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recensione di Matteo Pernini
5.5/10

Oggetto: agenti in attività presso servizio segreto sovranazionale
Nome in codice: Kingsmen

Savile Row, a Londra, è una strada piuttosto nota. Al n. 3 i Beatles tennero il loro ultimo concerto nel 1969, mentre dal n. 7 della stessa via, il giorno mercoledì 2 Ottobre 1872, il signor Phileas Fogg partì con l'intento di fare il giro del mondo in 80 giorni. Almeno a volersi fidare di Jules Verne, il quale probabilmente non sapeva che a pochi passi dall'abitazione del suo eroe, nella prestigiosa sartoria dove, forse, lui stesso acquistava gli abiti, sarebbe sorto anni dopo il cuore di una delle più segrete e potenti organizzazioni di spionaggio del mondo. Che, ora, a seguito di una pericolosa missione, deve sopperire alla dipartita di uno dei suoi membri, nome in codice: Lancillotto. Ognuno degli affiliati può proporre un sostituto, ma le selezioni sono durissime e il giovane Gary Unwin (Taron Egerton), il cui padre in passato aveva salvato la vita all'agente Harry Hart (Colin Firth), dovrà impegnarsi al massimo per rinnegare il suo passato da teppista di strada e fare di sé un kingsman.

Alcuni film sono più belli da realizzare che da vedere. Fenomeno tutt'altro che raro, si verifica ogniqualvolta il piacere della nostalgia cede a un travolgente impulso di autoreferenzialità, fino a che i personaggi, gli interpreti e i tecnici finiscono col darsi di gomito come vecchi amici in un bar di provincia, senza curarsi di includere il pubblico nel loro privato amarcord. È, tra gli altri, il caso del quarto capitolo di Indiana Jones, in cui a stento riusciamo a immaginare l'allegra euforia che devono aver provato Steven Spielberg, Harrison Ford e George Lucas nel ritrovarsi assieme su un set di giungle, dirupi, sabbie mobili, frecce avvelenate, cascate e piramidi. Il pubblico, meno convinto, restituiva allo schermo sbadigli saltuari, non pago di quell'abbandono del trio al piacere dei tempi andati.

"Kingsman: Secret Service" si muove su un terreno analogo, ma sostituisce al gusto dello svago per pochi intimi, il trionfo di un immaginario spionistico, che, da James Bond a Harry Palmer, non ha cessato di invadere i sogni del pubblico. Alzi la mano chi non ha mai fantasticato di sorseggiare un vodka martini rigorosamente shaken, not stirred, mentre, seduto al tavolo verde, accarezza i dorsi di una scala reale. Dal piacere con cui maneggia il suo letale ombrello nelle prime scene del film, saremmo pronti a scommettere che Colin Firth non sia tra questi. Il suo personaggio - nome in codice: Galahad - è un affettuoso ritratto dell'ideale britannico di agente segreto (così come il cinema, ancor più della letteratura, ha contribuito a plasmarlo), spogliato delle componenti più viziose e terrigne (che avevano fatto di Bond un'icona della virilità), e risolto nel consueto contrappunto tra un‘eleganza vecchio stile nei modi e una letale abilità omicida.
Samuel Jackson, dal canto suo, non dà l'impressione di divertirsi meno nell'interpretare l'ecologista psicopatico affetto da sigmatismo Richard Valentine, le cui forti assonanze col Dr. Strangelove di Peter Sellers e l'antagonista di "Moonraker" Sir. Hugo Drax fanno sorridere non meno della sua inaudita sensibilità per le scene splatter. A ben guardare nelle comiche bizzarrie di Valentine è ravvisabile una carrellata dei cattivi bondiani, la cui natura tipicamente fumettistica viene qui portata al parossismo.
Il riferimento non è, ovviamente, alla più recente incarnazione del personaggio creato dalla penna di Ian Fleming. Il Bond di Daniel Craig rappresenta una deriva realistica del filone, adatta ai tempi, ma di scarso interesse per il regista Matthew Vaughn, che recupera l'amata tradizione degli anni Settanta, ai tempi in cui Roger Moore combatteva criminali con la pistola d'oro e i cattivi finivano letteralmente con l'esplodere come palloncini.

