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recensione di Stefano Santoli

"Perché andiamo a frugare l'universo, quando non sappiamo niente di noi stessi?"

 



L'anelito all'elevazione spirituale è centrale nella poetica di Tarkovskij. L'intreccio fantascientifico di "Solaris", tratto da un romanzo del polacco Stanislaw Lem, diventa, nelle mani del regista russo, la storia di una redenzione. Protagonista è uno psicologo, Kris Kelvin (Donatas Banionis), che viene inviato sulla stazione spaziale orbitante attorno al pianeta Solaris per comprendere cosa sia successo ai pochi scienziati rimasti lassù. Il pianeta - ricoperto da un immenso oceano - è un'entità aliena, forse un cervello pensante, in grado di materializzare ciò che si cela nei recessi della psiche umana. Kelvin dovrà fare i conti con questo potere: si presenterà al suo cospetto la moglie Hari (Natalija Bondarchuk), morta suicida anni prima. Giunto sulla stazione per rimediare agli influssi del pianeta sulla psiche degli altri, Kelvin dovrà quindi confrontarsi con i propri fantasmi.

Scacco alla ragione
I primi 40 minuti della pellicola (tagliati nella versione italiana del film, e di fatto irreperibili prima che venisse diffusa, negli ultimi anni, la versione integrale) sono ambientati sulla Terra. Si tratta di un'aggiunta di Tarkovskij al romanzo, che comincia direttamente nello spazio. La pellicola inizia sulle note del maestoso preludio corale in fa minore di Bach, che torneranno più volte nel film, connotandolo di forte nostalgia per l'armonia. La prima immagine di "Solaris" inquadra l'acqua di un laghetto presso cui Kelvin sosta pensoso. Immerse nell'acqua ondeggiano, armoniose, le alghe. L'acqua è fertile, salvifica, rigeneratrice nel cinema di Tarkovskij: Kelvin, sorpreso da un temporale, si lascia inzuppare con voluttà. Ad attenderlo nello spazio remoto, c'è il fluido ben diverso dell'oceano di Solaris.
Il passaggio dalla dimensione domestica alla stazione orbitante è traumatico come uno sradicamento. Kelvin arriva in solitudine, nessuno ad accoglierlo. La stazione è un mondo artificiale di superfici metalliche luride e in disfacimento, in cui tutto appare squilibrato e regnano caos e lerciume.

Su una parete della dacia, dimora del padre di Kelvin, avevamo scorto susseguirsi quadri che ritraevano modelli di mongolfiere. Al di là del rimando al sogno umano per eccellenza - quello del volo - c'è un rimando interno alla filmografia del regista: alla scena iniziale di "Andrej Rublëv", dove una mongolfiera si schiantava rovinosamente al suolo. Lo slancio ambizioso della scienza - il positivismo della ragione che si crede orgogliosamente superiore alla psiche - è messo sotto scacco dal pianeta Solaris, che proprio sui reconditi recessi della psiche ha fatto leva per destabilizzare gli scienziati. Nelle inquadrature in cui si scorge, l'oceano di Solaris sembra dotato di una potenza soverchiante e inesausta. Quella che un tempo era una stazione popolata da 85 persone, è ridotta ora quasi ad un ammasso di detriti, dove ormai appena due individui (Snaut e Sartorius) si aggirano smarriti, come anime in pena prive di scopo. In un impeto di autodenigrazione (o autocommiserazione?), un altro scienziato (Gibarian), prima di uccidersi, si è ridotto a raffigurare l'essere umano con uno scarabocchio infantile: così appare, affissa ad una porta su un foglietto, la figura umana in un disegno la cui didascalia recita "uomo". Un dettaglio emblematico svela chiaramente la posizione del regista: mentre Sartorius ribadisce il proprio oltranzismo razionalista, Tarkovskij ne inquadra ironicamente la lente degli occhiali che si stacca dalla montatura.

