Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
4.5/10

Rifkin's Festival Woody Allen

Mort Rifkin è seduto sulla poltrona di fronte al suo psicanalista, il quale non viene mai inquadrato in primo piano, ma al massimo di spalle. La narrazione è costruita attraverso un lungo flashback condotto dalla voce del protagonista, ennesimo alter ego di Woody Allen, che parla direttamente al proprio pubblico. Rifkin è interpretato da Wallace Shawn, attore di classe, ebreo e newyorkese come il regista e quasi suo coetaneo. Dopo tanti attori più giovani (in particolare Jesse Eisenberg) che ne riproducevano tic e nevrosi, ecco un attore maturo che ne incorpora il carattere tramite una traduzione personale come aveva già fatto Larry David nel bellissimo "Basta che funzioni". Se David aveva adoperato un registro alto, nervoso e sovreccitato, Shawn recita sottotono (forse pure troppo) per tutto il film, protagonista dall'ironia tagliente e scontrosa ma fondamentalmente spettatore indolente della vita sua e altrui.  

Mort, docente di storia del cinema in pensione, ha deciso di accompagnare la moglie Sue (Gina Gershon) al Festival internazionale del cinema di San Sebastian, dove lei sarà la press agent di Philippe (Louis Garrel), un giovane e lanciatissimo regista francese, per prendersi una pausa dal romanzo che sta da tempo componendo. Anche se la sua voce fuori campo ammette che la ragione più profonda è il sospetto che Sue e Philippe non intrattengano soltanto una relazione professionale. Del Festival del cinema di San Sebastian si vedono soltanto sprazzi di una proiezione e qualche aperitivo, mancando completamente il quadro festivaliero: ad Allen interessa solo l'idea della pausa garantita dalla manifestazione, simile alla vacanza di altri suoi lavori ambientati in Europa (si pensi a "Vicky Cristina Barcelona", "Midnight in Paris" o "To Rome With Love"). Più che allo spazio chiuso della sala, gli interessi di Mort sono rivolti agli scorci di San Sebastian, località balneare esposta sul mar Cantabrico. Da vero flâneur, il nostro passeggia e si fa catturare dalle bellezze paesaggistiche e architettoniche della cittadina, intervalli tra una visita medica e l'altra che Mort paga con solerzia alla dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya), cardiologa che riesce a tranquillizzarne i disturbi ipocondriaci.
Il quadrato romantico, in cui Philippe e Sue si avvicinano, mentre Mort rimane folgorato dal fascino del medico cercandola più volte anche solo per poter parlare di cinema e di New York, instaurando con lei una timida amicizia, si poggia su uno schema risaputo, così come la scrittura del film riutilizza temi e stilemi che Allen non si stanca mai di riproporre. L'unico spunto di interesse, benché privo di originalità, è fornito dalla rassegna cinefila in cui Mort rilegge la sua vita in sogni di celluloide che rimettono in scena pezzi della storia del cinema: il primo flashback infantile di "Quarto potere" diventa un precoce presagio di morte; la soggettiva felliniana di "8 ½" (che aveva già usato in "Stardust Memories") sottolinea la sua insoddisfazione, le promesse fatte a sé stesso e mai mantenute; il godardiano "Fino all'ultimo respiro" è sfruttato per predire il tradimento di Sue; Mort che ascolta di nascosto il fratello e la cognata parlare di lui come di un borioso e scontroso snob (esemplato sul Bergman de "Il posto delle fragole") è probabilmente uno dei momenti migliori del film. Allen ha più volte omaggiato il cinema da lui amato che è rappresentato dall'identico inamovibile pantheon, mai però aveva provato a rigirare le sequenze dei capolavori da lui venerati. La selezione per quanto sincera è da manuale, accademica e perdonabile solo perché da un regista di 85 anni non ci si può aspettare improvvisi e imprevedibili colpi di fulmine. Allen anche in questo suo lungometraggio asserisce di essere un modesto mestierante se paragonato ai suoi maestri, di non aver raggiunto il capolavoro tanto agognato, similmente a Mort che non riesce a completare il proprio romanzo perché consapevole che non potrà gareggiare nel campionato degli Shakespeare e dei Joyce. Questo "Rifkin's Festival" è un'opera malinconicamente terminale, poiché la radicalizzazione e riduzione ai minimi termini dei temi alleniani è quasi priva di filtri così come Rifkin sembra arrivato al definitivo bilancio esistenziale prima di congedarsi dalla vita. Ma al contrario del suo alter ego, Allen non ha alcuna intenzione di congedarsi, anzi, continua a scrivere e a girare in modo infaticabile, forse per mantenere vivo il proprio mondo, forse per inerzia. 

