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recensione di Matteo Pernini
6.5/10
Archiviati i comuni dissensi per le leziosità da feuilleton del mediocre "The Search", Michel Hazanavicius mette ordine nel proprio stile e torna sul grande schermo per darci una nuova storia d'amore e cinema, virata in toni di allegra crudeltà. Due, i protagonisti: lei è Anne Wiazemsky, ha diciannove anni, studia nelle banlieue parigine ed è appena stata protagonista del capolavoro di Robert Bresson "Au hasard Balthazar"; lui è il riconosciuto maestro della Nouvelle Vague, le redoutable - il temibile, il formidabile, titolo originale che la sorvegliata cautela dei distributori ha traslitterato in una più prudente ammissione di parzialità - Jean-Luc Godard. È il 1967 e i due hanno appena terminato di girare "La cinese", opera discussa, stravagante, incompresa. Le manifestazioni studentesche sono alle porte e l'amore tra i due, seppure sincero e appassionato, non potrà che esaurirsi a fronte dell'inconciliabilità dei caratteri e della profonda metamorfosi di stile (e, dunque, di pensiero) che investe il regista franco-svizzero, galvanizzato dai prodromi della rivoluzione e disgustato dalle gratuità del suo cinema precedente.

Vorremmo dire di Godard quel che Wisława Szymborska diceva di Einstein, che ha genio, talento e attitudini. Del genio ha lasciato traccia nel centinaio circa di oggetti filmici che sono il suo lascito alla Settima Arte; il talento è duplice: critico - nella capacità di pensare non solo il Cinema, ma col Cinema - e letterario - conchiuso nel profluvio di aforismi con cui decora le sue sentenze inappellabili. Quanto alle attitudini, sono innumerevoli e non dubitiamo che ognuno possa preferirne una diversa, sebbene la più marcata sia la vocazione politico-polemica (nel duplice atteggiamento di polemizzare su questioni politiche e politicizzare le polemiche cinematografiche).
Si vede bene come il genio e il talento risultino già ampiamente tematizzati nell'opera del regista e, d'altronde, il più bel film su Godard l'ha già realizzato Godard stesso con "JLG/JLG - Autoritratto a Dicembre". Che fare, dunque? Come rinverdire le suggestioni di una ennesima raffigurazione, che si dirà a priori manchevole, parziale, ottusa e monocorde? La proposta di Hazanavicius, regista che ha fatto della mimesi la colonna portante del suo cinema, è semplice: trasferire sul maestro transalpino il medesimo schema che lo aveva portato al successo con quel mirabile fraintendimento che fu "The Artist". Come già quello era non un film sul muto, ma un film col muto - vale a dire col corollario di soluzioni tecniche assunte da quella tradizione e fatte aderire ai modi del presente con pedissequa noncuranza - "Il mio Godard" sarà non un film à la manière de, ma una superficie vergine, un green screen sul quale proiettare stilemi godardiani a far da sfondo a una vicenda a essi coeva. Non è affatto, come potrebbe sembrare, un'operazione critica, una costola di analoghi lavori postmoderni quali il tarantiniano "Grindhouse - A prova di morte", ma una liberissima bazzecola, una sciocchezza, il cui interesse risiede nel disimpegnato gioco su un autore e la sua icona. Curiose, dunque, le critiche di superficialità a questo cinema che si propone senza riserve come esplicito travestimento, che non critica, non ripensa, non interpreta, ma solo trasla soluzioni visive, tese a esaurirsi nella loro pura forma. Ed ecco gli sguardi in macchina, i carrelli laterali, i graffiti, i colori pastello, i capitoli, i titoli dei libri a surrogare un dialogo impossibile. E come in "The Artist" la mimetizzazione si apriva a macchia d'olio sugli attori, investendone il portamento, le smorfie, gli umori, ne "Il mio Godard" Hazanavicius ripete il gioco sull'icona, sugli occhiali del maestro, ripetutamente spezzati come in uno schema di Stanlio e Ollio, e i suoi frequenti calembour.

