Ondacinema

recensione di Stefano Santoli
7.0/10

BV e Faye (Ryan Gosling e Rooney Mara) sono due musicisti che aspirano a emergere e si muovono nella scena musicale di Austin, celebre per i suoi festival (durante i quali è stato girato il film: Austin City Limits Festival, South by Southwest, Fun Fun Fun Fest). A corteggiare i musicisti, e in particolare Faye, c'è il produttore Cook (Michael Fassbender). Il racconto procede per frammenti, "di canzone in canzone" come vuole il titolo: una struttura ondivaga e rapsodica, deliberatamente priva di un robusto tessuto narrativo. Tra party, concerti e viaggi, il film si sfilaccia in molteplici rivoli come il delta di un fiume, in un flusso in cui ai tre personaggi se ne aggiungono altri, in un moltiplicarsi dei punti di vista e con rapporti di coppia che sembrano di continuo costruirsi e sfaldarsi senza stabilità. I personaggi si cedono vicendevolmente il testimone, e mentre il ritmo si fa più serrato, paradossalmente lo spettatore si sente sempre più distante, meno interessato ai singoli personaggi, che vengono risucchiati, nella sezione centrale del film, in un vortice di malesseri, prigionieri della mondanità. Cook, forse il più disperato, mantiene una funzione centrale con la sua forza attrattiva, in cui si accentuano i tratti più negativi del protagonista di "Knight of Cups". Nel finale si ricostruisce poi un ordine, in cui torna protagonista il legame fra BV e Faye.
Nel ruolo di se stessi, spesso durante esibizioni live o nel backstage, compare un gran numero di musicisti: da Patti Smith (che possiede un ruolo d'eccezione nel contesto del film) a Iggy Pop, da John Lydon a Flea dei Red Hot Chili Peppers, da Lykke Li ai Florence and the Machine, passando per molti altri fra i quali i Black Lips, durante una cui esibizione è stato lasciato improvvisare sul palco insieme a loro Val Kilmer, che fa a pezzi un amplificatore con una motosega, a rappresentare una certa deriva (auto)distruttiva e fuori controllo della rockstar.

"Voyage of Time" a parte, dopo "The Tree of Life" Malick ha girato in pochi anni tre film che vanno a costituire un corpus unitario, quasi fossero novelle appartenenti a una raccolta, caratterizzata da spiccata omogeneità poetica e stilistica. La poetica fa perno su un'accentuazione della matrice religiosa latente in tutta la filmografia di Malick. "Knight of cups" ha fornito una chiave d'interpretazione di natura gnostica, con la citazione dall'Inno alla Perla del II secolo d.C.. Il motivo di fondo è la dialettica fra lo spirito e la prigione del mondo materiale che lo racchiude. In quest'ottica, il ruolo di Cook - una sorta di distillato dei mali della mondanità - è quello di un demone tentatore, rivolto a ostacolare l'ascesi degli altri verso la propria realizzazione e felicità. Nella rapsodicità narrativa si riflette il disorientamento delle esistenze individuali, polverizzate in frammenti privi di unità in cui si amplificano il senso di vanità e di noia. Le figure femminili tendono sempre a rispecchiare la "grazia" incarnata da Jessica Chastain in "The Tree of Life". Le donne sono oggetto del desiderio fisico, ma si fanno portatrici della suggestione a una superiore armonia, e lasciano alle controparti maschili la scelta di limitarsi al livello sensuale o cogliere l'aspetto spirituale del femminino sacro, diremmo quasi. La donna, in Malick, è una sorta di visione angelicata e stilnovista, che rispecchia l'archetipo maschile dell'Anima della psicologia junghiana. E Malick ricorre sempre di più alla danza come simbolo di grazia, facendo danzare nei più disparati contesti un po' tutte le figure femminili, senza preoccuparsi di eccedere in inverosimiglianza, rischiando però di saturare lo spettatore.

Il senso di precarietà che accompagna i personaggi vien fatto percepire allo spettatore anche all'interno di una medesima scena, per mezzo di quello stile che determina una "visione liquida" (1), ipnotica e fluttuante, supportata dalla fotografia di Lubezki e del suo operatore Joerg Widmer, teso a restituire intimità e immediatezza ma anche ansia: infatti il montaggio tende nervosamente a frammentare molte scene in più inquadrature non raccordate canonicamente, interrotte spesso prima di quando ci si aspetterebbe, lasciando quindi lo spettatore non rappacificato, in balia di una continua instabilità visiva ed emotiva.