In tal senso i riferimenti alla saga bondiana sono talmente espliciti che si potrebbe suggerire, al di là dell'intento dissacratorio, il tentativo di destrutturare un genere, a metà tra quanto fatto dallo stesso Vaughn nel precedente "Kick-Ass" (dove il bersaglio era il filone degli eroi in calzamaglia) e il meta-cinema di "Scream". Con una differenza fondamentale: nel film di Wes Craven i personaggi "vivevano" la storia come fosse un film, traslando le regole del genere nella vita reale; finendo, insomma, col citare le battute piuttosto che dirle, e l'intera impalcatura del film rispondeva al percorso delle attese del pubblico (e dei protagonisti, pubblico anch'essi) con l'intelligenza consapevole di un regista, capace di padroneggiare (e, del resto, di fare) la storia dell'horror. Tutto ciò in "Kingsman" è assente. Anziché smontare dall'interno i meccanismi della spy story, Vaughn tratta i modelli con sguardo affettuoso e se vi scherza sopra è sempre col gesto affettuoso di un buffetto, più che con un deciso schiaffo.
Si potrebbe, con ragione, ribattere che a nulla vale cercare in un film quel che l'autore non ha inteso metterci e se la attesa destrutturazione del genere non si verifica è perché, probabilmente, non figurava tra gli intenti del regista. Tutto vero, ma allora si vorrebbe capire perché mai dopo un'ora e passa di ammicchi e complici strizzate d'occhio che ironizzano sulla tradizione (con tanto di monologo del cattivo sui cattivi dei film che fanno monologhi), l'intreccio si abbandoni ad altri, ben più fastidiosi standard. Vuoi quello del buono che alla fine tanto buono non è (e, infatti, era talmente buono da destare sospetti - non si tema lo spoiler, di buoni nel film ce ne sono fin troppi), vuoi quello del ragazzo che si risolve ad agire mentre gli riecheggiano in testa le parole del mentore, vuoi la replica di scene precedenti con l'avvicendamento maestro/discepolo e via dicendo. Quel che del genere spionistico Vaughn caccia dalla porta rientra dalla finestra in forma di altri standard, pescati dalla tradizione eroica dei fumetti o, quel che è peggio, dalle forme più blande e innocue di fantasy adolescenziale (si veda quanto le prove da superare per i futuri kingsmen richiamino senza inventiva il "Torneo Tremaghi" della saga di Harry Potter).

In tutto ciò lo stile cinico e paradossale del regista  ha ben poche occasioni per emergere e anche in questi casi lascia, tuttavia, l'amaro in bocca. E il tanto declamato massacro di un gruppo di cristiani reazionari sulle note di "Free Bird" si riduce, a conti fatti, a un'abile e ridondante acrobazia di corpi e macchine da presa, capace, certo, di affascinare per la fluida precisione dei movimenti in slow motion, ma piuttosto stancante e ripetitiva - tanto da chiedersi se il libero campionario di momenti truculenti non voglia essere un sonaglio per sorprendere il pubblico nel mezzo del suo torpore.
Dove l'inventiva di Vaughn riesce a liberarsi dal dazio dell'esibizione a tutti i costi e conquista la sincera ammirazione (e risata) del pubblico è, certo, nel finale pirotecnico, quando, però, sono ormai passate due ore e nemmeno la follia di una "cavalcata atomica" potrebbe del tutto risollevare le sorti del film.


01/03/2015

Cast e credits

cast:
Colin Firth, Taron Egerton, Samuel L. Jackson, Michael Caine


regia:
Matthew Vaughn


distribuzione:
20th Century Fox


durata:
129'


produzione:
20th Century Fox, Marv Films


sceneggiatura:
Matthew Vaughn, Jane Goldman


fotografia:
George Richmond


scenografie:
David Morrison


montaggio:
Eddie Hamilton, Jon Harris, Conrad Buff IV


costumi:
Arianne Phillips


musiche:
Henry Jackman, Matthew Margeson


Trama
Savile Row, a Londra, è una strada piuttosto nota. Al n. 3 i Beatles tennero il loro ultimo concerto nel 1969, mentre dal n. 7 della stessa via, il giorno mercoledì 2 Ottobre 1872, il signor Phileas Fogg partì con l’intento di fare il giro del mondo in 80 giorni. Almeno a volersi fidare di Jules Verne, il quale probabilmente non sapeva che a pochi passi dall’abitazione del suo eroe, nella prestigiosa sartoria dove, forse, lui stesso acquistava gli abiti, sarebbe sorto anni dopo il cuore di una delle più segrete e potenti organizzazioni di spionaggio del mondo. Che, ora, a seguito di una pericolosa missione, deve sopperire alla dipartita di uno dei suoi membri, nome in codice: Lancillotto. Ognuno degli affiliati può proporre un sostituto, ma le selezioni sono durissime e il giovane Gary Unwin (Taron Egerton), il cui padre in passato aveva salvato la vita all’agente Harry Hart (Colin Firth), dovrà impegnarsi al massimo per rinnegare il suo passato da teppista di strada e fare di sé un kingsman.