Paura e desiderio
C'è uno stretto legame fra i due film fantascientifici di Tarkovskij, "Solaris" e "Stalker". Anche nel successivo film del 1979 Tarkovskij tornerà a raccontare della possibilità che qualcosa di alieno possa concretizzare i desideri nascosti (qui è il pianeta Solaris; in "Stalker" sarà la stanza di cui i protagonisti vanno alla ricerca nella Zona). Se al cospetto di Solaris si è impotenti (il pianeta materializza i desideri contro la nostra volontà), in "Stalker" ci si può rifiutare di entrare nella stanza, ma la differenza è secondaria: comune a entrambi i film è la paura dei propri desideri. L'esitazione a entrare nella stanza di "Stalker" corrisponde all'angoscia, o alla vergogna (come sostiene Kelvin), che ha portato al suicidio Gibarian.
C'è un parallelismo anche fra i personaggi dei due film, ciascuno dei quali incarna, rispettivamente, l'arroganza della scienza arroccata in uno sterile razionalismo (Sartorius, in "Solaris"), l'ansia carica di dubbi dello scetticismo, cui non è estranea la compassione (Snaut), l'apertura al mistero (Kelvin).

Se abbiamo paura dei nostri desideri, è perché ad essi associamo una colpa. Solo Kelvin regge la sfida di Solaris. Riconosce la propria responsabilità nel suicidio della moglie Hari, e dopo il rigetto iniziale accoglie il proprio desiderio di riportarla in vita. Il coraggio di ammettere una colpa rimossa aiuta Kelvin a superare la paura. 
La costante religiosa di Tarkovskij è declinata, in "Solaris", nell'accettazione in Hari del mistero, oltre ogni spiegazione scientifica, oltre la necessità stessa di una logica scientifica. La scelta di Kelvin di accettare in questa replica di Hari la vera Hari, e non un suo simulacro illusorio, matura nel rigetto delle categorie della ragione, inabili a sondare i recessi dell'interiorità umana. La scommessa di Kelvin è folle, va contro ogni senso comune: è uno scandalo, come quello di Abramo in Kierkegaard. Non è reminiscenza peregrina l'"Ordet" di Dreyer. E' un atto di fede, non privo di tormento (Kelvin è costantemente assediato da un'angoscia che lo porta a sudare copiosamente). 
Al momento in cui Kelvin ha maturato l'accettazione del mistero, Tarkovskij, sulle note del preludio di Bach, lo fa levitare insieme ad Hari. La levitazione (un motivo che tornerà nelle pellicole future) concretizza per un istante di beatitudine quell'anelito all'elevazione spirituale cui tende, insieme al cinema di Tarkovskij, l'arte stessa, nella sua ricerca d'infinito e d'armonia.

Hari che visse due volte
Anche se Hari è una replicante, si va progressivamente umanizzando. Ciò basta a renderla meritevole di riguardo alla stregua di un essere umano (sotto questo aspetto il film precorre "Blade Runner"). Hari dimostra di essere più umana di uomini come Sartorius. Il suo iniziale, compulsivo bisogno di Kelvin (si ferisce sfondando una porta per non restarne separata) si trasforma gradualmente in capacità di amare, per arrivare infine al massimo sacrificio. Ancora il suicidio per amore: prima tentato vanamente (con l'ossigeno liquido, in una sequenza quasi horror), poi rimettendosi alla volontà di Sartorius. In Hari c'è in nuce il tema del sacrificio di sé per il bene altrui, sviluppato da Tarkovskij nei suoi ultimi film, "Nostalghia" e (appunto) "Sacrificio" (1).

La donna Hari si sovrappone alla donna-madre. Nel pre-finale - nel solito alternarsi di bianco e nero e colore che contraddistingue il film e sembra associarsi ai mutamenti di condizione emotiva (2) - a Kelvin compare proprio la madre, che con una brocca e un catino effettua un lavacro purificatore (la funzione purificatrice dell'acqua è sin troppo evidente. La sequenza è stilisticamente notevole perché contraddistinta da una proliferazione di molte Hari: senza stacchi di montaggio, in unica inquadratura, una carrellata, vediamo apparire più volte Hari, prima di uno stacco dopo il quale la macchina da presa si posa sul primo piano della madre di Kelvin) (3). La sovrapposizione fra compagna e madre, ripreso ne "Lo specchio", rivela un debito del regista nei confronti di un'iconografia comune a varie tradizioni pittoriche della cristianità, in cui la figura salvifica della donna si accompagna a caratteri eterei e angelicati (sia Hari che la madre di Kelvin portano ad esempio i capelli raccolti), a simboleggiare una purezza quasi asessuata, in cui non ha del tutto torto chi individua una mortificazione della sessualità contrapposta alla ricerca della spiritualità (4)

