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recensione di Giancarlo Usai
"Nessuno ha mai fatto buoni film in meno tempo e con meno denaro di Edgar G.Ulmer"
Peter Bogdanovich



La fantascienza sta vivendo, proprio in questi ultimi anni, un momento storico positivo. Offuscata da altri generi fra gli anni 90 e l'inizio del nuovo millennio, è invece tornata prepotentemente a farsi largo, a Hollywood e non solo, nelle recenti stagioni cinematografiche. Una buona notizia, a prescindere dalla bontà o meno delle pellicole considerate singolarmente. Perché la fantascienza è un genere che, come pochi altri, stimola la fantasia, l'ingegno, la predisposizione dello spettatore all'apertura verso ciò che è diverso. E poi, va detto, a differenza di horror e thriller, è un genere che non può contare esclusivamente sull'efficacia immediata della violenza visiva. Da Christopher Nolan a Denis Villeneuve, tutti i giovani cineasti che si sono cimentati con essa recentemente hanno sfidato i canoni tradizionali della narrazione, non nascondendo la legittima ambizione per "usare" il genere per una propria rappresentazione di una personale concezione del mondo e dell'arte.
Eppure, nel 1951, con poco più di cinquantamila dollari a disposizione e soltanto con sei giorni di riprese all'attivo, c'era già chi elevava il cinema fantascientifico al rango di riflessione filosofica, di grimaldello culturale nei confronti dello spettatore, di cui veniva ovviamente stimolata anche la sensibilità intellettuale. E non stiamo parlando di uno dei soliti autori pluricelebrati e osannati universalmente. No, parliamo di Edgar G. Ulmer, austriaco di nascita e trapiantato negli Stati Uniti dove riuscì a imporsi come il re delle produzioni a basso costo. Fra queste, c'è appunto "The Man from Planet X", opera capitale nella sua carriera e nel percorso di creazione di un universo della fantascienza americana che sarà poi la stella polare di grandi e piccoli autori nei decenni a venire.


Fantascienza come dibattito sulle difficoltà del comprendersi

La decisione di riconoscerne lo status di pietra miliare è dovuto proprio alla sua capacità di andare al di là della barriera del tempo. Prendete un film come "Arrival": un apologo sul nesso fra linguaggio, comunicazione e convivenza. Più di sessant'anni prima era la stessa solida base su cui poggiava il film di Ulmer. Nella brughiera scozzese, un vecchio scienziato appassionato di misteri spaziali studia e lavora alacremente alla previsione di un evento eccezionale: un pianeta sconosciuto arriverà vicinissimo alla Terra per cause da accertare. Insieme a lui, l'adorata figliola, il dottor Mears, studioso senza scrupoli e con tanta voglia di arricchirsi grazie alla conoscenza scientifica. E arriva anche John Lawrence, un giornalista americano con il compito di fare luce sugli studi del professore e sui reali rischi di ciò che vorrebbero accertare.
A un certo punto compare sulla scena un omino proveniente proprio dal pianeta X, che prima dimostra intenzioni amichevoli, ma dopo essere stato aggredito da Mears mette in scena un diabolico e stupefacente piano di ipnosi di tutta la cittadinanza per spingere gli esseri umani ad asservirsi a lui, in previsione di un'invasione dei suoi simili.


