Ondacinema

recensione di Diego Capuano

Mamma

La Parigi di inizio anni 70. Ragazzi e giovani uomini. Le strade, quelle che portano al Café des Deux Magots. E dunque chiacchiere, molte parole. Un uomo, una donna: un incontro e allora l'amore. Un omaggio alla Nouvelle Vague che fu e al tempo stesso schermaglie sentimentali che dalla finzione convergono nella realtà per poi rituffarsi nuovamente nelle trame del grande schermo? In un racconto morale e filosofico se si vuole pensare in grande. La romantica e dolce Parigi, il cinema pronto ad abbracciarci?
Limitandosi ad una lettura della trama o ad una visione parziale si può pensare ad un ritorno nelle terre che grande hanno reso la modernizzazione di un linguaggio, nuovo il movimento nel contesto storico-politico, prepotente lo stato d'animo che si nutriva dei tumulti dell'aria che tirava sul set, dei venti che agitavano lo spazio puramente filmico.
Un cinema che già non c'era più, quello della nuova onda francese. "La maman et la putain" non è semplicemente un omaggio ad  una corrente storico-artistica, non una negazione della stessa, nemmeno un suo superamento.

C'è  in "La maman et la putain" una città, Parigi. E ci sono poi altri pochi luoghi: prevalentemente un appartamento e alcuni caffè. I luoghi sono lì fissi e fanno da cornice. Soltanto in una sequenza lo spazio si apre con maggior vigore ad un luogo ampio, un ristorante particolarmente illuminato e descritto dallo stesso protagonista con una rievocazione del cinema di Friedrich Wilhelm Murnau: sito tra una stazione ferroviara/la campagna e la città, in un possibile passaggio repentino dal giorno alla notte. Aperto omaggio ad "Aurora" (1927) che avvolge il tessuto audiovisivo in un sussulto di finzione in un film che altrimenti si abbandona da capo a piedi in un flusso che segue la corrente di una verità, di molte verità.
Le inquadrature assumono una frontalità oggettiva, il trucco non è contemplato. L'artificio si limita ai linguaggi basici del cinema: il bianco e nero che spegne ipotesi di accensioni cromatiche e fornisce uno spazio temporale che non vuole evidenziare meditate distanze dal cinema dei padri; il montaggio cadenzato semplicemente da campi e controcampi che, comunque, accompagnano le parole senza dar loro fretta o, ancor meglio, rallentando ulteriormente la scansione degli stacchi quando due personaggi siedono accanto; il formato di 1:37,1 con inquadrature perlopiù strette ad inchiodare corpi e parole al nostro sguardo.
Se chiamato in appello, il concetto di storia è ridotto all'osso: lui ama ancora una lei, ma è una storia finita; nel frattempo condivide la casa e il letto con una donna matura e conoscerà un'altra donna più giovane che forse scardinerà alcune sue certezze. Non colpi di scena, svolazzi poetici, impennate melodrammatiche. L'approccio è molto più vicino ad una visione semi-documentaristica dove l'obiettivo tutto raccoglie e tutto ci restituisce; anche se in verità i dialoghi sono più scritti di quanto si possa pensare, recitati in alcune circostanze con artificio e quel "vous" che il protagonista rivolge alle due donne accarezza una letterarietà d'altri tempi che collima con l'apparente adesione mimetica alla realtà. Coniando di conseguenza un linguaggio unico e inclassificabile.

Partendo dal contesto storico, il film di Eustache attraversando i caldi soffi dell'estate del 1972 addossa al suo protagonista Alexandre recenti esperienze che il Maggio Francese (1968) non ha potuto che segnare. Lo si denota principalmente dal flusso quasi ininterrotto di parole che scorrono lungo il corso del film. Nel movimento sessantottino le assemblee erano all'ordine del giorno, i dibattiti azionavano discussioni su discussioni. La caoticità dell'insieme con il senno di poi ridusse l'energia liberata ad una festosa maratona dell'utopia, un'aggregazione finalmente rivoluzionaria ma fallita alla prova dei fatti (dei risultati ottenuti) e per questo motivo una magnifica illusione della storia recente. La parola, per l'appunto, ridotta in "La maman et la putain" per rievocare le contestazioni con ovvia amarezza, pungente quando cita l'arte e la cultura che da salvatrice del mondo sembrava essersi limitata ad annunciato tentativo di rivolta irrealizzabile e dunque bersaglio della disillusione di coloro che calcarono strade e circoli della protesta soltanto pochi anni prima.
E se la rivoluzione sessuale fu una componente di capitale importanza nelle scorribande giovanili del 1968, le riforme importanti - compreso un Ministero delle donne - furono attuate dal governo neo-liberista soltanto dopo l'uscita del film di Eustache, ma tutto ciò che attiene all'attività sessuale indietreggia in quest'occasione nelle proprie camere da letto. Atti ed elementi da esemplari portatori della materialità della rivolta (e della libertà) tornano ad essere protagonisti stipati nelle segreta ralazionali.
La rivoluzione che si evoca nel film forse non è mai esistita. Oppure, semplicemente, ammainate le bandiere della lotta resta nudo il corpo dell'uomo, quello della donna. Inermi le loro anime. Qui comincia e vive "La maman et la putain".


