altro lo dissacrano, tramite l’introduzione di piccoli elementi di contorno nella scena, che la rendono caricaturale e farsesca. Brandt, il maggiordomo del signor Lebowski, introduce il drugo nella stanza aprendo le porte con un gesto teatrale e melodrammatico che risulterebbe completamente fuori luogo in un film che si voglia prendere sul serio. Avverte poi il drugo che il suo signore si è ritirato nell’ala Ovest dell’appartamento, chiaro riferimento alla "West Wing" della Casa Bianca, dove si trovano gli appartamenti presidenziali (in effetti Jeffrey Lebowski richiama nell’aspetto Franklin Delano Roosevelt, altro riferimento politico che si aggiunge a quelli già citati) e non solo. I Coen fanno infatti riferimento anche al classico Disney "La bella e la bestia", in cui il personaggio del mostro, nei momenti più cupi, si ritira nell’ala Ovest del castello, dov’è racchiusa la rosa incantata[6]. E mentre Carmen approcciava Marlowe gettandosi romanticamente tra le sue braccia, l’approccio di Bunny con il drugo è decisamente meno romantico ("Te lo succhio se mi dai mille dollari"). Allo stesso modo, mentre Marlowe fuma tranquillamente una sigaretta, il drugo si accende uno spinello e tossisce ripetutamente quando il fumo gli si blocca in gola. Infine anche la lettura della lettera di ricatto è accentuata in maniera esageratamente melodrammatica dal “Lacrimosa” di Mozart che si sente in sottofondo e dagli sfoghi del Signor Lebowski nei confronti dei rapitori.

Il Drugo

"Io non sono il Signor Lebowski, lei è il Signor Lebowski… Io sono Drugo! Ha capito? È così che deve chiamarmi. Altrimenti può chiamarmi drughetto, drugantibus oppure drughino se è di quelli che mette i diminutivi in ogni cosa…"

Anche il protagonista dell’intera vicenda, il drugo, se confrontato con i protagonisti del noir classico, assume i connotati della parodia. In effetti, la cosa che più rende "Il grande Lebowski" lontano da "Il grande sonno" (e da altri film simili) è il fatto che, anziché Humphrey Bogart, con tutto ciò che il suo nome si porta appresso, abbiamo Jeffrey Lebowski, detto "il drugo" (l’inglese qui rende meglio: "il drugo" è la traduzione di "The dude", che letteralmente suonerebbe come "il tipo", "il tizio", che sottolinea il suo essere una persona qualunque, uno tra i tanti). Al contrario dei detective bogartiani, che assumono le fattezze de "l’uomo giusto al momento giusto", Lebowski è per l’appunto un "tizio" qualunque, scambiato per un omonimo miliardario a ritrovatosi coinvolto in un rapimento solo per via del suo nome, che egli per primo rifiuta. Egli è "l’uomo sbagliato al momento sbagliato" o, per dirla con il titolo di un altro film dei Coen, un "uomo che non c’è", che non è presente agli eventi, dove con ciò si vuole sottolineare la sua riluttanza a identificarsi con qualsiasi ruolo gli venga affibbiato[7].     
Inoltre, mentre Bogart (o chi per lui) è l’uomo d’azione par excellence, la connotazione principale del drugo è l’estrema pigrizia, sottolineata non soltanto dall’outfit trasandato, ma anche dal modo in cui la mdp lo ritrae, in leggero plongée, se non addirittura con inquadrature a piombo (fotogrammi 1 e 2), a sottolineare un senso di pesantezza e di inoperosità. Nel resto dei casi, comunque, egli compare spesso seduto, per lo più scompostamente (fotogramma 3), sfacciatamente sprofondato in poltrone, divani, automobili, etc.          


