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recensione di Giancarlo Usai
8.5/10

Ci si potrebbe chiedere che cosa penserebbero due numi tutelari della storia del western, come Henry Hathaway e John Wayne, dell'ultima fatica di Ethan e Joel Coen. Probabilmente lo amerebbero. Perché fa rivivere un'epoca d'oro del genere che, proprio mentre usciva il loro film nel 1969, stava attraversando un momento di profonda riflessione e rilettura. Quando infatti Hathaway portò sullo schermo il primo "True Grit", Sam Peckinpah e altri maestri stavano procedendo alla consapevole distruzione del mito del lontano Ovest, mettendo in scena l'epopea del vecchio West con atmosfere crepuscolari e molto meno enfatiche di quanto era stato fatto fino allora. Il film interpretato da John Wayne, invece, fu una specie di rottura della novità. In un momento storico in cui pareva che solo una rivisitazione in chiave ironica e melanconica potesse funzionare, "Il Grinta" tentò una missione impossibile: riesumare alle porte degli anni Settanta il western classico.

I fratelli Coen, quando si avvicinano a un nuovo genere, sono commoventi. Lo prendono, lo rifanno a modo loro, lo reinterpretano, lo usano a piacimento piegandolo alla loro consueta poetica della caducità dell'essere umano, ma al tempo stesso ne rispettano fino in fondo le regole. Insomma, lo rispettano profondamente. È successo con il noir in "Blood Simple", con il gangster-movie in "Crocevia della morte", persino con il musical in "Fratello dove sei?". Il romanzo di Charles Portis, qui quasi un pretesto anche se adattato molto più fedelmente nella sequenza di eventi rispetto al film del 1969, è l'ideale per i fratelli di Minneapolis: una storia di amicizia, quasi un matrimonio a tre, con tanto di separazione e ritrovamento, il massimo per esaltare le anime dell'America occidentale che si uniscono con un obiettivo. C'è l'anarchia di Rooster Cogburn, c'è il senso dello Stato (l'essenza repubblicana, insomma) del Texas Ranger LaBoeuf e poi c'è lei, la quattordicenne che con carisma e "grinta" attraverserà il secolo e sarà lì, dopo due ore di un'avventura dal sapore epico, a raccontare, con il miglior monologo che chiude un film coeniano, quanto di vero abbia imparato in quarant'anni di vita: il tempo sfugge, i ricordi si fanno sempre più lontani, quell'epoca d'oro non c'è più, un eroe come l'uomo che la portò in braccio per una notte intera in cerca di un medico è diventato un'attrazione da baraccone.

Ecco dunque che si compie la fusione di due spiriti del western: l'avventura classica, fatta di sparatorie e cavalcate, cede il posto a un crepuscolo malinconico, dove non c'è più spazio per i pistoleri e gli amanti del pericolo. In questo salto temporale che si compie nel finale di film, con la quattordicenne Mattie cresciuta e diventata donna, c'è quello che rende "Il Grinta" dei Coen non un inutile remake, come è stato detto da molti, ma un prezioso ritratto di un'intera storia di un genere cinematografico. E la loro cinefilia, il loro gusto per la citazione colta permettono loro di omaggiare anche Sergio Leone e il suo "C'era una volta il West", con le riprese dall'alto della cittadina in fermento e una discesa dal treno che ha qualcosa di emozionante.

Quindi, sì, alla coppia Hathaway-Wayne il film sarebbe piaciuto tantissimo. Al primo perché nel suo essere fino in fondo "coeniano" rispetta e omaggia senza dileggio l'epopea del western classico, al secondo perché il nuovo Rooster Cogburn non è certo una caricatura di quello che fu l'unico ruolo per cui il vecchio John vinse l'Oscar.
Negli occhi verdi del magnifico Jeff Bridges c'è una riflessione quasi tragica sul mito che sta per cedere il passo al futuro. Se Wayne era l'eroe che regalava gli ultimi sprazzi di eroismo di una incredibile carriera, Bridges è l'uomo fuori posto, il vecchio ex-sceriffo che neanche combatte contro il nuovo che avanza, ma si inginocchia con il fiatone per consegnare la ragazza a chi la salverà.
Quello che un po' manca, invece, è l'equilibrio tra i protagonisti: da sempre attenti a limare le sceneggiature per dare risalto a ogni carattere, stavolta i registi si concentrano quasi esclusivamente sul duo Cogburn-Mattie. Annotazione strana e inspiegabile soprattutto riflettendo sull'occasione che fornivano i personaggi di LaBoeuf e Tom Chaney, comprimari ideali nel mondo coeniano.

Annotazione di servizio: a collaborare con i fratelli Coen ci sono sempre i migliori nei loro campi. Con la fotografia di Roger Deakins e, soprattutto, l'accompagnamento musicale del sublime Carter Burwell, il cinema di Ethan e Joel è pronto a nuove sfide. È pronto per nuove conquiste.


19/02/2011

Cast e credits

cast:
Jeff Bridges, Josh Brolin, Matt Damon, Hailee Steinfeld, Barry Pepper


regia:
Joel & Ethan Coen


titolo originale:
True Grit


distribuzione:
Universa PIctures


durata:
110'


produzione:
Scott Rudin Productions, Skydance Productions


sceneggiatura:
Joel Coen, Ethan Coen


fotografia:
Roger Deakins


scenografie:
Jess Gonchor


montaggio:
Roderick Jaynes


costumi:
Mary Zophres


musiche:
Carter Burwell


Trama
La giovane Mattie Ross, per vendicare l'uccisione del padre da parte del prezzolato Chaney, decide di assoldare un duro sceriffo, Reuben J. "Rooster" Cogburn, che la aiuti. Ma la ragazza insiste per accompagnare lo sceriffo nella sua missione, anche perché non ha la massima fiducia nelle sue capacità. I due si addentrano così nei territori indiani in cerca dell'assassino, insieme al Ranger LaBoeuf, sulle tracce della stessa preda.
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