Una dacia nel cosmo
Un'avvertenza per chi non avesse visto il film: stiamo per parlare esplicitamente del finale. 
Kelvin fa ritorno alla dacia paterna. E' un nostos, un ritorno. La dacia è simbolo della tradizione. La tradizione, il legame con le proprie radici, sono in Tarkovskij imprescindibili fonti di spiritualità; sono la meta del viaggio. Il percorso di Kelvin è stato un'odissea (nello spazio) anzitutto interiore: e come Odisseo quando fa ritorno ad Itaca incontra prima il proprio cane Argo, così a Kelvin corre incontro il cane. Nostos, ritorno: la nostalgia, letteralmente "dolore del ritorno", è tema centrale in Tarkovskij già prima dell'esilio e del corrispondente film dell'esilio ("Nostalghia", per l'appunto). "Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas": il monito di Agostino d'Ippona si adatta perfettamente a sintetizzare il senso di "Solaris".
Il finale di "Solaris" parrebbe il più classico dei nostos se Tarkovskij non intendesse destabilizzare lo spettatore con l'inquadratura conclusiva, con la quale realizza una perfetta mise en abîme. Nella celeberrima scena conclusiva, un dolly smisurato (composto di tre inquadrature: la prima il dolly vero e proprio, la seconda una ripresa aerea, la terza un effetto di sovrimpressione) rivela che la dacia paterna cui Kelvin ha fatto ritorno si trova in realtà su di un'isola sorta nel mezzo dell'oceano di Solaris (5). E' un finale simbolico, che sembra intendere che Kelvin dovrà scontare un esilio (precognizione dell'esilio dello stesso Tarkovskij?). Assuntosi la responsabilità delle proprie colpe, Kelvin si è pentito; riscattato dall'amore, grazie anche al sacrificio di Hari, si è "salvato". Cristianamente, dal pentimento scaturisce la salvezza, ma il finale del film circoscrive la salvezza a un ambito esclusivamente spirituale: materialmente, invece, Kelvin non scampa a quella che appare una condanna all'esilio, da scontare in questa vita.

Questo finale rimane passibile di interpretazioni anche opposte. Sotto questo aspetto, pur nell'enorme distanza estetica e poetica con Kubrick, non è completamente fuorviante (6) instaurare un prudente parallelo con l'odissea kubrickiana - un parallelo che, a scopi commerciali, fu impropriamente imposto sin sulla locandina italiana originale (dove si legge "La risposta della cinematografia sovietica a 2001: Odissea nello spazio"). Fra l'altro, l'esilio di Kelvin in un ambiente familiare perso nello spazio non è lontano dal destino riservato a David, condannato a vivere da solo nella celebre stanza rococò del finale di "2001".

Sin dall'inizio, Kelvin si era dimostrato poco desideroso di intraprendere un viaggio nel cosmo. Tornando all'inquadratura iniziale, per rileggerla come una sorta di establishing shot contenutistico, notiamo che l'acqua scorre da destra verso sinistra; la macchina da presa, poi, prende a muoversi verso destra. Abitualmente, le inquadrature da sinistra a destra, seguendo il senso della lettura, indicano apertura al futuro; i movimenti contrari (come qui quello dell'acqua), conducono al passato. Tutto "Solaris" è segnato da questo doppio movimento: una proiezione verso lo spazio profondo (l'ignoto) accompagnata costantemente dall'urgenza del recupero del passato: la Terra, Hari, la dimora paterna. 
Il padre di Kelvin è il custode vivo della tradizione. Nella sequenza finale, dopo un muto, memorabile scambio di sguardi attraverso il vetro di una finestra, Kelvin sulla soglia della dacia si inginocchia al cospetto del padre, che gli pone le mani sulle spalle come nel dipinto "Il figliol prodigo" di Rembrandt. In quel preciso momento ha inizio il dolly. Già sulla stazione orbitante Kelvin si era inginocchiato, ai piedi di Hari. Ci si inginocchia di fronte a ciò che è sacro, facendo una professione di umiltà in cui sacrifichiamo il proprio ego e ci predisponiamo alla misericordia altrui. Il gesto di Kelvin su cui il film si chiude sta a indicare la raggiunta consapevolezza della sacralità delle radici.
Aver avuto l'ambizione di declinare tematiche di questo genere, religiose, profondamente russe, nel pieno della Russia sovietica - addentrandosi in un genere in apparenza lontanissimo dalle proprie corde - è indice di un coraggio e di un'urgenza espressiva eccezionali, che contribuiscono a fare di "Solaris" uno dei vertici dell'arte di Andreij Tarkovskij (7).


