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recensione di Antonio Pettierre
6.0/10

Caduto nella rete

Il pescatore nordcoreano Nam Chul-woo (Seung-bum Ryoo) come ogni mattina, si sveglia, mangia la colazione preparata dalla giovane moglie, fa l'amore con lei, davanti alla figlioletta, in un'unica stanza di una poverissima baracca sulla costa. E come ogni mattina, arriva al posto di blocco militare per l'accesso al mare e andare a pescare con la piccola barca, unico suo bene e mezzo di sostentamento della famiglia. Questa volta però qualcosa non va per il verso giusto: la rete da pesca s'impiglia nel motore e la barca va alla deriva, attraversando il confine delle due Coree.
"Il prigioniero coreano" inizia in questo modo, con una messa in scena veloce che ci mostra immediatamente il protagonista su cui Kim Ki-duk concentra tutta la sua ultima opera. Se il titolo latino mette in evidenza il tema politico dell'ultimo film del regista sudcoreano, quello originale "Geumul" è più significativo: letteralmente vuol dire rete (da pesca), ma può essere anche interpretato come caduto nella rete. E, forse, il tema più importante di quest'ultimo lavoro di Kim Ki-duk è il recupero di una rappresentazione di una religiosità laica (tipica del suo cinema dai tempi de "L'isola"). Nam Chul-woo, mentre subisce l'interrogatorio da parte dell'agente della sicurezza interna sudcoreana, afferma che ormai è morto come i pesci caduti nella sua rete. Il protagonista prende coscienza della nemesi che lo ha colpito: dopo aver pescato per tanti anni subisce la stessa sorte, caduto in una rete più grande, quella del conflitto storico-politico del suo paese diviso a metà. La sua figura è quasi apostolica-cristologica (pescatore, come lo erano molti degli apostoli di Gesù): sia nel calvario che subisce negli interrogatori da entrambe le parti; sia in inquadrature che lo traggono in piedi o sdraiato a braccia allargate, nudo o vestito; sia, infine, nel sacrificio finale, cercando la riaffermazione di un'unità del corpo fisico-politico che il personaggio rappresenta.

Il doppio specchio

Ma "Il prigioniero coreano" è il film più esplicitamente politico di Kim Ki-duk, in cui prende una posizione diremmo un po' naif. Il povero protagonista nella prima parte del film subisce un interrogatorio da parte degli agenti della sicurezza della Corea del Sud, che lo credono prima una spia e poi cercano in tutti i modi di convincerlo a disertare. Non riuscendoci, lo rispediscono a casa e qui, dopo la rappresantazione propagandistica dell'eroe proletario, che è riuscito a resistere alle tentazione della depravazione capitalista, subisce un secondo interrogatorio da parte della sicurezza della Corea del Nord. La prima parte è lo specchio della seconda: al Sud c'è una rappresentazione di una ricchezza spropositata, lo spreco dei beni di consumo è esplicitato in modo chiaro, così come dal comfort e dalle possibilità di una società libera, però poi dove una donna è costretta a prostituirsi perché la povertà è una colpa; al Nord assistiamo a un regime chiuso, rigido, dove manca tutto, dove tutto è diroccato e fatiscente, però in cui regna la corruzione e l'ipocrisia, tanto che alla fine l'agente lascerà libero il povero pescatore dopo che gli avrà preso i pochi soldi che si è portato dietro.
L'idea politica di Kim Ki-duk dell'unificazione del paese è quella di un giansenista che vede il male nella divisione, nella ricchezza fine a se stessa e nella mancaza di libertà (sia essa dovuta a un regime politico sia ecomomico). Il regista condanna entrambi gli stili di vita e immagina un paese unito dove si possa vivere in pace e tranquillità con poche cose e liberi da qualsiasi obbligo. Del resto, il denaro è considerate letteralmente sterco e nella scena del suo recupero fa immergere le mani dei personaggi all'interno della latrina in mezzo alla merda. Il corpo del pescatore diventa così simbolo di un'unificazione il cui sacrificio diventa transustanzazione con un campo lungo che riprende la barca con il cadavere che naviga nel mare libero.

Cambi di rotta

Uscito in Italia con due anni di ritardo, "Il prigioniero coreano" rappresenta un film poco riuscito all'interno della ricca filmografia dell'autore sudcoreano. Se riconosciamo la sua mano di regista dalle inquadrature che compongono una grammatica cinematografica basilare, con alternanze di primi piani a campi lunghi, e i temi metafisici e religiosi (già visti in "Ferro 3 - La casa vuota" o "La samaritana"), al contrario la rappresentazione e il discorso critico verso la società era già compiuta nella "trilogia del dolore" ("Pietà", "Moebius" e "One on One").
Così "Il prigioniero coreano" ha due grandi difetti. Il primo è un profluvio di dialoghi didascalici, semplicistici e Kim Ki-duk è più bravo a lavorare con l'immagine che con le parole. La loro presenza nelle sue pellicole è inversamente proporzionale alla riuscita dei suoi film. Il secondo difetto è stato voler alzare il tiro portando il discorso su un piano politico con il confronto tra le due Coree che alla fine appare poco maturo, al di sopra delle capacità di analisi dell'autore, in una critica che era riuscita decisamente meglio in "One on One", concentrandosi sulla critica del suo paese. Questi difetti inficiano la completa riuscita de "Il prigioniero coreano" che, pur risultando interessante, alla fine, rimane un'opera troppo velleitaria e didascalica.


11/04/2018

Cast e credits

cast:
Seung-bum Ryoo, Won-geun Lee, Young-Min Kim


regia:
Kim Ki-duk


titolo originale:
Geumul


distribuzione:
Tucker Film


durata:
114'


produzione:
Kim Ki-Duk Film


sceneggiatura:
Kim Ki-duk


fotografia:
Kim Ki-duk


scenografie:
An Ji-hye


montaggio:
Min-Seon Park


musiche:
Park Young-min


Trama
Un pescatore nordcoreano per un errore attraversa il confine e viene catturato dai servizi di sicurezza sudcoreani che lo credono una spia nemica. Dovrà subire estenuanti interrogatori e pressioni psicologiche, ma il suo unico desiderio è tornare a casa dalla sua famiglia.
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