E proprio il rapporto del drugo con la propria automobile, simbolo classico della mascolinità avventurosa e spericolata, mostra come egli si discosti totalmente da un certo modello di virilità: nonostante egli possegga una macchina, non lo vediamo quasi mai guidare, ma per lo più rimanere seduto nel posto del passeggero. L’unica eccezione è costituita dalla sequenza nella quale egli, nel tentativo di seminare il detective privato che gli è stato messo alle costole, finisce per far cadere un mozzicone acceso nei genitali (altro attentato alla virilità) e per sfasciare il veicolo contro un lampione. L’auto del protagonista, così come la sua mascolinità, è continuamente vittima di incidenti, danneggiamenti e furti e il drugo appare totalmente inetto nel gestirli. 
Ma al di là di tutto ciò, il protagonista de "Il grande Lebowski", è sicuramente uno dei personaggi più fortunati dell’intera filmografia dei Coen e non solo, divenuto icona pop e riferimento costante per generazioni di cinefili: il look trasandato, la spensieratezza, la passione per i CCR e per il white russian diventano elementi indelebili che si imprimono nella memoria degli spettatori. Come sostiene Giacomo Manzoli sul suo saggio sui due cineasti statunitensi: "Lebowski è un outcast che guarda alle cose con distacco zen, un esistenzialista implicito, un uomo che sembra fluttuare nel vuoto, che osserva gli altri affannarsi per le proprie ossessioni e consumarsi nei conflitti, senza neanche provare a capire le ragioni del loro comportamento. […] Lebowski, dopotutto, è semplicemente uno che riesce a vivere in un mondo in crisi"[8]. Il drugo piace, al di là dei suoi vizi e della sua accidia, perché in un mondo in cui mancano i punti di riferimento, in cui regna la caoticità e l’insicurezza, tutti vorremmo essere come lui, avere il suo approccio stoico di fronte alle difficoltà che non possiamo controllare. Al contrario Walter, co-protagonista reduce del Vietnam e costantemente sul punto di perdere le staffe, ci strappa la risata perché è come noi, impuntato sulla sua battaglia e sul proprio punto di vista e incapace di cedere di fronte al destino. La capacità dei Coen è quella di creare dei personaggi che, nonostante tutto, parlano a noi, al nostro presente e al nostro modo d’essere.

Un mondo in crisi    

Al di là della notevole dose di comicità, quello ritratto dai fratelli Coen è un mondo in crisi, come si è detto, un’America lontana dal "destino manifesto" che aveva animato le gesta degli eroi della frontiera e i film di John Ford. Quel mondo, quel modello di vita, impersonato qui dal cowboy straniero, è superato, incomprensibile, appartenente ad un mondo lontano e fuori tempo massimo, tanto che l'osservazione che egli fa nei confronti del drugo ("Devi proprio dire tutte quelle parolacce?") risulta insensata, inammissibile ("Ma che cazzo dici amico?"). Ciò che rimane è un miscuglio di personaggi che vivono in una dimensione tutta loro, che non ha nulla a che vedere con la realtà, mentre al di fuori imperversa una nuova guerra, lontana anni luce dalle grandi gesta militari delle due guerre mondiali. Lo spazio è abitato da uomini emarginati, irrisolti, incapaci di comunicare, la cui solitudine è accentuata dalle scelte registiche dei due cineasti: anzitutto i Coen rinunciano alle inquadrature di quinta (over the shoulders), lasciando così i personaggi, anche nelle scene di dialogo, da soli all’interno dell’inquadratura[9]. In aggiunta a ciò, la volontà di usare per lo più lenti grandangolari o comunque a breve lunghezza focale, "esagera la distanza tra i vari oggetti in un’inquadratura, enfatizzando il loro distacco"[10], cosicché i personaggi si trovano circondati da una quantità molto maggiore di spazio, che li fa sembrare ancora più distanti dai loro interlocutori o da chi gli sta accanto. Persino in situazioni in cui sembrerebbe naturale inserire due attori nella stessa inquadratura i Coen scelgono di mantenere i personaggi separati, come nelle scene in cui il drugo e Walter sono in macchina assieme e la mdp inquadra alternativamente prima l’uno e poi l’altro.