Rispetto a "To the Wonder" e "Knight of Cups" vi sono anche elementi di discontinuità. "Knight of Cups", ad esempio, aboliva quasi completamente il dialogo; al contrario, in "Song to song", sia pur costruito sempre sulla prevalenza di frammenti di monologo interiore in voice-over, i dialoghi ci sono e neanche pochi. Al montaggio nervoso che si diceva, fanno da contraltare scelte diverse, che per questo s'imprimono forse maggiormente, come l'inquadratura dalla cabina di pilotaggio del jet privato di ritorno dal Messico, o la lunga carrellata frontale in cabrio per le vie di Austin, che sfrutta una scia di semafori verdi, suggerendo una via libera verso il futuro finalmente priva di ostacoli.

Come in "Knight of Cups", il finale indica lo sbocco verso una libertà che permette di uscire dalle angustie dal labirinto mondano rappresentato dalla stessa struttura del film. Lì era Isabel, qui un cambio di contesto radicale rappresentato dal ritorno alla terra, a quei campi su cui germogliano pianticelle che daranno i loro frutti. Tanti i tormenti, altrettanti i sogni, in Malick. E particolarmente aperto al sogno appare "Song to Song". Se Cook è un demone negativo, la chiave positiva del film è rappresentata da Patti Smith nel ruolo di se stessa. Scostata e laterale rispetto alle vite dei personaggi, la "sacerdotessa del rock" è una presenza tutelare, numinosa e luminosa, che, alla fine, diventa un mentore per Faye. Le sue brevi parti di dialogo non sono state scritte: all'artista è stata lasciata libertà di improvvisare, col risultato di farne una voce "autentica" cui il carisma del personaggio reale conferisce una speciale veracità.

Malgrado la riconduzione ad unità del finale conferisca al film una struttura chiusa dotata di senso, non convince totalmente la saldatura che Malick ha fatto fra il contesto rock e l'esito finale, tutto sommato trito, del "ritorno alla terra". Il contesto rock costituisce una fonte di stimoli disparati, dove si passa dalla saggezza di Patti Smith all'eccesso inscenato da Val Kilmer: Malick si concentra tuttavia su tutto quel che sta intorno alla musica, e lo fa con lo stesso moralismo con cui dipingeva in "Knight of Cups" il jet set hollywoodiano. Qualunque contesto mondano si presta bene a rappresentare la mondanità: però da un lato è notevole il senso di déjà vu, dall'altro è la soluzione conclusiva ad apparire una scorciatoia un po' facile.

A quanto pare, il prossimo progetto di Malick, "Redegund", già in post-produzione, segnerà un cambio di registro: se è così, quella costituita da "To the wonder", "Knight of cups" e "Song to song" resterà una trilogia in cui ciascuno può scegliere quale ritenere i film più (o meno) riusciti. Quel che occorre riconoscere a Malick è la libertà creativa riversata in un unico flusso narrativo, e bisogna evitare di condannarne l'improvvisa prolificità: sarebbe infatti una prospettiva critica troppo superficiale quella di attendersi solo capolavori da un autore perché questi in passato ci aveva abituati soltanto a film di altissimo spessore, parcamente centellinati nel corso degli anni. L'urgenza espressiva di Malick è mutata, e occorre guardare i suoi ultimi film consapevoli che difficilmente costituiscono singolarmente un apice. Non per questo è meno interessante osservare di film in film i sommovimenti mercuriali di una poetica che non ha più voglia di racchiudersi entro i confini definitivi di una singola opera.



(1) Definizione di Giuseppe Gangi, recensione di "Knight of Cups".


08/05/2017

Cast e credits

cast:
Ryan Gosling, Rooney Mara, Michael Fassbender, Natalie Portman, Cate Blanchett, Patti Smith


regia:
Terrence Malick


distribuzione:
Lucky Red


durata:
129'


produzione:
Buckeye Pictures, Waypoint Entertainment, FilmNation Entertainment


sceneggiatura:
Terrence Malick


fotografia:
Emmanuel Lubezki


scenografie:
Jack Fisk


montaggio:
A.J. Edwards, Keith Fraase, Rehman Nizar Ali, Berdan, Hank Corwin


costumi:
Jacqueline West


Trama
A Austin, in Texas, si incrociano i destini di due aspiranti musicisti, Faye e BV, con quello del produttore musicale Cook, di una giovane cameriera e di altri personaggi. Tutti inseguono i loro sogni di gloria e felicità tra avventure, tradimenti e riconciliazioni.