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recensione di Luca Sottimano

Il motore del film è il Cinema…ma il carburante è la vita…ciò che definiamo vita non è lo stato del mondo, ma i sentimenti - Leos Carax


Aveva veramente rischiato di non andare oltre il quarto film, Leos Carax. L’insuccesso di pubblico de "Gli amanti del Pont-Neuf" (1991) (il film all’epoca più costoso della storia del Cinema francese, la cui travagliata lavorazione durò tre anni: il "Cancelli del Cielo" d’oltralpe) e soprattutto il controverso "Pola X" (1999), avevano segnato un brusco arresto della carriera del cineasta, che sarebbe ritornato a dirigere un lungometraggio, "Holy Motors" solo tredici anni più tardi, dopo la realizzazione, nel 2008, del mediometraggio "Merde", all'interno del film a episodi "Tokyo". Un cineasta che si era imposto per le sue mire di grandeur unite al carattere misterioso e schivo, di enfant terrible (aveva esordito a soli 24 anni) che sfuggiva a qualsiasi incasellamento: un "Mr X", come titola il documentario del 2014 di Tessa Lou Salomé a lui dedicato, che ne rimarca l’alone di poète maudit.

"Rosso sangue", sua opera seconda, prende vita nel maggio del 1986, quando il mondo universitario francese è di nuovo in subbuglio a causa della riforma dello studio post-liceale promossa dal governo Chirac, ritenuta classista e discriminatoria. Chiudono gli atenei, gli studenti si riversano nelle piazze, la polizia risponde con la forza. Da tutto questo Carax si tiene in disparte e si rifugia in studio, per girare un film che rifiuta l’impegno, il messaggio sociale e politico. Come gli autori del  Réalisme poétique al tempo della Seconda Guerra Mondiale, ricostruisce tramite scenografie una Parigi abitata da gangsters, giocatori d’azzardo ed outsider. Vuole sfuggire, insieme a i suoi personaggi, dalle urgenze della stretta attualità per ambire all’universalità della poesia (partendo dal titolo, preso un poema di Arthur Rimbaud), a un puro atto d’amore verso il Cinema e verso i suoi attori (il suo alter ego Denis Lavant, ritenuto "indispensabile", e Juliette Binoche, all’epoca agli esordi, che divenne sua musa dentro e fuori lo schermo). Al momento della sua uscita nelle sale, "Rosso Sangue" è giocoforza malvisto, tacciato di conservatorismo, ma da lì a poco vince il prestigioso premio "Louis-Delluc", come miglior film dell’anno, e raggiunge lo statuto di cult movie per una generazione di cinefili, segnandone l’immaginario.


"Don’t Believe in Modern Love"

