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recensione di Ivan Barbieri

Da oggetto incompreso a fenomeno cult, da creatura criticata dal suo stesso autore a opera imprescindibile per ogni cinefilo: si può riassumere con questo graduale passaggio la parabola de “L’inquilino del terzo piano” (1976), opera con cui Roman Polanski, reduce dal celebrato “Chinatown”, portò a compimento l'informale trilogia dell’appartamento inaugurata undici anni prima da “Repulsion” e proseguita con “Rosemary’s Baby”.
Il grande regista polacco a metà degli anni 70 viveva probabilmente il suo apice creativo e commerciale, proprio mentre il successo del noir con Jack Nicholson sembrava avergli spianato la strada ad Hollywood (ma le note accuse di violenza sessuale ai danni di una minorenne erano dietro l’angolo..). Con giustificata sorpresa, Polanski rientrava in Europa per girare “Le Locataire” (basandosi sul romanzo di Roland Topor), opera che portava a compimento le ossessioni maturate dai due illustri e conturbanti predecessori. Gli attori recitarono a loro piacimento in inglese o francese per poi essere doppiati: questo per agevolare la spontaneità del cast. La trama segue il canonico percorso di caduta nell’incubo messa a punto nelle precedenti esperienze.

Trelkovski (Roman Polanski) è un giovane polacco alla ricerca di un alloggio a Parigi. Su suggerimento di un amico si presenta in un condominio per affittare un semilocale lasciato libero dalla precedente inquilina, Simone, ridotta su un letto d'ospedale dopo aver tentato il suicidio (si è lanciata dalla finestra del suo appartamento). Quando dopo giorni di agonia la donna decede, Trelkovski prende possesso dell’appartamento e fa la conoscenza di Stella (Isabelle Adjani), amica della ex conducente. Con il passare del tempo, tuttavia, eventi sempre più anomali si verificano: l’inquilino riceve le continue lamentele del vicinato e in particolare del proprietario, l’autoritario Monsieur Zy (Melvyn Douglas), minacce di sfratto che ben presto si aggraveranno; al bar gli viene servita la colazione che era solita consumare Simone; un dente della donna viene rinvenuto in una cavità del muro…per Trelkovski sono i segnali di un complotto in cui tutti lo vogliono vedere impersonare Simone e portare a compimento il medesimo percorso di autodistruzione.

Un inquilino, tra rimandi autobiografici e cambi di prospettiva

A causa di una vita vissuta pericolosamente e contraddistinta da un’incredibile concatenazione di eventi tragici e sorprendenti, non è mai stato possibile scindere il Roman Polanski privato dal Roman Polanski artista, da qui l’incessante tentativo di identificare nei film qualunque riferimento fosse in qualche modo riconducibile alla sua tormentata biografia. Una tendenza, questa, con pochi eguali (o forse nessuno, se non con Kubrick) nella Storia del Cinema. Anche per questa ragione è quantomeno curioso il pressapochismo con cui “L’inquilino del terzo piano” è stato liquidato come thriller psicologico minore, come se Polanski avesse concepito il film come un semplice richiamo ai temi già affrontati con successo nei primi due episodi della trilogia. La generale freddezza che seguì l’uscita del film vide probabilmente il suo colmo nelle parole di Roger Ebert, che lo definì “non solo brutto, ma addirittura imbarazzante”. La statura di cult a cui oggi “L’inquilino del terzo piano” è elevato sembra tuttora sottovalutare la posizione di spicco che occupa nella filmografia del maestro polacco, al netto di un apprezzamento che oggi può dirsi finalmente unanime.
Eppure non è difficile vedere nel film uno degli apici dell’horror, oltre che un evidente affinamento contenutistico in grado di evolvere il modello dei suoi precedenti capolavori con Catherine Deneuve e Mia Farrow. Perché?