Se vogliamo considerare "Il grande Lebowski" un noir, dobbiamo farlo secondo la definizione del genere data da Jon Tuska, che lo considera: "un punto di vista sulla vita" basato sul "confronto col nulla"[11]. Il film è, in effetti, un calderone al cui interno di mescolano elementi di ogni sorta, si sovrappongono e si accumulano situazioni (in ciò rivela maggiormente la sua natura postmoderna[12]), ma questo accumulo, questa sovrabbondanza nascondono in realtà un vuoto sostanziale.
Si veda come all’interno della pellicola è trattato il meccanismo del McGuffin: talvolta esso è utilizzato per accentuare il carattere allucinatorio delle scene (quando il drugo approfitta di un momento di solitudine per spiare gli appunti scritti da Jackie Treehorn su di un blocchetto e ci trova soltanto il disegno di un uomo con un’enorme erezione, non sappiamo se ciò che egli sta vedendo è reale o l’effetto del sonnifero che gli è stato somministrato), ma la maggior parte delle volte a rivelarsi McGuffin sono elementi sostanziali della narrazione, che rivelano così la natura casuale degli avvenimenti. Infine è l’intera impalcatura narrativa a rivelarsi un enorme McGuffin, un’enorme farsa: scopriamo che Bunny non è mai stata rapita; che il riscatto era soltanto un facsimile; che il "grande" Lebowski non è in realtà un milionario, ma un impostore che utilizza a proprio vantaggio i fondi di un’associazione di beneficienza; che l’intera vicenda nella quale siamo stati calati è in realtà un immenso equivoco, al di sotto del quale si nasconde una vacuità esistenziale[13], al di là del quale domina il caso - elemento tipicamente coeniano, ripreso in molti altri film dei registi (si vedano ad esempio "Non è un paese per vecchi" o "A Serious Man").  
Tale senso di vuoto è al centro della tematica postmoderna, che inverte la domanda heideggeriana ("perché l’essere anziché il nulla?") nel suo opposto, nell’affermazione secondo cui non "c’è niente, piuttosto che qualcosa"[14].       
È però nteressante notare in che modo questo "nulla" sia messo in scena dai Coen. Se si confronta la prosa coeniana con quella dell’altro grande maestro del postmoderno: Quentin Tarantino, e con l’altro grande noir anni ’90: "Pulp Fiction", si nota una differenza sostanziale: mentre la scrittura tarantiniana è la scrittura del superfluo[15], nel senso che si concentra su ciò che solitamente è omesso dall’azione narrativa, "The Big Lebowski" finge invece di mettere in scena un dramma classico vero e proprio, con tutti i topoi narrativi fondamentali (il rapimento, il riscatto, il detective, la bella da salvare) salvo poi svelarne la sostanziale inconsistenza.      
Ecco che a salvare il tutto ritorna un’altra volta ancora il bowling, ovvero la dimensione ludica, il gioco: l’unico luogo in cui, in un mondo caotico e incomprensibile, si possono ancora ritrovare delle regole e dei codici ben definiti; ecco perché i protagonisti vivono il bowling con così tanta serietà, difendendolo più di qualsiasi altra cosa: perché è l’unico luogo in cui si ritrova un senso dell’orientamento, un equilibrio. Gioco e vita si invertono, il gioco diventa vitale mentre la vita si trasforma in un gioco. Essa procede così, "tra qualche strike e qualche palla persa", e quando tutto si mette male, rimane la possibilità di rifugiarsi nella finzione, nell’arte, ed esclamare assieme al drugo, a Walter e a Donny: "Fuck it, dude! Let’s go bowling!".



