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recensione di Michele Alinovi

Negli anni delle lotte di classe e delle repressioni sedate col fuoco che avevano visto nella grande Russia l'affermarsi del nuovo regime comunista, il cinema divenne lo strumento ufficiale di propaganda.
Stalin, attraverso l'inflessibile guida di Andrej Ždanov, voleva promuovere il nuovo linguaggio che diffondesse anche al di là dei confini sovietici gli ideali progressisti.
Con Ejzenštejn, Pudovkin e, non ultimo, Dovženko, vide la nascita il realismo socialista. Sul bianco e nero dello schermo si narravano la nascita del movimento operaio, le gloriose rivolte contro despotismo dell'ultimo zar di un paese che aveva abbandonato il vecchio per il nuovo, un futuro che avrebbe portato la Russia tra le più grandi potenze mondiali.

"La terra" si inserisce perfettamente in questa linea ideologica cara al regime. Protagonista è lo scontro tra i contadini ricchi, i kulaki, simbolo della Russia prerivoluzionaria, che si oppongono al nuovo programma di collettivizzazione delle terre, e i ferventi comunisti, sostenitori dei nuovi ideali. La cornice del conflitto non esce dai confini di un piccolo villaggio, nitido microcosmo di ciò che sta accadendo in tutto il paese.
Anche qui, la tradizione si scontra con l'irrompere del nuovo: eloquente è la scena dell'arrivo di un mostro mai veduto prima, il trattore, che sopraggiunge schiacciando i sentieri di campagna sotto lo stupore di tutta la comunità - uomini canuti ricurvi sul terreno e bambini che salutano fischiando l'arrivo di quella mirabile invenzione. Le macchine, secondo i giovani del villaggio, sarebbero state l'unico modo per garantire la loro soppravvivenza - in un mondo che corre, l'unica soluzione è quella di correre come e più di quel trattore.
Ma, ad un certo punto, tra la meraviglia generale, il trattore si ferma di colpo: è finita l'acqua nel radiatore. I giovani del paese non ci pensano due volte a risolvere il problema orinando nel radiatore, affinchè possa compiere il tragitto verso il villaggio. Da questo e da altri piccoli segnali si può capire come il terzo lavoro di Dovženko non abbia soddisfatto le pretese del regime, che operò diversi tagli per cercare di salvare il salvabile ed epurare il superfluo - l'ironia in un film di propaganda non poteva essere tollerata. Perchè "La terra" è in realtà molto più che un film di propaganda.

La prima scena si apre con un omaggio lirico alla natura: le inquadrature fisse e rapide dei meli rigogliosi, del cielo primaverile e dei boschi sono curate con uno studiato senso artistico (Dovženko era stato, tra le altre cose, un eccellente pittore) che dell'ambiente bucolico carpisce l'essenza primigenia e incontaminata. La cinepresa poi si avvicina su un gruppo di persone che circondano un vecchio contadino morente disteso sull'erba. Dopo aver mangiato serenamente un frutto e aver congedato i cari, egli si sdraia come in un sonno profondo. Da queste poche inquadrature si avverte il forte senso spiritualistico peculiare di Aleksandr Dovženko, che avvolge tutto il film di una coscienza religiosa, quasi panteistica. E qui appare l'elemento-cardine del film: la vita è un ciclo naturale, come quello delle stagioni; perchè se lo spasmo della morte colpisce per sempre, altre forme di esistenza stanno già rifiorendo in un processo di perpetua rigenerazione.
L'idillio rappresentato, eterno nel tempo, che richiama molto la pastorale di Teocrito e di Virgilio, viene rotto dalla contingenza dei conflitti presenti. Tensioni che non oppongono due fazioni fra loro estranee, bensì i componenti dello stesso villaggio, padri contro figli, che seminano una tensione divoratrice tra compagni di sangue. Il giovane Vassilj, entusiasta promotore delle nuove idee, convince la comunità a dotarsi delle nuove macchine agricole che avrebbero facilitato il lavoro: pistoni che avrebbero sostituito braccia e gambe, trattori che in un giorno avrebbero compiuto il lavoro di mille aratri. Lo slancio vitale e futurista del nuovo si insinua prepotentemente nelle menti dei semplici contadini, che in gran folla aspettano l'arrivo del trattore - nella scena già narrata. La macchina si ferma di colpo, interrompendo per un istante l'eccitazione del villaggio; ma ai limiti della tecnologia è l'uomo che provvede, instillando il suo liquido organico, la linfa che restituisce la vita a quell'ammasso di ferro e di stagno. L'uomo è il demiurgo che genera e distrugge, così come la natura, di cui la tecnologia sarà un semplice, ma fenomenale sostituto. Il futuro industriale si impone nel piccolo villaggio, e braccia meccaniche, macchine impastatrici e rulli occupano la scena muovendosi a colpi fluidi e ritmati che ricordano atti sessuali, scanditi in rapide sequenze molto simili al contemporaneo "Il vecchio e il nuovo" di Ejzenštejn e, perchè no, a "Tempi Moderni" di Chaplin.