Innanzitutto per la decisione di Polanski di interpretare in prima persona il protagonista (aveva già recitato in un suo film con “Per favore…non mordermi sul collo): questo passaggio segna uno scarto emblematico rispetto a “Repulsion” e “Rosemary’s Baby”, non tanto per il passaggio dalla prospettiva femminile a quella maschile, cosa già di per sé significativa, ma per l’ambiguità con cui il personaggio richiama il suo reale passato di “emarginato” e straniero oltre, naturalmente, a condividere la medesima nazionalità.
Troviamo quindi fin da subito esplicitata una tipica ricorrenza del suo cinema, vale a dire l’essere stranieri e, peggio ancora, il ritrovarsi estranei al contesto sociale in cui si è costretti. Ma non basta: in Trelkovski tale condizione psicologica è rafforzata da un carattere debole e paranoico che, nell’intuizione geniale di Polanski, viene abbozzato appena lasciando ampi margini di ambiguità al suo agire. Laddove, per esempio, il personaggio di Mia Farrow in “Rosemary’s Baby” non dava alcun segno dell’ossessione in cui sarebbe precipitata e lasciava al racconto stesso il compito di poter essere interpretato in una duplice direzione (complotto reale/paranoia), proiettando così l’incertezza della protagonista nella mente dello spettatore, quest’ultimo qui è del tutto conscio che sia Trelkovski stesso l’aguzzino della sua prigionia e che nessuno dei suoi vicini lo voglia vedere concretamente morto (lo enfatizza una volta di più il montaggio nel pre-finale, che alterna l’occhio oggettivo del regista con la percezione alterata della vittima). Di più: al contrario di Rosemary, ma anche della androfoba Carol di “Repulsion”, l’incertezza sociale di Trelkovski sembra occultare alterità psichiche profonde ed eticamente pericolose.

Dall’ambiguità degli eventi in "Rosemary’s Baby" all’ambiguità del protagonista

Fin dalle prime scene, quindi, non è la narrazione tout court ad apparire discutibile in termini di veridicità: sono piuttosto le mosse del protagonista a farsi ambivalenti, quando non del tutto anomale, rivelando i segni della deriva patologica che andrà minuziosamente articolandosi. A un’analisi dettagliata il suo comportamento non solo potrebbe apparire irrazionale, ma addirittura morboso, lontano da qualsiasi idea di normalità. Per capirci, non sapremo mai se Trelkovski si rechi in ospedale dalla sventurata suicida in nome di una qualche forma di cortesia o se invece voglia diabolicamente accertarsi dell’impossibilità fisica di Simone di riprendere possesso dell’abitazione. Allo stesso modo la partecipazione alla cerimonia funebre che seguirà, se non come forma di rispetto per la trapassata, è leggibile come il tentativo di rivedere la seducente Stella, intento inconscio che non tarderà a presentare il proprio rimorso morale (esternato dalla paternale esageratamente macabra del vescovo che viene interiorizzata dal polacco, il quale non può che darsi alla fuga: tra l’altro la colorita rappresentazione della morte proposta dal cerimoniere anticipa il concetto di putrefazione del corpo e, di conseguenza, dell’identità che di lì a poco avrà luogo).

La questione dell’identità e la struttura circolare del racconto

"Dimmi in quale preciso momento un individuo smette di essere quello che crede di essere?" (Trelkovski)

Come è però evidente fin dai tempi de “Il coltello nell’acqua” il fulcro di ogni film di Polanski rimane la questione identitaria, che già permeava i giochi di ruolo a bordo di una barca a vela nel suo esordio sul grande schermo. Quella di Trelkovski è una parabola di trasformazione e progressivo smarrimento della propria identità originaria, messa in discussione sotto ogni punto di vista e interrogata dal celebre monologo in cui riflette con Stella circa la relazione tra il proprio Io e il corpo. Il senso ultimo è lo smarrimento nel non riconoscersi più, la solitudine nel non essersi mai trovati.
Se i vicini rappresentano le oppressioni di una società che diabolicamente annulla le specificità dell’individuo fino a trasformarlo in un sottoprodotto plasmato a proprio uso e consumo, allora non deve sorprendere la traiettoria circolare che il film di Polanski disegna. L’arco narrativo ciclico all’interno del quale il film è inscritto è coerente con la poetica del regista e si riverbera nei molti soggetti di forma sferica inquadrati: come a dire che le storie raccontate sono modelli assoluti e astrazioni di orrori destinati a reincarnarsi per l’eternità (la simbologia egizia, evidente sin dalla scena in cui Simone appare mummificata, sottolinea questo radicale pessimismo di infinita perpetuazione del Male). In altre parole, Trelkovski siamo tutti noi (ecco spiegata l’assenza di riferimenti biografici al passato del protagonista) e il suo urlo finale è destinato a ripetersi per sempre in un loop infernale. Questa universalità della vicenda è tra gli elementi più perturbanti del film: tale effetto è poi esteticamente amplificato dalle lenti grandangolari di Sven Nykvist (habitué di Ingmar Bergman), le cui prospettive distorte provocano uno smarrimento onirico angosciante.
Nei film di Polanski l’appartamento prende vita: è figurativamente il baluardo ultimo dell’identità dell’uomo, costantemente minata dall’esterno; tuttavia è al suo interno che germinano i semi della sua stessa autodistruzione, aspetto questo mutuato dai precedenti capolavori (le mani e le crepe in “Repulsion”, i locali occultati dall’armadio in “Rosemary’s Baby” e il dente incastonato nel muro qui).

