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recensione di Simone Pecetta

Quando nel 1926 John Grierson, produttore e critico cinematografico scozzese, usò l'espressione "valore documentario" ("[...] Moana, being a visual account of events in the daily life of a Polynesian youth, has documentary value."[1]) a proposito del "Moana" (1926) di Robert Flaherty usava per la prima volta nella storia critica del cinema il termine "documentario" in modo preciso, cosciente e rigoroso. Che proprio un film di Flaherty venisse per primo investito in tal modo è una di quelle casualità che ben si sposano con una dovuta consacrazione. Infatti lo statunitense di origini irlandesi Robert Joseph Flaherty, che inciampò quasi accidentalmente nel cinema quando da studioso mineralista in una spedizione del 1910 nel Labrador canadese portò una cinepresa da utilizzare come taccuino visivo, pose le prime pietre miliari del cinema documentaristico firmando i due capolavori "Nanuk l'esquimese" (1922) e "L'uomo di Aran" (1934).

L'intera opera di Flaherty si incentra sul rapporto tra l'uomo e l'ambiente vitale. È un'opera documentaria in quanto constatativa e non di denuncia, un'opera al contempo autenticamente poetica sull'uomo e la sua lotta con(tro) la natura. Il "grande mancino" - "Songneoluk"[2], così lo chiamavano gli inuit canadesi- è infatti sempre stato un esploratore con vocazione lirica: se non proprio scopritore, mappatore rigoroso delle isole Belcher[3] nella baia di Hudson ha reso i suoi lavori documenti di qualcosa che si attesta al di là del semplicemente visibile, al di là della mera cronaca e della narrazione di dati di fatto offrendo agli spettatori la visione della nuda umanità dei suoi soggetti sempre stretti da una lotta incalzante con la natura.

Aprendo il fianco a numerose critiche, ma al contempo elevandosi al di sopra dello status di mero cronista, Flaherty elaborava efficaci messe in scena del documento, contraffazioni d'autore necessarie per scandagliare l'esistenza degli inuit nel gelido nord. Così la scena di caccia al tricheco, la costruzione dell'igloo e la visita alla stazione postale in "Nanook of the North" erano deliberate ricostruzioni di avvenimenti possibili (altrettante quelle ne "L'uomo di Aran"). Erano queste ricostruzioni di una vita quotidiana, di un modo d'essere dell'uomo costantemente alla ricerca della sopravvivenza nel più ostile degli ambienti che la terra potesse mostrare. Ciò che interessava al cineasta statunitense era infatti il mostrare la fatica come elemento centrale della vita degli esquimesi, della vita di Nanook. Era interessato all'incessante sforzo che l'uomo compie per vivere e sopravvivere, proteggersi e procacciarsi il necessario per vedere l'alba del giorno successivo. Così "Nanuk l'esquimese" racconta  i travagli e i pellegrinaggi di una famiglia inuit dall'estate all'inverno, le vicende quotidiane scandiscono il tempo di questo primo documentario in forma di lungometraggio succedendosi in quadri dove l'animalesco istinto di Flaherty per l'inquadratura rende ogni fotogramma emblematico ed iconico, raffigurazioni che trascendono il mero dato visibile richiamando un oltre non mostrato. Ma al fianco di una naturale propensione il regista lavorò duramente per sviluppare un proprio linguaggio cinematografico. Non soddisfatto, infatti, dalla prima versione della pellicola, che a suo avviso non consentiva allo spettatore di accedere autenticamente al mondo mostrato, organizzò un'ulteriore spedizione nel freddo nord per girare delle sequenze che favorissero l'immedesimazione e l'empatizzazione degli spettatori. Imparando dall'esperienza Flaherty raffinava la sua abilità narrativa strutturando la pellicola come un dramma incalzante e coinvolgente, emotivamente penetrante.

"Nanuk l'esquimese" si apre con la precisazione che il protagonista Nanuk, due anni dopo il termine delle riprese, in una ulteriore spedizione di caccia morì solo e affamato tra i ghiacci. Un destino tragico incombe sulla pellicola prima ancora che le immagini inizino a scorrere, ancor prima dell'inizio del film lo spettatore non solo è avvisato della spietata natura del nord, ma già assume l'elemento tragico come quintessenziale componente dell'esistenza dei protagonisti. La vita si mostra ancor più fragile, la morte ne definisce in modo chiaro il profilo. Nanuk, ancora prima di essere mostrato, acquista la statura di un titano, un ribelle che reo di aver accettato la sfida della natura fallisce e impietosamente soccombe in un'impresa che lo sovrasta. Affrancandosi, almeno in parte, dal mito settecentesco del buon selvaggio Flaherty riesce a dipingere la figura di Nanuk sia come un uomo comune che si preoccupa della propria famiglia, della sua protezione, del suo nutrimento, sia come un vero titano contemporaneo avvinto in una lotta più grande di lui, immerso in quel "flusso vitale" (Kracauer) nel quale il rischio di perdersi è sempre costante. La sequenza finale che vede la famiglia di Nanuk rifugiarsi fortunosamente in un igloo per scampare ad una temibile tempesta è il minaccioso epilogo che richiama l'iniziale didascalia che preannunciava la futura morte del protagonista in questo glaciale inferno.