Il re dei b movie

Ulmer lavorò con pochi mezzi e scarse risorse, come quasi sempre d'altronde. Leggendario resta l'utilizzo delle scenografie del "Giovanna d'Arco" di Victor Fleming, riciclate e camuffate con l'utilizzo di abbondante nebbia "da brughiera". La capacità fondamentale del cineasta austriaco era quella di saper inventare la materia che si trovava a maneggiare. Data una sceneggiatura approssimativa, un gruppo di interpreti di secondo piano, pochi soldi con cui imbastire il lavoro sul set, Ulmer riusciva a tirare fuori prodigi da vero prestigiatore. Pensatore infaticabile, sfruttava densamente il poco minutaggio di cui si avvaleva per ammantare di tensione spasmodica la vicenda elementare che andava a raccontare, arricchendola, però, di tutta una serie di sperimentazioni narrative, di artifici tecnici e linguistici che facevano del film qualcosa di più di un semplice "buon prodotto di serie b". "The Man from Planet X" prosegue, infatti, il percorso cinematografico di Ulmer nel solco della "descrizione delle minoranze". Così come a cavallo fra gli anni 30 e 40 aveva fatto occupandosi di diverse etnie emarginate da Hollywood (dai latini agli afroamericani, fino agli emigranti dall'Europa dell'Est), con il suo capolavoro della fantascienza il regista ribalta completamente la tradizione del genere.
Come è stato detto degnamente altrove, l'alieno muto e piccolino che arriva sulla Terra da un mondo ignoto agli umani è quasi il portatore di una tristezza cosmica senza confini. È un piccolo essere debole e indifeso, incapace di comunicare, di spiegare, di vincere la diversità fisica e culturale che lo tiene lontano dalla generale accettazione. Fino agli albori degli anni 50, la fantascienza insisteva nel vedere l'extraterrestre come il mostruoso nemico da sconfiggere, l'elemento di terrore che sconvolgeva gli equilibri. Si è soliti, distrattamente, far risalire alla seconda metà degli anni 70 il periodo durante il quale la canonica tradizione fantascientifica del cinema americano viene poi ribaltata. Ma vent'anni prima di John Carpenter e di Steven Spielberg, ci fu Ulmer, appunto, a mettere in scena un alieno vittima e non carnefice, sventurato soggetto isolato in balìa della diffidenza e del pregiudizio terrestre.


Un manifesto di libertà espressiva

Montato a ritmo frenetico e musicato da Charles Koff con l'abilità di chi sapeva che la pellicola necessitasse di un tappeto sonoro costante, "The Man from Planet X" rivisita contemporanemente le regole del genere fantascienza ma anche il classico concetto di b movie. La scelta di Ulmer di lavorare con pochi soldi e in poco tempo non era una strategia professionale, alla stregua di chi sceglieva il cinema "di seconda fascia" per sbarcare il lunario, incassare a sufficienza e magari pensare a girare il film dei sogni in un secondo momento. Per Ulmer era molto di più: era una scelta di vita e di arte. Considerando i paletti posti dalle major, con cui pure si era confrontato al suo arrivo in America per diversi titoli, lavorare senza pretese finanziarie era la soluzione migliore per poter fare ciò che voleva e nel modo in cui credeva.
Senza i sei giorni di riprese e il budget di poche decine di migliaia di dollari, "The Man from Planet X" sarebbe stata l'ennesima opera industriale che sfruttava la fascinazione per lo spazio e per la scienza per attrarre annoiati spettatori al cinema. In questo modo, invece, tutto era possibile: dalla rivoluzione degli stereotipi del genere all'uso smodato del registro ironico. Va appunto sottolineato che Ulmer era davvero un istrione che sapeva ridere di sé, della sua condizione di artigiano "povero" e del suo tipo di approccio al cinema. E quest'autoironia la ritroviamo anche nel suo film e nelle mosse, soprattutto, del suo protagonista Lawrence, l'unico capace di alleggerire l'insostenibile tensione dei momenti più drammatici con inaspettate battute irriverenti e dissacranti.


L'alieno antenato di E.T.