La prima volta che compare, Alex (nome comune a tutti i personaggi interpretati da Lavant nei primi tre film con Carax, nonché vero nome di quest’ultimo [1]), si trova in un bosco, seduto nei pressi di un albero; sulle sue gambe giace la sua ragazza, Lise (Julie Delpy). L’ atmosfera pacifica e fiabesca dura pochi istanti: subito i due si alzano, camminano frenando a stento le lacrime e, giunti al limitare della strada, salgono in sella ad una motocicletta. Il protagonista sembra muoversi a proprio agio nel contesto moderno in cui vive: ama sfrecciare col suo veicolo tra le luci della città; dà le carte, elencandole con estrema rapidità, in un tavolo da gioco. Ma vive solo, senza legami forti e duraturi, specchio della disincantata generazione di giovani dell’epoca. Il suo malessere esistenziale è dovuto, scopriamo più avanti, al periodo trascorso in carcere che l’ha fortemente segnato, e si manifesta ora a livello somatico, in un corpo "tra la grazia e l'epilessia"[2] che continua a fare a pugno contro un nemico invisibile [3]. Come il protagonista del precedente "Boys Meets Girl", è vittima di continue delusioni amorose e, a causa di un evento cruciale (qui la perdita del padre, che si aggiunge a quella della madre), desidera rifarsi una vita con una scelta drastica, lasciare Parigi e la sua ragazza. L’ambientazione urbana, che la sinossi colloca in un vago "futuro prossimo", senza avere nessun connotato avveniristico, è spettrale, dominata da tonalità grigie e malinconiche, spazi deserti e alienanti. Le ricorrenti inquadrature strette esprimono il sentimento di reclusione dei personaggi, intrappolati dai loro cupi destini. Su di loro, aleggia un sentore di morte e di catastrofe imminente (non è un caso che il 1986 sia anche l’anno del disastro nucleare di Chernobyl), ribadito soprattutto dai continui accenni al passaggio della cometa di Halley, portatrice di oscuri presagi, ma anche da piccoli dettagli, come la presenza delle effimere, piccoli insetti disturbatori della quiete. L’unico rifugio possibile sembra essere la dimensione onirica: in diversi momenti li vediamo in uno stato di sonno o dormiveglia, con gli occhi chiusi o appena aperti nel momento di svegliarsi; la costante riproposizione di queste immagini rende incerto e ambiguo l’intero statuto della narrazione. Per Alex sono in particolare le due figure femminili ad essere non corpi materici, ma figure fantomatiche. La comunicazione più sincera tra loro avviene attraverso i pensieri ("dall’interiorità"), oppure tramite una voce fuoricampo che sembra proprio giungere da un’altra realtà, mentre l’interlocutore volge lo sguardo altrove. Sembra attratto maggiormente da un’ideale di donna scaturita dalle sue fantasie, piuttosto che da una figura in carne e ossa. Lise, che appare e scompare all’improvviso, viene descritta come una mistica che appartiene al suo tempo: un "angelo della moto", che alla fine ritrova "il sorriso della velocità". Anna invece (dai tratti efebici e anemici della giovane Juliette Binoche) sembra sgorgare direttamente dal suo sguardo. Quando la intravede in metro, il suo volto è riflesso prima sullo specchietto, poi sul vetro della finestra (in "Boys Meets Girl", il volto femminile era, ancora più marcatamente, sovraimpressione che riempie l’inquadratura, in chiare reminiscenze epsteiniane). A casa di Marc, la sua apparizione è anticipata da una serie di occhiate verso il fuoricampo dei tre uomini presenti. "Sembri addormentata" sono le prime parole che le rivolge il personaggio interpretato da Piccoli. Anna è consapevole della sua condizione: racconta che "Marc mi ha subito guardato con gli occhi di un inventore", e accusa Alex di non staccarle gli occhi di dosso. "Bisogna nutrire gli occhi per sognare", le risponde lui, aggiungendo "amo le donne riflesse su uno specchio". La ragazza intravede un voyeur che la spia di continuo dalla finestra. Lo interpreta Carax stesso, esplicitando il suo stretto rapporto con l’attrice, che sul set da professionale divenne sentimentale (entrambi interrotti poi nel 1991, all’uscita di "Gli amanti del Pont-Neuf"). Così "nella loro collaborazione c’è la deliberata creazione di un'identità mitica: un autore maschile costruisce il suo personale universo con l’aiuto di una star femminile. Lei funziona sia come una bella figura femminile all’interno di una lunga tradizione iconica, sia come focalizzatrice delle preoccupazioni estetiche e filosofiche del suo autore"[4]. Ad un certo punto, accasciandosi sul letto, la ragazza esce direttamente dall’inquadratura, nel tentativo di crearsi solo per un istante uno spazio privato fuori dalle tante oggettive a lei dedicate.

Tra Alex e Anna il colpo di fulmine avviene mentre si lanciano insieme dal paracadute: il tempo è sospeso, basta un semplice sguardo senza scambiarsi parole, chiudere gli occhi e già trasportarsi in una dimensione superiore, lontano dalla celerità imposta dalla contemporaneità. Così, nei primi momenti in cui sono assieme, prevalgono discorsi sussurrati che spesso non trovano risposta, lunghi silenzi, giochi infantili. In una sequenza celebre (omaggiata esplicitamente nel film di arti marziali cileno "Kiltro" (2006) di Ernesto Díaz Espinoza e in "Frances Ha" (2012) di Noah Baumbach), Alex accende la radio: dapprima sente la disperata "J'ai pas d'regrets" di Serge Reggiani, che fa un cameo nel ruolo dell’aviatore, poi parte "Modern Love" di David Bowie. Allora si riversa in strada compiendo un ballo frenetico e nervoso, in cui ritornano i suoi dolori al petto, riuscendo però per la prima volta a sfogarsi e forse ad abbandonarli una volta per tutte. All’improvviso si ferma e, come folgorato dalle parole del Duca Bianco, "Don’t Believe in Modern Love", torna indietro e chiede alla ragazza: "Tu credi a quegli amori che compaiono all’improvviso ma che durano per sempre?"[5] Così potranno finalmente aprirsi l’uno all’altra, concedere reciprocamente l’accesso alla propria interiorità e paure. Poco dopo Alex, come un cavaliere delle fiabe, la porta sulle proprie braccia all’hotel di fronte.