Contro ogni previsione ("Chi vorrebbe vedere un film sugli inuit, un film senza storia, senza stelle?"[4]) "Nanook of the North" divenne un grande successo al botteghino  grazie alla distribuzione della Pathé Exchange tanto che Flaherty venne immediatamente avvicinato da Jesse L. Lasky della Famous Players-Lasky Corporation (che a partire dal 1927 assumerà il nome di Paramount Picture Corporation). In quell'incontro Lasky offrì a Flaherty un assegno in bianco per accaparrarsi i diritti per il successivo lavoro del regista americano. Iniziarono dunque le lavorazioni di "Moana" ("L'ultimo Eden", 1926) che inizialmente il regista supponeva che avrebbe dovuto narrare delle lotte dei polinesiani contro gigantesche e feroci creature marine, ma all'arrivo in location fu immediatamente chiaro che sarebbe stato impossibile girare un nanook oceanico: le condizioni di vita degli indigeni erano ben più che idilliache dal momento che la natura offriva loro mezzi maggiori di quelli che avrebbero necessitato. Così l'impossibilità di riproporre in una differente chiave esotica il tema de "l'uomo contro la natura" spinse Flaherty ad indagare i riti di passaggio di un giovane polinesiano, il Moana che da il titolo originale alla pellicola, con particolare attenzione al doloroso rituale del tatuaggio - in un ambiente paradisiaco dove la natura non osteggia l'uomo sembra che l'essere umano stesso senta la necessità di autoinfliggersi volontariamente delle sofferenze.  "Moana" fu un flop per incassi, ma altresì consolidò la reputazione critica del regista che continuava ad apprendere dall'esperienza e difatti il successivo lungometraggio che vide la luce nel 1934 fu quel "L'uomo di Aran" (vincitore del premio per miglior film straniero nella seconda edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia) che rappresenta la maturità tecnico-artistica della cinematografia flahertiana.

Anche se Robert Flaherty non era un teorico cinematografico (al pari, ad esempio, di Grierson o Vertov) il suo gusto estetico e il suo intuito fine furono sufficienti mezzi per condurre l'arte cinematografica al di là del suo potenziale conosciuto, contaminare il cinema documentativo-cronachistico con elementi finzionali e drammatici e mostrarne il potenziale lirico come autentica chiave d'accesso. La lezione di cinema che ha impartito Flaherty con la sua parabola cinematografica non sarebbe stata facilmente dimenticabile, basti pensare quanto da lui hanno appreso alcuni tra i più grandi cineasti del ventesimo secolo come Vittorio De Seta o Werner Herzog. Così Nanuk resta tuttora una delle più emblematiche figure che hanno affollato il mondo della celluloide, un eroe che solitario affronta la natura indifferente, e Flaherty senza intenti antropologici, ma con il piglio del poeta dell'arte visiva si fa narratore della sua storia piegando la realtà dei fatti in virtù d'una Verità più autentica, più originaria di quella che una puntuale cronaca potrebbe raccontarci. La verità dell'immagine nel cinema di Robert J. Flaherty è la verità del senso dell'immagine stessa, un dominio che trascendendo le epoche e dimorando nell'umanità degli uomini riesce a dirci qualcosa di fondamentale su cosa significhi esistere.



[1] Citato in Jack C. Ellis e Betsy A. McLane, A New History of Documentary Film, The Continuum International Publishing Group Inc, New York 2005, p.3.

[2] Ce lo ricorda Charlie Nayoumealuck nel documentario "Nanook Revisited" (1988) di Claude Massot.

[3] La principale delle isole è, non a caso, chiamata Flaherty Island.

[4] "Who would want to see a movie about Inuits, a movie without a story, without stars?" da Jack C. Ellis e Betsy A. McLane, A New History of Documentary Film, cit., p.13 e invece come ricorda Asen Balikci esplose una vera e propria "Nanookmania" (A. Balikci, Anthropology, Film and the Artic People, in Anthrophology Today 5, n.2 [Aprile 1989] p.7).


05/03/2013

Cast e credits

cast:
Allakariallak , Nyla , Allee , Cunayou , Allegoo , Camock


regia:
Robert J. Flaherty


titolo originale:
Nanook of the North


distribuzione:
Pathè Exchange


durata:
79'


produzione:
Robert J. Flaherty


sceneggiatura:
Robert J. Flaherty


fotografia:
Robert J. Flaherty


montaggio:
Robert J. Flaherty


Trama
Documentario di Robert Flaherty sulla vita di Nanuk, escquimese alle prese con le difficolta che un ostile natura rappresenta per l'uomo