In settanta minuti di ritmo forsennato e svolte narrative inaspettate, Ulmer compie il miracolo (per altro riuscitogli anche in altre occasioni): con poche risorse riesce a girare un film complicato, con riflessioni nascoste nelle pieghe di dettagli, siano essi visivi o tematici. Prendete la figura stessa dell'innominato alieno: piccolo, indifeso, quasi tenero nelle sue movenze. Ne viene esaltata la prodigiosa conoscenza scientifica e matematica, tanto che la geometria diventa l'unico linguaggio universale con cui è in grado di comprendere che cosa gli vogliano dire gli uomini. Egli viene rappresentato, dietro l'ingombrante casco, con una sorta di maschera africana inespressiva, con un trattino nero al posto della bocca e piccole fessure come occhi. Torniamo qui all'idea neanche tanto taciuta di un cinema delle minoranze, dei diversi, di chi soffre dell'emerginazione e della solitudine assoluta. Ulmer ne fa una questione universale, ben prima di "E.T." o di "Starman". Al suo alieno non è concessa neanche la legittima difesa, alla fine.
Troppe volte definito sbrigativamente un film di atmosfera, come spesso si liquidano le opere di questi grandi maestri del passato che, per primi, si cimentarono con il cinema di genere, "The Man from Planet X" è per tutti i motivi di cui sopra molto di più di un affascinante oggetto misterioso fatto di nebbia, gestione magnifica dello spazio scenico ed effetti visivi e sonori geniali per l'epoca. È proprio la libertà espressiva di Ulmer a renderlo un oggetto prezioso. Libertà che si esplica nella riscrittura delle regole, come si diceva, ma anche più banalmente nella descrizione dei personaggi, delle loro caratteristiche di fondo. Ad esempio, la relazione sentimentale fra Lawrence e la figlia del professor Elliot è solo accennata, Ulmer non è realmente interessato. Come la dinamica del triangolo amoroso che coinvolge il dottor Mears, o come le stesse pulsioni irrazionali della cittadinanza del piccolo centro scozzese; sono tutti indizi lasciati sul cammino. L'autore è proprio sull'alieno e sulla sua diversità che concentra la sua pietosa attenzione.
Mai distribuito al cinema in Italia, rilanciato anni dopo a livello internazionale grazie anche alla spinta di personaggi come Peter Bogdanovich e Francois Truffaut (quest'ultimo addirittura scrisse che il cinema di Ulmer gli aveva dato l'ispirazione per "Jules e Jim"!), "The Man from Planet X" è il titolo che non può mancare fra le visioni di chi si considera un amante della fantascienza, o del cinema americano, o dell'epoca d'oro degli anni 50. Un talento cristallino come Joe Dante lo definì esplicitamente un film imprescindibile per chi avrebbe voluto diventare un regista di pellicole di genere. Per chi ha ispirato nel cuore e nella mente di chi lo ha seguito così tante pietre miliari della storia del cinema, considerare pietra miliare la sua stessa fatica dietro la macchina da presa era il minimo da farsi per omaggiarne la grandezza e, soprattutto, la lungimiranza.

18/04/2017

Cast e credits

cast:
Robert Clarke, Margaret Field, Raymond Bond, William Schallert, Roy Engel


regia:
Edgar G. Ulmer


titolo originale:
The Man from Planet X


durata:
70'


produzione:
United Artists


sceneggiatura:
Aubrey Wisberg, Jack Pollexfen


fotografia:
John L. Russell


montaggio:
Fred R. Feitshans Jr.


musiche:
Charles Koff


Trama
Una nave spaziale proveniente da un pianeta sconosciuto atterra nella brughiera scozzese, portando a terra una creatura aliena presso l'osservatorio del professor Elliot, pochi giorni prima che il pianeta passi vicino alla Terra. Quando il professore e un suo amico, il giornalista statunitense John Lawrence, scoprono la creatura, l'aiutano quando è in difficoltà e cercano di comunicare con essa, ma senza successo. Quando se ne vanno, l'alieno li segue fino a casa. Un collega del professore, l'ambizioso scienziato senza scrupoli dott. Mears, scopre come comunicare con la creatura e cerca di estorcerle con la forza la formula del metallo con cui è costruita l'astronave. Egli spegne l'apparato respiratore dell'alieno e lo lascia per morto, dicendo al professor Elliot che la comunicazione era senza speranze...