(1) Vedi, in questo senso, F. Borin, "Solaris", L'Epos, p. 48. 
(2) Questa alternanza, inaugurata da Tarkovskij in questa pellicola che è la sua prima a colori (se si eccettua l'esplosione di colore sulla rassegna di dipinti di Andrej Roublev nel finale dell'omonimo film), proseguirà in tutte le pellicole successive del maestro russo, divenendone una caratteristica che conferisce ai suoi film una peculiare enigmaticità. La scelta, oggi singolare, pare dettata da una ricerca linguistica di cui non si faticano a individuare gli stimoli in un momento storico in cui l'uso del colore iniziava appena a diffondersi nel cinema d'autore europeo, ed era contraddistinto, ai suoi albori, da una spiccata curiosità sperimentale (si pensi ai vari "Giulietta degli spiriti", "Deserto rosso", "Sussurri e grida"). 
(3) In questa sequenza è spinto così al massimo grado di spaesamento uno degli espedienti cui Tarkovskij ricorre allo scopo di disorientare lo sguardo: solitamente, e con frequenza, il regista disattende la sintassi del campo/controcampo, facendo apparire i personaggi in posizioni inaspettatamente diverse da quelle in cui si trovavano nell'inquadratura precedente.
(4) E' di questa opinione Slavoj Žižek, che, in "Tarkovskij: la Cosa dallo spazio profondo" - in una lettura lacaniana e anti-junghiana del film che non condividiamo - si spinge ad individuare in Tarkovskij un desiderio di castrazione non soltanto psicologico-sessuale, ma persino intellettuale, a livello di tematica profonda della sua opera.
(5) Questo finale sarà poi richiamato da quello di "Nostalghia", dove la dacia russa sarà ospitata dentro la cattedrale di S. Galgano in Toscana.
(6) Come sostenuto da T. Masoni e P. Vecchi nel loro "Castoro" dedicato a Tarkovskij.
(7) Merita di essere ricordato che il giudizio di Tarkovskij verso il proprio film fosse a questo riguardo particolarmente severo: "In Solaris c'erano troppo accessori fantascientifici che distraevano dal tema principale. I razzi, le stazioni spaziali... Ritengo che la realtà a cui l'artista ricorre per esprimere la propria visione del mondo debba essere, scusate la tautologia, reale, ossia comprensibile e nota fin dall'infanzia". Al contrario, crediamo invece che l'ibridazione fra le tematiche spirituali della poetica del maestro russo e i motivi fantascientifici del film sia stata feconda in termini di originalità, dando vita a un'opera d'arte sorprendente e memorabile.

 


24/12/2014

Cast e credits

cast:
Juri Jarvet, Anatolij Solonicyn, Nikolai Grinko, Olga Barnet, Sos Sargsyan, Vladislav Dvoržeckij, Donatas Banionis, Natalija Bondarchuk


regia:
Andrej Tarkovskij


durata:
169'


produzione:
Viacheslav Tarasov


sceneggiatura:
Andrej Tarkovskij, Fridrikh Gorenštejn


fotografia:
Vadim Jusov


scenografie:
Mikhail Romadin


montaggio:
Ljudmila Feižinova, Nina Marcus


costumi:
Nelli Fomina


musiche:
Eduard Artemjev


Trama
Lo psicologo Kris Kelvin, dopo aver trascorso alciuni giorni sulla Terra in compagnia del padre, arriva sulla stazione spaziale in orbita attorno al pianeta Solaris per indagare sui misteriosi fenomeni che vi avvengono, e che hanno coinvolto gli scienziati a bordo al punto da compromettere, forse per sempre, la possibilità di continuare gli studi sul pianeta.