Puttana


E poi si ammazzò, Jean Eustache. Il 1981 all'età di 42 anni con una rivoltellata al cuore; dopo una caduta da un terrazzo (1980) che gli compromise la funzionalità degli arti inferiori, durante una depressione sfociata presumibilmente in follia. Sempre fuori dal tempo, fuori fuoco, inquieta si muove la sua filmografia: cortometraggi, mediometraggi, documentari, omaggi a cineasti prediletti, il mescolarsi di realtà e finzione. Soltanto due lungometraggi in poco meno di 20 anni: "Mes petites amoureuses" (1974), sconsolata cronaca di passati tumulti sentimentali adolescenziali e, per l'appunto, "La maman et la putain", di appena un anno precedente e che comunque fin dalla anomala durata (217 minuti) rifugge da adagi, convenzioni, stabilità.
Il film nasce come seduta biografica psicoanalitica successiva alla rottura della storia d'amore che Eustache ebbe con Françoise Lebrun, all'epoca non-attrice che qui, al suo debutto, non interpreta il suo alter ego Gilberte, bensì il focale personaggio di Veronika. Il regista dichiarò che senza Léaud e la Lebrun il film non sarebbe mai stato fatto. Un film per la Lebrun, per Bernadette Lafont, per Jean-Pierre Léaud, sensazionale funambolo per ogni stato d'animo umano, esemplare personificatore del moderno cinema francese. Lui è Eustache e viceversa e nostri sono gli stati d'animo, tormenti ed euforie, che pulsano, sembrano spegnersi, sussultano.

Come nei suoi primi mediometraggi di finzione ("Les Mauvaises Fréquentations", "Le Père Noël a les yeux bleus"), i suoi personaggi gironzolano per le strade cittadine, alternando discussioni futili a riflessioni che si vorrebbero alte ma con approdi dal comun denominatore: l'amore, il sesso, la controparte sentimentale presente, passata, ipotizzata.
Le componenti non tardano ad essere presentate: l'amore perduto ma tutt'altro che superato per Gilberte, la convivenza con Marie, l'entrata in scena di Veronika. Non liete e riconciliate, nemmeno lievi se si vuole, ma le verità di Alexandre sono in un primo momento cucite su una tela legata alle dinamiche della commedia: degli equivoci (gli appuntamenti mancati, gli incontri imprevisti), del paradosso (le battute sulla sedia per paralitici o sulla copia che vale più dell'originale), surreale (il racconto della mano amputata e messa in esposizione con cognizione di causa).
Con il trascorrere dei minuti si evidenzia, dapprima impercettibilmente e poi con chiarezza palpabile, la compenetrazione tra il disinvolto passo iniziale e la drammaticità, presente fin dal principio ma sempre più imperante con il trascorrere dei minuti.
Sono allora due le principali costanti del film. La prima la suggerisce il suo stesso autore che introduce una serie di eventi insignificanti e, mettendo al centro di essi un protagonista, sottolinea come nella vita di un essere umano i momenti importanti possano nascere e vivere nella banalità del quotidiano.

Nel fluire di tale ordinarietà la somma degli eventi non produce mai risposte univoche, mai certezze. Ed è proprio l'inevitabilità dell'incertezza l'altro centrale tratto caratteristico del film. Lo è fin dalla sfuggente filmografia di Eustache, nelle variazioni umorali che rendono inclassificabile e fuori dai generi questo suo capolavoro, nell'impossibilità di delineare le coordinate definitive dei due poli che si vorrebbero antitetici: la mamma (Marie) e la puttana (Veronika). Ciascuna si addossa suo malgrado caratteristiche proprie dell'altra figura ed è la predominante incertezza che aziona quell'instabilità emozionale capace di rendere "La maman et la putain" uno dei film più dolorosi di tutto il cinema. Esemplare in tal senso il celebre e lungo monologo finale di Veronika, che raccoglie con disperazione ma con una sincerità quasi insostenibile le due sponde degli stereotipi femminili: "Per me non ci sono puttane: una ragazza che si fa scopare da chi capita e come capita non è una puttana (...) Si dovrebbe scopare solo quando si ama (...) L'amore vale solo se si fa un bambino". Anche se più che a Veronika e Marie, lasciata pensierosa alla sua solitudine mentre ascolta "Les amants de Paris" di Edith Piaf, la proiezione dello spaesamento cumulativo è addossata sulle spalle di Alexandre: la sua cronica immaturità non potrà trovare una risoluzione ma giungere semmai ad una obbligata presa di coscienza.

Un'opera che quindi contiene la summa delle verità sentimentali non può che avere una durata fuori dall'ordinario, con sequenze sempre troppo lunghe proprio perché bisognose del fluire discorsivo capace di raccontare l'intero mondo (e per questo problematico) dei personaggi. Una dispersione del concetto di definizione temporale - con tanto di citazione della "Recherche" di Proust - che agisce tanto sulla lancetta della realtà che su quella della finzione e di conseguenza inevitabile risulta l'impossibilità di affibiare allo smisurato magma emozionale una conclusione in grado di rendere la parola fine al corso degli eventi.
Mancanza di misure, assenza di conclusioni, distensioni abissali, irrisolte restano le distanze sentimentali, con l'altro che ama sempre troppo o troppo poco rispetto al partner. Irrealizzata la centralità dell'amore, il film si protrae e riverbera la sua grandezza.


14/05/2018

Cast e credits

cast:
Jean-Pierre Léaud, Bernadette Lafont, Françoise Lebrun, Isabelle Weingarten, Jacques Renard


regia:
Jean Eustache


durata:
217'


produzione:
Elite Films, Ciné Qua Non, Les Films du Losange, Simar Films, V.M. Productions


sceneggiatura:
Jean Eustache


fotografia:
Pierre Lhomme


montaggio:
Jean Eustache, Denise de Casabianca


costumi:
Catherine Garnier


Trama
Parigi, inizio anni 70. Dopo la fine della relazione con Gilberte, il disoccupato Alexandre continua a farsi mantenere dalla matura Marie. Un giorno conosce la giovane infermiera Veronika, che pian piano entrerà a far parte della sua vita mettendo, forse, in discussione alcune sue convinzioni.