Il loro è un amor fou che vuol essere eterno e fuori dal tempo, un lungo sogno a occhi aperti da cui però alla fine sono costretti a destarsi. Al furto del virus segue la fuga in auto, in cui Alex è colpito da un proiettile che, rivelandone il sangue, ne evidenzia l’essenza di carne e lo riporta nella dimensione terrena. La morte che sopraggiunge lo coglie in pace, perché pone fine a tutti i suoi dolori e al carattere effimero dell’esistenza quotidiana. Chiude definitamente gli occhi, ed è proprio toccandogli le palpebre che Charlie ne certifica il decesso. Anna corre disperata finché non si trasfigura e ascende al cielo, andando forse a ricongiungersi con lui nell’aldilà.


Il motore sacro

Il panorama cinematografico francese negli anni 80 è caratterizzato dal filone del cosiddetto "Cinéma du Look", a cui Carax viene associato insieme a registi come Jean-Jacques Beineix ("Diva") e Luc Besson ("Subway"). Questi sono accumunati da un "interesse per la fantasia piuttosto che per il realismo, una padronanza tecnica del medium, una tendenza a inserire citazioni da altri film, uno stile visuale spettacolare e dal mettere al centro giovani amanti in un panorama urbano alienante".[6] Molti però ne rintracciano da subito la maggior vicinanza a Godard e in generale alla Nouvelle Vague, come faceva intendere anche il suo background. Figlio di due giornalisti (la madre in particolare era critica per l'International New York Times), si laurea all’Università Paris III e scrive per due anni sulle pagine dei Cahiers du Cinéma. Segue, all’alba dei vent’anni, la realizzazione del suo primo corto, "Strangulation Blues" (1980)[7], e successivamente l'esordio nel lungo, "Boy Meets Girl" (1984), girato in bianco e nero. Ginette Vincendeau, ad esempio, colloca le sue prime opere "nel nuovo filone romantico negli anni 80 e 90 in Francia. Questi film si focalizzano su una coppia eterosessuale e sulle loro relazioni amorose e abbracciano i valori del Romanticismo, aggiornati alla Parigi contemporanea e filtrati tramite la Nouvelle Vague: immaginazione, tenerezza, liricismo, libertà, amore per l’arte"[8].

La peculiarità dello stile che il regista adotta per "Rosso Sangue" sta proprio nel modo in  cui riesce a ibridare le tendenze messe in luce sopra. I repentini stacchi e strappi di montaggio, l’alternanza di stasi e accelerazioni, il pastiche iconografico, non sono mai fini a sé stessi, per un approccio inerte o intellettualistico, ma materia viva, in funzione del racconto e dei personaggi. L’incipit ci catapulta nelle vicende senza darci coordinate per orientarci: le spalle di un ragazzo che si butta sui binari, il dettaglio di un accendino e del filo di un telefono fisso. La costante frammentazione degli spazi (assenti i campi totali) e delle figure umane (di cui prevalgono i particolari e i primi piani), l’inframezzarsi brusco e repentino di inquadrature totalmente nere, sono sintomi della precarietà esistenziale dei protagonisti, del loro essere sull’orlo della fine ("È arrivata. È già qui. È finita", sono tra le prime parole che sentiamo pronunciare). Il furto del virus STBO, innesco degli eventi, è un mero pretesto, procrastinato e per lunghi tratti come dimenticato: il momento dell’atto è ridotto a breve sequenza, con un ridicolo commissario, esasperata macchietta comica. Nient’altro che un hitchockiano McGuffin, elemento arbitrario senza importanza. Il significato della malattia stessa è romantizzato: colpisce solo chi fa l’amore senza passione. La realtà dell’AIDS a cui questo allude e in particolare il fatto disturbante che la sua trasmissione trascende il giudizio morale, non ha posto nel mondo fortemente passionale del film [9]. Questo è infatti uno dei primi a farne riferimento, ma, al di là del titolo originale (tradotto letteralmente "cattivo sangue"), solo in un'altra occasione vi è un rimando esplicito: quando Alex scappa da Lise in metro, le si rivolge ricordando di "non fare l’amore senza preservativo" (reso nella versione italiana “proteggiti sempre quando fai l’amore"). Il côte sci-fi e noir è completamente stilizzato (come in "Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville" di Godard), ridotto all’archetipo esangue (la fantomatica donna "americana", committente con una gang di scagnozzi al seguito). La lotta a mani nude tra Marc e Alex è depauperata di qualunque fisicità per assumere toni burleschi; degli scontri a fuoco emerge tutta l’artificiosità.