"Rifkin's Festival" rischia però di essere solo lo stanco film di un regista stanco, costretto all'esilio produttivo e distributivo dal rinfocolare delle accuse di molestie sessuali (provenienti dal 1992 e mai giunte a processo) sull'onda lunga del movimento Me Too. L'omaggio al cinema europeo di "Rifkin's Festival" si alterna alle stoccate riservate alle giovani promesse come Philippe, registi supponenti e privi di spessore che realizzano pellicole ruffiane pensando magari di risolvere la questione israelo-palestinese. Sono però frecce spuntate quelle scoccate da Allen, facili battute di risulta che abbiamo già sentito mille volte (e dallo stesso autore), allo stesso modo la scrittura dell'intreccio palesa meccanismi logorati per consunzione. Anche cinematograficamente "Rifkin's Festival" ricade in quell'abulia che il sodalizio con Vittorio Storaro era riuscito ad aggirare. A proposito de "La ruota delle meraviglie", avevamo posto in rilievo il ruolo di Storaro nel rinvigorimento dello stile visivo del cinema alleniano, aspetto più che evidente anche nel loro primo lavoro insieme, quel "Café Society" che per mezzo di movimenti di macchina morbidi e avvolgenti e un brillante impianto luministico e cromatico reinventava digitalmente il glamour degli anni Trenta. Ma quest'accensione espressiva sembra già essersi spenta: i tagli di montaggio della fidata Alisa Lepselter sembrano talvolta arrivare in ritardo sottolineando quella pesantezza senile che permea la narrazione; la palette cromatica della fotografia di Storaro è invece imbevuta di pigro teal and orange e il bianco e nero delle scene dei classici è troppo nitido (e troppo digitale) per restituirne la magia. Più in generale, la regia di "Rifkin's Festival" non riesce a nascondere le intenzioni di spot formato deluxe nei confronti di San Sebastian. Certo, il festival e la cittadina basca sono solo lo sfondo in cui si ambienta una nuova storia scritta da Woody Allen, girata da Woody Allen e con protagonista un avatar di Woody Allen. E raramente come in quest'occasione questo consueto e solitamente felice assioma autoriale ha mostrato i limiti della propria ispirazione.


07/05/2021

Cast e credits

cast:
Wallace Shawn, Gina Gershon, Louis Garrel, Elena Anaya, Christoph Waltz, Sergi López


regia:
Woody Allen


distribuzione:
Vision Distribution


durata:
92'


produzione:
Gravier Productions, The Mediapro Studio, Wildside


sceneggiatura:
Woody Allen


fotografia:
Vittorio Storaro


scenografie:
Alain Bainée


montaggio:
Alisa Lepselter


costumi:
Sonia Grande


musiche:
Stephane Wrembel


Trama
Sue e Mort Rifkin si recano in Spagna per partecipare al Festival internazionale del cinema di San Sebastián. Sue è una press agent che lavora per Philippe, un giovane e lanciatissimo regista francese, mentre Mort è un docente di cinema in pensione che sta scrivendo il romanzo della vita. Durante il festival lei si lascia corteggiare da Philippe, mentre Mort conosce un'affascinante cardiologa...