Dei tre punti sopradetti - genio, talento e attitudini - l'unico che interessi Hazanavicius è, giustamente, il terzo ed è in esso che si afferma una questione cruciale, uno snodo di rado investigato con la dovuta attenzione: al fondo del carattere di Godard, oltre la rete degli intellettualismi più forbiti, vi è un nucleo di cristallina ingenuità. Hazanavicius coglie questo aspetto e lo mostra (senza nulla dimostrare) per tutto il film, con un'assiduità pronta a sconfinare nell'ossessione. Lo segnala nell'insistita volgarità delle soluzioni retoriche da stadio, nell'incapacità del suo protagonista di relazionarsi con gli altri, nel voltarsi di ogni dialogo in litigio, sino a darci la figura monocorde di un uomo egocentrico, scontroso e antipatico, innamorato, anziché convinto, delle proprie idee.
Il film, beninteso, non si spinge oltre e procede senza articolare alcuna riflessione su quanto mostrato; eppure l'ultima scena instilla nello spettatore un dubbio: che, cioè, quella stessa ingenuità - da intendersi alla stregua di una purezza primigenia, per nulla inquinata dalla Storia e dalle retoriche ufficiali - che applicata alla vita e alla politica non manca, per le frequenti virate d'umore e pensiero, di produrre scompensi e fratture insanabili, sia la medesima che permette a Godard di porsi domande capitali sul Cinema e il suo linguaggio, di inventare il jump-cut per l'impossibilità di tagliare altrove brandelli del film ("Fino all'ultimo respiro"), di costruire una intera pellicola attorno ai modi di inquadrare e catturare la vita ("Questa è la mia vita"), di riprendere i Rolling Stones con un carrello per suggerire, nella danza dell'operatore, il movimento della musica ("Sympahty for the Devil"), di scegliere di fare un film come un altro sceglierebbe di andare a correre ("Il bandito delle ore 11").
Come ricorda Anne in una delle poche battute efficaci del film, quando lei gli parla del loro rapporto, Godard le risponde parlando di cinema. Perché di questo, infine, è fatta la sua vita, del tentativo ostinato di fare del cinema un'attività organica, naturale e ineludibile quanto mangiare, dormire o andare di corpo.

Quel che, però, si rimprovera ad Hazanavicius è di aver poco o nulla pensato al pubblico. Laddove "The Artist" coinvolgeva per l'adesione a un modello capace di mescolare spettacolo e narrazione, richiamandosi al comune immaginario di corpi danzanti, agili e senza peso che hanno popolato la stagione del muto, "Il mio Godard" si fa replica di una mente singola, di un personalissimo universo visivo, notoriamente ostico, capace di crescere e maturare in virtù dell'urgenza, della sincerità, dell'intelligenza, della passione che ne guidavano gli esiti, ma che qui si affievolisce per eccesso di caricatura.
L'inquadratura di Jean Dujardin che scimmiotta le pose del suo cane ci fa sorridere e, al contempo, ci ispira una lieta malinconia. Che sia un'immagine del muto è meno importante del fatto che avrebbe potuto esserlo; essa parla a tutti. La scena in cui Godard e la Wiazesmky, nudi, discettano sulla gratuità delle scene di nudo, parla solo a chi ha gli strumenti per contestualizzarla, col rischio di sembrare ai più una stravaganza un po' idiota.
Ci si attende, allora, che "Il mio Godard" abbia vita difficile nelle sale, tra le incomprensioni di molti e le grida di lesa maestà degli altri. Dal canto suo, Hazanavicius, col piglio di un monellaccio impenitente, gioca a poggiare un paio di baffi posticci sulla storia del cinema, per poi riderne soddisfatto. A patto di accettare la futilità dello svago, di quando in quando c'è anche il rischio di divertirsi.

04/11/2017

Cast e credits

cast:
Micha Lescot, Bérénice Bejo, Stacy Martin, Louis Garrel


regia:
Michel Hazanavicius


titolo originale:
Le Redoutable


distribuzione:
Cinema


durata:
102'


produzione:
La Classe Américaine, Les Compagnons du Cinéma


sceneggiatura:
Michel Hazanavicius


fotografia:
Guillaume Schiffman


scenografie:
Christian Marti


montaggio:
Anne-Sophie Bion, Camille Delprat


costumi:
Sabrina Riccardi


Trama
Parigi, 1967. Jean-Luc Godard e Anne Wiazemsky hanno appena terminato di girare "La cinese", opera discussa, stravagante, incompresa. Le manifestazioni studentesche sono alle porte e l'amore tra i due, seppure sincero e appassionato, non potrà che esaurirsi a fronte dell'inconciliabilità dei caratteri e della profonda metamorfosi di stile (e, dunque, di pensiero) che investe il regista franco-svizzero, galvanizzato dai prodromi della rivoluzione e disgustato dalle gratuità del suo cinema precedente.