Il cuore del film è la relazione tra i protagonisti, in un melodramma asciugato da una qualsiasi carica enfatica, per lasciare sgorgare spontaneamente e autenticamente i sentimenti. Che emergono soffusi, con lieve intimità e sensibilità, veicolati dall’uso espressivo dei colori caldi. I giovani amanti fanno a meno della carnalità, perfino dei baci, per scambiarsi invece suggestive dichiarazioni e impegnarsi in una continua riflessione sulla vita e sul mistero dell'amore che rimane irrisolvibile poiché, come dicono loro stessi, "se non ci fosse l’enigma svanirebbe l’amore". Anche nell'"arrivederci" finale, il tono è elegiaco, evitando i toni urlati e disperati: "trattieni le lacrime" è il monito di Alex a Lise. Così, nell’universo del regista all’approccio post-moderno prevale quello lirico e poetico, al legame col Cinema contemporaneo quello del passato. Serge Toubiana: "Carax era qualcosa di completamente inedito nel panorama francese, un bambino che come regista rielaborava l’infanzia stessa del Cinema, mentre la nostra epoca è piuttosto ostile a questo e prevalgono le citazioni di chi è cinico e pensa di sapere tutto" [10]. Le scene della pianificazione sono in immagini sgranate, un gioco di ombre (come un serial muto degli anni 10), a cui seguono alcune veloci istantanee del volto di Lise in bianco e nero, omaggio alle tante figure femminili ritratte dalla Nouvelle Vague. Il nome della ragazza, inoltre, rimanda a "La petit Lise" (1930) di Jean Grémillon, di cui vediamo un estratto trasmesso da un televisore (più volte è proprio Alex a rivolgersi a lei come "ma petit Lise"). I primi piani di Binoche, riprendendo quanto già accennato, sono "riferimento al volto femminile come icona della sofferenza. La faccia di Karina in Questa è la mia vita di Godard è visualmente equiparata a quella della Falconetti, rimandando anche a Lillian Gish e a Louise Brooks". Karina è evocata anche dalla nera capigliatura del personaggio di Anne, in un gioco di rimandi rafforzato anche dal fatto che in entrambe le coppie, Godard/Karina e Carax/Binoche, si è instaurata per breve tempo una relazione sentimentale oltre che professionale.

"Rosso sangue", meteora piombata sulla terra, è destinato a lasciare dunque un segno indelebile, diventando punto di riferimento per i tanti cineasti (un nome su tutti: Wong Kar Wai), che, nei decenni successivi, lo guarderanno con ammirazione e saranno influenzati dal Cinema del suo regista, nonostante il suo corpus conti, ad oggi, solo cinque lungometraggi in più di trent’anni di carriera.

"Ascoltiamo e lasciamo che la melodia guidi le nostre emozioni"


NOTE

[1] In "Holy Motors", il protagonista (sempre interpretato da Lavant) si chiama Oscar, nuovo rimando a Carax stesso, all’anagrafe Alex Dupont: lo pseudonimo è l’anagramma delle parole Alex e Oscar. Ma Alex è poi il nome di una delle tante "incarnazioni" del protagonista nel corso delle vicende. Gli intrecci si fanno sempre più complessi.

[2] S. Daney, citato in G. Sangiorgio, "Il cinema di Leos Carax: tra la grazia e l’epilessia".

