Ondacinema

recensione di Eugenio Radin
6.5/10
Nel 1994 il mondo del pattinaggio artistico venne travolto da uno scandalo, che godette di un'eco mediatica internazionale: all'indomani dei giochi olimpici invernali, la giovane promessa americana Nancy Kerrigan fu aggredita durante un allenamento: un uomo si avvicinò alla pattinatrice colpendola violentemente al ginocchio con una sbarra di ferro e costringendola così a un ritiro momentaneo che le precluse però le gare. Dall'indagine risultò che il mandante dell'aggressione era stato Jeff Gillooly, ex marito di un'altra grande stella del pattinaggio: Tonya Harving appunto, la cui implicazione nell'episodio non fu però mai del tutto chiarita.
Il regista Craig Gillespie, nel riprendere le vicende di Tonya e nel portarle sul grande schermo, nutre tuttavia aspirazioni ben più alte di chi vuole semplicemente rievocare uno scandalo sportivo o un episodio biografico. Uno dei finti filmini amatoriali in 4:3 che aprono la visione del film ci rivela la chiave di lettura dell'intera vicenda: "Tonya was totaly american!", sostiene uno degli intervistati: la storia di Tonya non è che una sineddoche della storia americana, una storia che racconta il riscatto, la volontà di spiccare, di inseguire il grande sogno a stelle e strisce, ma anche e soprattutto una storia che, scorsesianamente, si fonda, si sviluppa e si conclude nella violenza.

La brutalità dell'America è la vera protagonista del film, della quale Tonya non è che una marionetta: la sua vita è costruita sulle violenze: la violenza psicologica e fisica di una madre alcolizzata (Allison Janney in quella che è probabilmente la sua migliore performance) che vede nella figlia l'occasione della propria rivalsa, un modo per vendicarsi di una vita che non è stata capace di darle nulla e che disprezza; la violenza domestica di un marito dispotico e squilibrato; ma anche la violenza del mondo delle piste da pattinaggio e dello spettacolo, dove persino la più dolorosa ferita interiore deve essere nascosta da un sorriso smagliante. Non stupisce che, una volta espulsa dal mondo del pattinaggio artistico, Tonya si sia data alla box: "Violence was always what I knew, anyway", spiega la protagonista: "la violenza era ciò che avevo sempre conosciuto". A ciò si affianca una piccola ma incisiva riflessione sulla deresponsabilizzazione che investe l'Occidente contemporaneo, un'ammissione di innocenza più volte sostenuta, ma che lascia le mani ugualmente sporche di sangue.

Il cineasta australiano dimostra di aver imparato la lezione di Scorsese, rivestendo la pellicola di una poetica già vista dallo spettatore in molti dei suoi film, da "Toro Scatenato" a "The Wolf of Wall Street": l'immedesimazione nella vicenda narrata è evitata a ogni costo e, al contrario, abbondano i meccanismi di estraniazione, dalla voce narrante che spezzetta la narrazione in una lunga serie di flashback, all'utilizzo di ralenti, split-screen, sguardi in macchina, fino allo sfondamento totale della quarta parete, al rivolgersi direttamente dei personaggi al pubblico.
Una logica questa che, tra le produzioni recenti, oltre a Scorsese può rimandare anche all'esperimento de "La grande scommessa", probabilmente uno dei riferimenti più immediati del film, dove la narrazione era più volte interrotta dall'aprirsi del mondo diegetico a quello extradiegetico e da una serie di spiegazioni dei termini economici specifici lì introdotti, spiegazioni che qui sono sostituite da quelle dei filmini amatoriali che spezzettano il fluire della narrazione.

Questo, a ben vedere, è allo stesso tempo l'aspetto più interessante del film e quello più problematico. La pellicola dimostra infatti una certa fatica nel trovare una propria originalità, un proprio marchio personale, un proprio posto riservato, e rischia di finire presto a far parte della lunga fila di epigoni e di "figli di", di cui già il cinema contemporaneo abbonda. Complessivamente, questo "Tonya" risulta essere dunque un prodotto che certamente intrattiene, ma che si costruisce su regole prefissate da altri e niente affatto personali.
Tolte le reminiscenze scorsesiane e gli altri elementi presi in prestito da quella succitata tradizione cinematografica in cui il film si inserisce, rimane però alla pellicola di Gillespie un ultimo elemento su cui contare, ovvero le ottime performance non solo di Allison Janney (la cui interpretazione le è valsa l'Oscar come miglior attrice non protagonista, meritatamente), ma anche di Margot Robbie, la quale, pur riciclando in parte la vena di follia sensuale della sua Harley Quinn, compie un encomiabile lavoro sulla propria espressività, rendendo appieno il ruolo di chi sta in bilico tra la fame di successo e il dolore della sconfitta.

13/03/2018

Cast e credits

cast:
Margot Robbie, Sebastian Stan, Allison Janney, Julianne Nicholson, Paul Walter Hauser, Bobby Cannavale, Caitlin Carver, Bojana Novakovic, Mckenna Grace


regia:
Craig Gillespie


titolo originale:
I, Tonya


distribuzione:
Lucky Red


durata:
121'


produzione:
LuckyChap Entertainment, Clubhouse Pictures


sceneggiatura:
Steven Rogers


fotografia:
Nicolas Karakatsanis


scenografie:
Jade Healy


montaggio:
John Axelrad, Lee Haugen


musiche:
Tatiana S. Riegel


Trama
Il film racconta le vicende di Tonya Harding, campionessa del pattinaggio statunitense dietro al successo della quale si nascondeva una tormentata vita personale. Nel 1994 la Harding venne addirittura coinvolta in uno scandalo sportivo e accusata di aver architettato l'aggressione ai danni di Nancy Kerrigan, altra promessa del pattinaggio e sua diretta rivale.