Ondacinema

recensione di Rudi Capra
7.0/10

un altro giro

Cos’è la gioventù?
Un sogno.
Cos’è l’amore?
Il contenuto del sogno.

S. Kierkegaard, Aut-aut


"Un altro giro" apre con una citazione di Søren Kierkegaard, il filosofo dell’angoscia (Angst), emozione descritta come uno "stordimento di libertà" (Il concetto dell’angoscia, §2) in quanto sorge dalla inquietante consapevolezza di poter scegliere cosa fare di sé. L’angoscia infatti non è paura di qualcosa ma paura di niente, e questo niente coincide con la vertiginosa infinitezza di esistenze possibili che si offrono a ogni persona in ogni momento. Avere possibilità infinite significa non avere ancora scelto, e nel perpetuarsi di tale non-scelta si manifesta la virtù paralizzante dell’angoscia. In questa gelida vertigine, Vinterberg coglie due generazioni di personaggi: gli studenti in odore di maturità, sui quali incombe la doppia angoscia degli esami e della vita adulta; e i loro professori, che adulti lo sono già e perciò contemplano l’angoscia rivolti all’indietro, quello sbarbariano "rimorso che sta in fondo ad ogni vita, d’averla inutilmente spesa".

La narrazione si focalizza sui quattro professori, tutti volti noti del cinema di Vinterberg – Thomas Bo Larsen, Lars Ranthe, Magnus Millang, Mads Mikkelsen. Ciascuno infelice a modo suo, a causa di matrimoni opprimenti, naufragati, mancanza di autostima o banali solitudini. Decidono di verificare empiricamente la teoria di Finn Skårderud, psichiatra e terapeuta norvegese: "gli esseri umani nascono con un livello di alcol troppo basso dello 0,05%". L’esperimento, nato come un regime di alcolismo moderato, si trasforma presto in un bere compulsivo (in danese, druk – il titolo originale). Ma è chiaro fin dal principio che l’alcol funge da autentico pharmakon: medicina, veleno e capro espiatorio, come implicato dalla polisemia del termine greco originario. Dramma sulla gioventù e l’amicizia virile, screziato di una velata (ma neanche troppo) sfumatura di misoginia, "Un altro giro" si racconta mediante un coro affiatato in cui spicca, per presenza e talento, un Mikkelsen esplosivo e ialino, forse alla miglior prova in carriera (parimerito con "Il sospetto", sempre Vinterberg, 2012).

Quello di Vinterberg si conferma insomma un cinema del gesto, a partire dall’iniziale prossemica lasciva, arrendevole, degli uomini seduti in basso, reclinati contro il muro, oziosi nelle aule, nelle palestre, circondati, inermi. In un realismo prosaico tratteggiato rigorosamente a mano libera, i personaggi sono assorbiti dai colori spenti di salotti e pub, aggrediti dal chiarore diffuso di aule e cortili. Insomma patiscono già nell'imprimatura fotografica vellutata e minerale (come vodka) la relazione chiasmatica che separa persona privata e persona pubblica. L’alcol fornisce allora un terzo termine che attraverso il delirio estatico (sempre bene ricordare che l’estasi è ek-stasis, "esser fuori di sé") permette di sottrarsi al giogo delle varie maschere per rinegoziare la propria identità, e insieme a essa le relazioni che la determinano. Tuttavia, oltrepassare un limite implica il rischio di perdersi in un orizzonte senza limiti; quando libertà e smarrimento coincidono ci troviamo nel regno dell’angoscia, che è appunto l'argomento dell'esame di fine anno. Il testo di Kierkegaard invita ad "accettare sé stessi in quanto fallibili, per imparare ad amare gli altri e la vita", lezione che non tutti, purtroppo, arrivano a comprendere.

Benché la diegesi sia in questo senso didascalica, Vinterberg non manca di alleggerire il tessuto audiovisivo con inserti ironici meta-testuali: footage di capi di stato e politici ubriachi, videate nere marcate dalla gradazione alcolica, giustapposizione antitetica di Čajkovskij, Scarlatti, Schubert con scene di ciucche indecorose, brusche coupure sonore e di montaggio. Ulteriore omaggio a Kierkegaard, che è anche il filosofo dell’ironia. Ma ancora più dello stile di Kierkegaard, è il movimento della danza che detta spazi e tempi della diegesi. Gli studenti in apertura e i professori in medias res performano danze di evasione, atte a eludere la pressione degli esami – quelli accademici, quelli della vita. Al contrario, l’epilogo inscena una collettiva danza di espressione, pura estasi di corpo e mente, pura sintesi di sofferenza e del suo superamento, in una gioiosa celebrazione della vita insieme alle sue amarezze, le sue tribolazioni. Il finale, apice di un climax innalzato lungo l’arco del film, chiaramente ispirato a "Beau travail", girotondo felliniano destrutturato, è uno dei più memorabili e appaganti degli ultimi anni.

Tutto sommato, questo bildungsfilm esistenzialista che alterna maliziosamente ironia e didascalia non è esente da difetti, è lontano dalla perfezione, ma esemplifica fedelmente quel celebre assunto di Cechov per cui "L’arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna". Vinterberg l’ha infatti dedicato alla figlia Ida, musa ispiratrice del soggetto, morta in un incidente d’auto. In questo senso "Un altro giro" si configura, anche e soprattutto a livello extra-filmico, come una lucida testimonianza del potere catartico e redentivo dell’arte, della possibilità di rinvenire, nell’orrore, persino la bellezza. What a beautiful, beautiful ride…


15/03/2021

Cast e credits

cast:
Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Lars Ranthe, Magnus Millang, Maria Bonnevie, Susse Wold


regia:
Thomas Vinterberg


titolo originale:
Druk


distribuzione:
Movies Inspired


durata:
117'


produzione:
Zentropa Entertainments, Film i Väst, Zentropa Sweden, Topkapi Films, Zentropa Netherlands


sceneggiatura:
Tobias Lindholm, Thomas Vinterberg


fotografia:
Sturla Brandth Grøvlen


scenografie:
Sabine Hviid


montaggio:
Janus Billeskov Jansen, Anne Østerud


costumi:
Ellen Lens, Manon Rasmussen


musiche:
Janus Billeskov Jansen


Trama
Quattro professori testano la teoria di Skårderud: gli esseri umani nascono con un livello alcolemico troppo basso