Perdita e travestimento: la dualità in Polanski

Una domanda tuttavia sorge spontanea: in che senso, nello specifico, Trelkovski perde se stesso? E cosa lo spinge al travestimento, al di là dell'evidente tendenza alla sottomissione e a una latente carica di rabbia inespressa? Spesso chi ha analizzato “L'inquilino del terzo piano” si è soffermato sulla sua natura kafkiana, senza prestare sufficiente attenzione al preciso instante in cui la struttura paradossale/circolare ha inizio che non è, come invece succede altrove (ad esempio, in “La morte e la fanciulla”), l’incipit della narrazione. Il riferimento è ovviamente alla scena in cui Simone riceve la visita del successivo locatario in ospedale. Qui, colta da un improvviso terrore nell’osservare il primo incontro tra il protagonista e Stella, Simone si lascia andare a un urlo di terrore: è precisamente questo tremendo grido a originare, o quantomeno a circoscrivere temporalmente, l’incubo dell’inquilino. A questo punto lo sfondo apertamente sessuale in cui questa trasformazione avviene diventa palese, certezza corroborata dalle affermazioni di Stella che, rispondendo alle perplessità di Trelkovski sulle ragioni che possono aver istigato l’estremo atto dell’amica, esclude che si possa trattare di una delusione amorosa perché a lei “non interessavano gli uomini”: questa precisazione è sufficiente ad azzardare l’ipotetica omosessualità di Simone? E, se sì, è possibile che intrattenesse con Stella un rapporto carnale, spiegando quindi la pulsione di Trelkovski a trasformarsi nella defunta donna per rivivere la relazione con l’affascinante Stella? Nella sua suggestione tale ipotesi sembra suffragata da almeno due elementi: il primo sono i nomi assegnati personaggi (Trelkovski è un cognome che lascia aperta la possibilità di un nome proprio sia maschile che femminile, Simone per contrappunto si scrive come un nome ambigenere). Il secondo è proprio la presenza di Stella nel momento sopra descritto in cui la paranoia ha inizio (e fine), in una sorta di preludio al classico detour lynchiano introdotto vent'anni più tardi da “Strade perdute” (1995). Non dobbiamo poi tralasciare un ulteriore indizio, messo in rilievo dalla predisposizione cronologica degli eventi: è infatti solo dopo aver confessato di aver effettivamente occupato l’appartamento di Simone che Trelkovski passa la notte da Stella (inizialmente aveva occultato l’informazione, con un’ambiguità di fondo ancora una volta spiazzante); quindi, è solo ammettendo di aver occupato l’appartamento-identità della defunta che l’eroe ottiene l’amore della ragazza.