[3] Tratto che ritorna anche nel successivo Alex, quello de "Gli Amanti del Pont-Neuf", si veda l’incipit in cui come vagabondo arranca per la strada prima di essere investito da un’auto. In generale, attraverso l'attore, definito "una scultura, qualcuno che si muove, danza, barcolla come nessun altro", Carax realizza un'analisi del corpo e del movimento. In "Holy Motors", il discorso investe il significato dell'azione tout court, dalle origini dell'immagine in movimento (la registrazione del movimento di Étienne-Jules Marey, di cui vediamo "L’enfant nu, course, aller et retour" in apertura) fino alla sua digitalizzazione e astratizzazione contemporanea attraverso la motion capture a cui si sottopone Monsieur Oscar.

[4] G. Vincendau, "Stars and Stardom in French Cinema", Continuum, Londra, 2000.

[5] I momenti di ballo sono un motivo ricorrente nei film di Carax, occasione per i personaggi di isolarsi dal mondo che circonda, dimenticare per qualche istante le proprie inquietudini e esprimere liberamente il proprio se. In "Boys Meets Girls" Mireille danza sola nel proprio appartamento con ampie movenze cercando un attimo di pace, subito interrotta dall’ex-fidanzato che la chiama al citofono. Ne "Gli amanti del Pont- Neuf" Michéle è sull’orlo del suicidio, quando si lascia trasportare da una dolce musica suonata con la fisarmonica, a cui subentrano senza soluzione di continuità le ruvide note di "Easy Girl" di Iggy Pop. Lei ed Alex cominciano a muoversi nervosamente, per poi unirsi in un concitato duetto sulle musiche celebrative dei festeggiamenti del Bicentenario della Rivoluzione Francese. In "Holy Motors", vi è un intermezzo musical in cui Kyle Minogue canta, con malinconia e introspezione "Who we are". Ma non finisce qui: il prossimo film del regista, il primo girato in lingua inglese, sarà "Annette", vero e proprio musical, naturale approdo per un regista che ha sempre dato così importanza alla musica e alla performance. Lo davano pronto per Cannes 2020, poi se ne sono perse le tracce.

[6] G. Austin, "Contemporary French Cinema – An Introduction", Manchester University Press, Manchester, 2008.

[7] Come tutti gli altri corti del regista, lo trovate su Youtube, purtroppo in una versione in pessima qualità e senza sottotitoli.

[8] G. Vincendau, op. cit. Gli altri autori citati come esempi di questo filone dalla studiosa sono: Olivier Assayas ("Paris s'eveille"), Jacques Doillon ("Le Jeune Werther"), Eric Rochant ("Un mondo senza pietà") e Chantal Akerman ("Notte e giorno", "Un divano a New York").

[9] Cfr G. Austin, op. cit.

[10] Testimonianza presente nel documentario "Mr X – A vision of Leos Carax" (2014) di Tessa Louise-Salomè. Lo stesso regista ha dichiarato "Non accetto che il film sia associato a un altro giusto perché sono contemporanei. Non mi sento in alcun modo contemporaneo con i film che stanno uscendo ora. Rosso sangue è un film che ha amato il Cinema, ma che non ama il Cinema di oggi".


16/11/2020

Cast e credits

cast:
Serge Reggiani, Hugo Pratt, Carroll Brooks, Julie Delpy, Hans Meyer, Michel Piccoli, Juliette Binoche, Denis Lavant


regia:
Leos Carax


titolo originale:
Mauvais sang


distribuzione:
Acteurs Auteurs Associés (AAA)


durata:
116'


produzione:
Plain Chant Distribution, Soprofilms


sceneggiatura:
Leos Carax


fotografia:
Jean-Yves Escoffier


scenografie:
Jacques Dubus, Michel Vandestien, Thomas Peckre


montaggio:
Nelly Quettier


costumi:
Dominique Gregogna, Robert Nardone, Martine Métert


musiche:
Benjamin Britten, David Bowie, Sergei Prokofiev


Trama

Nella Parigi di un futuro non troppo lontano, una misteriosa malattia chiamata STBO sta uccidendo persone che fanno l'amore senza coinvolgimento emotivo.  Una donna americana ricatta due vecchi delinquenti, Marc e Hans, affinché ne rubino il siero. Questi Reclutano così Alex, un adolescente ribelle il cui padre ha lavorato per loro prima di farsi ammazzare. Ma il ragazzo, lasciata Parigi e la sua fidanzata per partecipare al colpo, si innamora di  Anna, giovane amante di Marc.