Alla fatica del giorno segue la pace della notte. Per le vie del villaggio giovani innamorati cercano un luogo nascosto, e l'atmosfera lattiginosa conferisce a quegli istanti un senso di serenità ritrovata. Tutto pare sospeso in un idillio, che ha il suono dei Notturni di Chopin e la poetica di Tolstoj. La gioia invade Vassilj, che crede ormai superate le opposizioni tradizionaliste, fiero di essere stato autore dell'irrompere del moderno in quel villaggio sperduto. Dopo essersi congedato con la sua fidanzata, si mette a danzare, come in un musical d'altri tempi, e la sua felicità si materializza in un onirismo commovente molto caro alla cutura sovietica (si osservi, ad esempio, "La Passeggiata" di Marc Chagall).
Ma ecco che, per la seconda volta, il momento lirico viene spezzato da un intervento estraneo: Vassilj viene sparato a morte da un kulak. Con il sopraggiungere del giorno, la disperazione avvolge il villaggio. Le donne che si battono il petto come delle baccanti, la fidanzata di Vassilj nuda in preda al delirio. Se nella prima scena la morte del vecchio contadino era serena, poichè naturale, la morte di Vassilj è tragedia perchè contro natura.

Il film termina con il corteo funebre, formato da ragazzi e ragazze vestite di bianco che intonano canti sulla patria. Qui, come non mai, lo spirito vitalistico di Dovženko viene ribadito nella sua essenza: a una morte segue sempre una rinascita - la scena della partoriente che, durante la processione, dà alla luce un bambino.
La rigenerazione naturale trova la sua catarsi nelle ultime inquadrature, in cui una fitta pioggia investe tutto il villaggio e i campi circostanti.
Dovženko, egli stesso figlio di contadini, riesce a costruire un capolavoro che oltrepassa le trame care al socialismo e investe l'uomo e la natura nel suo ordine ecumenico, attraversato da una poetica religiosa priva di trascendenza, che fonda il suo logos nella materia stessa, e nel suo ciclo meccanico di costruzione-distruzione - lo stesso movimento cosmico che investe le generazioni di agricoltori, i battiti ritmati delle macchine e la stessa danza allucinata di Vassilj riconducendoli ad una stessa armonia universale.


28/02/2011

Cast e credits

cast:
Stepan Shkurat, Semyon Svashenko, Yuliya Solntseva, Yelena Maksimova, Nikolai Nademsky


regia:
Aleksandr Dovženko


titolo originale:
Zemlya


durata:
84'


produzione:
VUFKU


sceneggiatura:
Aleksandr Dovženko


fotografia:
Daniil Demutsky


scenografie:
Vasili Krichevsky


montaggio:
Aleksandr Dovženko


musiche:
Vyacheslav Ovchinnikov, Lev Revutsky


Trama
Ucraina, 1929, al tempo della collettivizzazione della terra. Il giovane Vasil, animatore di una cooperativa, è ucciso a tradimento da un kulak. Il suo funerale si svolge nella natura lussureggiante come una festa.