Nel suo processo di autodistruzione e perdita, ma al contempo di profondo rifiuto nei confronti dello stesso, Trelkovski è paradossalmente sia uomo che donna, sia vivo che morto, sia succube che ribelle (“volete una morte pulita…vi darò una morte sporca”), sia eroe che antieroe, sia carnefice (Polanski dirige il film) che vittima (Polanski recita il film)…e il suo disfacimento psichico è sia reale che non. Tale disfacimento psichico si concretizza quindi in una dualità non nuova al cinema di Polanski, ben esemplificata dagli onnipresenti specchi che l’uomo interroga nel tentativo di confermare la sua stessa unitarietà, con palesi sottotesti psicoanalitici. Questa interrogazione avviene a livello inconscio, non trova sbocco nella parola – are you talkin’ to me? - come invece succede a Robert De Niro in “Taxi Driver”, uscito nello stesso anno. Come Travis tuttavia la rabbia viene interiorizzata e rivolta verso se stessi, le forme di violenza verso gli altri (Trelkovsky non arriva a uccidere, ma comunque maltratta un bambino) sono modi indiretti per colpire il proprio Io più profondo e inaccettabile.

Un film sul Cinema?

Si può parlare di “L’inquilino del terzo piano” come di un film sul cinema e sul teatro, o più in generale di un’opera che rifletta sulle arti performative e recitative? La trasformazione di Trelkovski tradisce in effetti una teatralità che diventa palese nella sezione finale del film: pesantemente truccato e vestito con gli effetti personali della defunta, il protagonista si affaccia dalla finestra per compiere l’estremo gesto e trova, ad attenderlo, un pubblico accondiscendente che, vestito di tutto punto come il buon costume vuole, si lascia andare a un applauso grottesco. La società non è quindi indifferente alla perdita della propria unicità, ma la incoraggia come il pubblico si compiace nell’esibizione di un grande attore in una tragedia, si potrebbe anzi sostenere che sia lo stesso pubblico a determinare tale distruzione. Il voyerismo che permea il film suggerisce inoltre più di un rimando alla rear window hitchcockiana, con risultati inevitabilmente funesti.
Invero, Polanski non ha mai tradito una forte vocazione per la commedia teatrale e la tragedia, non a caso molti suoi film mostrano la loro vicinanza alla piecè teatrale (“Cul de Sac”, “La morte e la fanciulla”, “Carnage” e “Venere in pelliccia”, per citare casi eclatanti). “L’inquilino del terzo piano” mostra al contempo una forte connotazione cinematografica, persino a livello teorico: anche il film, una volta impresso su pellicola, può riprodursi all’infinito per poter essere fruito in qualsiasi momento, a patto di mantenerlo immutabile e inesorabile come l’incubo di Trelkovski.

Naturalmente abbiamo lasciato per ultima la domanda più insondabile che “L’inquilino del terzo piano” lascia in eredità: di chi è il corpo mummificato sul letto di morte alla fine del film? Di chi sono gli occhi che, nell’ultimo take, fissano Trelkovski e Stella al loro primo incontro prima di emettere l’agghiacciante grido, con un radicale cambio di prospettiva rispetto alla prima volta in cui abbiamo visto la stessa scena? E' Simone l’osservatrice? O si tratta del giovane polacco, ormai imprigionato in una nuova identità e destinato a rivivere eternamente la sua ossessione? Non lo sapremo mai con certezza. La risposta potrebbe essere che dentro alla mummia ci siamo noi, osservatori impotenti del disfacimento psicologico del protagonista e del suo destino ineluttabile.


15/07/2019

Cast e credits

cast:
Roman Polanski, Isabelle Adjani, Jo Van Fleet, Melvyn Douglas


regia:
Roman Polanski


titolo originale:
Le Locataire


distribuzione:
Paramount Pictures


durata:
125'


produzione:
Hercules Bellville


sceneggiatura:
Gérard Brach, Roman Polański


fotografia:
Sven Nykvist


scenografie:
Pierre Guffroy


montaggio:
Françoise Bonnot


musiche:
Philippe Sarde


Trama

Trelkovsky è un giovane polacco alla ricerca di un alloggio a Parigi. Su suggerimento di un amico si presenta in un  condominio per affittare un semilocale lasciato libero dalla precedente inquilina, Simon, ridotta su un letto d'ospedale dopo aver tentato il suicidio (si è lanciata dalla finestra del suo appartamento). Quando dopo pochi giorni di agonia decede, Trelkovsky prende possesso dell'appartamento e fa la conoscenza di Stella, amica della ex conducente. Con il passare dei giorni, tuttavia, eventi sempre più anomali prendono piede e tutto sembra suggerire un complotto ai danni del nuovo arrivato.