[1] "For that is the cruel law of bowling noir. Bowling is a bright beacon of chuckleheaded salvation burning in the dark existential American night, which noir characters can either follow to safety or spurn to wander forever lost. It is a symbol of goodness, wholesomeness, and tract housing – insipid, yes, even nightmarish in its own peculiar way, but rejected at one’s own peril. Put another way: bowl or die". Si veda W. P. Robertson, The making of a Coen brothers film – The Big Lebowski, W.W. Norton & Company, New York 2015, p.97.
[2] "Il neo-noir del decennio successivo [degli anni Novanta], prende avvio dalla consapevolezza che il cinema moderno ha già messo in discussione stilemi, forme, temi e modalità narrative del cinema classico e che quindi qualsiasi operazione ulteriore è già in partenza un’operazione di secondo (o terzo…) grado. Da qui la tendenza a riscrivere in modo dichiarato, con omaggi, revival, citazioni, déjà-vu, remakers ecc. Molti neo-noir […] si rivolgono a spettatori altrettanto consapevoli dei loro autori, in grado di cogliere referenze e allusioni all’universo cinematografico classico (e postclassico), di comprendere le modalità e i registri con cui queste vengono evocate e convocate". G. Alonge, G. Carluccio, Il cinema americano contemporaneo, Laterza, Bari-Roma 2015, p. 121.
[3] A tal proposito si veda L. Gandini, Il film noir americano, Lindau, Torino 2019.
[4] Rick Heinrichs, lo scenografo del film, afferma di aver cercato di inserire negli ambienti elementi che potessero permettere ai registi di giocare con luci e ombre, come nella tradizione espressionista tedesca. Si veda W.P. Robertson, p. 99.
[5] V. Sobchack, Lounge Time: Postwar Crises and the Chronotope of Film Noir, in N. Browne (a cura di), Refiguring American Film Genres, University of California Press, Berkeley-Los Angeles- London 1998, pp. 129-170.
[6] Altro riferimento ai classici Disney riguarda la prima sequenza di sogno, dove il drugo vola sopra ai cieli di L.A. su un tappeto volante, riferimento non solo all’oggetto che gli è stato sottratto, ma anche ad "Aladdin".
[7][7] Si veda L. Gandini, p. 141.
[8] G. Manzoli (a cura di), Joel e Ethan Coen, Marsilio, Venezia 2013, p. 26
[9] Ci sono soltanto tre eccezioni in tutto il film, una delle quali durante l’incontro tra il drugo e Maude, elemento che anticipa la successiva relazione che si instaurerà tra i due.
[10] Cfr. W.P. Robertson, p. 81 e sgg.
[11] J. Tuska, Dark Cinema: American Film noir in Cultural Perspective, Greenwood Press, Westport 1984, riportato in L. Gandini, p. 12
[12] Laurent Jullier sostiene che "Il cinema postmoderno ripropone l’accumulo, anche se corona la struttura narrativa complessiva con una causa lontana molto semplice, che agisce come pretesto" (nel nostro caso, la necessità di recuperare il tappeto del drugo). L. Jullier, Il cinema postmoderno, kaplan, Torino 2006, p. 95.
[13] "Lo scacco epistemologico è totale: non solo l’indagine ruota su se stessa per esaurirsi in un nulla di fatto, ma i suoi stessi presupposti si rivelano totalmente infondati. E tutte le esche, gli indizi, i misteri disseminati nel corso della narrazione non sono che trappole abilmente congegnate". Cfr. A. Autelitano, Il grande Lebowski, in G. Manzoli, p. 110.
[14] La definizione è di Jean Baudrillard, ripresa in L. Jullier, p. 34.
[15] Si veda quanto scrive G. Gangi a proposito di "Pulp Fiction".


14/09/2020

Cast e credits

cast:
Sam Elliott, John Goodman, Julianne Moore, Steve Buscemi, David Huddleston, John Turturro, Tara Reid, Ben Gazzara, Philip Seymour Hoffman, Jeff Bridges


regia:
Joel Coen


titolo originale:
The Big Lebowski


distribuzione:
Cecchi Gori Group


durata:
117'


produzione:
Working Title Films


sceneggiatura:
Joel & Ethan Coen


fotografia:
Roger Deakins


scenografie:
Rick Heinrichs


montaggio:
Roderick Jaynes, Tricia Cooke


costumi:
Mary Zophres


musiche:
Carter Burwell


Trama
Jeffrey Lebowski, detto "il Drugo", è uno sfaccendato hippie che passa le sue giornate a giocare a bowling, a bere White Russian e a farsi qualche spinello, finché un giorno alcuni criminali al soldo del pornografo Jackie Treehorn lo scambiamo per un altro Jeffrey Lebowski, miliardario sposato con una giovane ninfomane, e, cercando di estorcergli del denaro, gli urinano sul tappeto di casa. Quel tappeto "dava davvero un tono all'ambiente" e il drugo è deciso a vendicarsi!