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recensione di Alessandro Viale

 Uno degli scherzi dell'antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell'uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi.

Guido Morselli, "Dissipatio H.G."

 

 

Poi vidi, quando l'Agnello ebbe aperto l'uno de' sette suggelli.

Il titolo originale del film doveva essere "Uccidi Hitler". Ma per una serie di motivi, anche politici, Klimov non poté usare quel titolo, allora trovò ispirazione dall'Apocalisse di Giovanni, infatti nei versetti 6,1-3-5-7 (della Bibbia edizione Diodati) troviamo il passaggio: "Poi vidi, quando l'Agnello ebbe aperto l'uno de' sette suggelli; ed io udii uno de' quattro animali, che diceva, a guisa che fosse stata la voce d'un tuono: Vieni, e vedi. E quando egli ebbe aperto il secondo suggello, io udii il secondo animale, che diceva: Vieni, e vedi. E quando egli ebbe aperto il terzo suggello, io udii il terzo animale, che diceva: Vieni, e vedi. Ed io vidi, ed ecco un caval morello; e colui che lo cavalcava avea una bilancia in mano. E quando egli ebbe aperto il quarto suggello, io udii la voce del quarto animale che diceva: Vieni, e vedi".

Un titolo certamente più suggestivo e anche poetico, dove si lascia spazio a una visione più alta. Sebbene il celebre finale, così spietato (ma, come vedremo, in parte anche lievemente fuori fuoco), fa capire meglio il perché del primo titolo scelto. Klimov non poteva scegliere migliore alternativa per darci una delle chiavi di lettura al film. Infatti, all’apertura dei sigilli, nel Libro della Rivelazione, seguono l'invio della serie dei flagelli, con i quattro cavalieri dell'Apocalisse, e i sette suoni di tromba. Un flagello che viene citato subito dopo il quarto sigillo: "E io vidi, ed ecco un cavallo giallastro; e colui che lo cavalcava aveva nome la Morte, e dietro ad essa veniva l'Ades. E fu loro data potestà sulla quarta parte della terra, per uccidere con la spada, con la fame, con la morte e mediante le fiere della terra".

"Va' e vedi" è l’ultimo film di Klimov (morì 18 anni dopo e nel frattempo svolse il ruolo di primo segretario dell’Unione dei cineasti russi, permettendo la distribuzione di numerosi film bloccati dalla censura). Il regista dichiarò perentorio nel 2000 al Guardian: "I've lost interest in making films. Everything that was possible I felt I had already done. I think of lines written by Andrei Platonov to his wife, Toward the impossible our souls fly"1. Al di là della sua scelta così forte, difficile non essere d'accordo con il fatto che tutto quel che era da fare era stato fatto.


Il cavallo giallastro, la Morte e l'Ades, la spada, la fame, le fiere.

"Che fate, siete impazziti del tutto?". Con queste parole si apre il film, per darne il senso, con un'inquadratura di una nuca ciondolante, in primo piano con un uno sfondo sabbioso. L'anziano di spalle si volta e continua con gli improperi, sempre occupando buona parte dell'inquadratura (il film è girato in 1.37:1, o 11:8, il cosiddetto Academy Ratio). Si passa poi in sequenza a un’inquadratura a figura intera, con carrello, un campo lungo, un campo lunghissimo, per tornare a una figura intera e un nuovo primo piano di un ragazzino. In meno di un minuto si riassume buona parte del linguaggio del film. Un costante e asfissiante avvicinarsi e allontanarsi dai personaggi. All'inizio viene mostrato un "gioco" di ragazzini, alla ricerca di armi nascoste per poter arruolarsi con i partigiani.

Siamo in Bielorussia ed è il 1943. La guerra è in corso e i nazisti stanno facendo razzie (distrussero, devastarono e bruciarono più di 600 villaggi in quella zona). I partigiani resistono, a modo loro. "Va' e vedi" racconta il viaggio allucinato negli orrori della guerra di Flyora (Florian) Gaishun, un inferno senza speranza alcuna, nella tipica struttura dell’anabasi. Florian vive in povertà con la madre e le due sorelle, unico uomo di casa decide comunque di abbandonare la propria famiglia per unirsi ai partigiani. Nelle brigate nascoste nella foresta viene usato, a causa della sua inesperienza, per i lavori di corvé. Qui conosce Glasha, sua compagna di viaggio nel delirio. I due infatti vengono abbandonati dai partigiani, e iniziano un gioco simile al corteggiamento (la fine del silenzio del film, fino a qui quasi privo di suoni extradiegetici, considerando il canto di sottofondo della scena della foto un "gioco" che parte dal suono della fisarmonica in campo e i titoli di testa come parte a sé stante) prima di essere vittime di un bombardamento aereo. Lo scoppio delle bombe trasforma il silente sfondo sonoro in un costante acufene, prima come fischio diegetico, e poi a seguire come un crescendo costante. Tanto che alla fine del film pare che sia il suono a riempire ogni singola inquadratura, a essere concausa dell’angoscia straziante che pervade il tutto. È una musica filtrata, a opera di Oleg Grigor'evič Jančenko, in cui si mischiano brani originali, suoni della natura e brani destrutturati di Mozart. Una messa da requiem contemporanea e ossessiva che parte dalle immagini per impastarsi con essa. In tal senso è esemplare la sequenza nella palude: dopo essere tornati al proprio villaggio Florian e Glasha vedono (ma fanno finta di non vedere) i corpi trucidati dei compaesani e, in preda alla follia, si buttano in un lago fangoso rimanendovi impantanati. I movimenti dei due, sempre più appesantiti e doloranti, diventano una sorta di corpo unico, misto a fango, misto a suoni. In un’immagine così densa (densa è la materia in cui cercano di avanzare) e strabordante, tanto da diventare quasi insopportabile. Metafora potente e capace di mettere in scena ciò che non è rappresentabile.

 

"Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l'orrore". 

Il film parte da un soggetto di Ales Adamovich, sviluppato in sceneggiatura dallo stesso con Elem Klimov. È Klimov stesso a dire in più interviste quanto di personale ci sia negli episodi raccontati: "Sono stato all'inferno quando ero bambino; la città era avvolta in fiamme che arrivavano fino al cielo. Bruciava anche il fiume, perché i bombardamenti tedeschi avevano bruciato qualcosa che trasportava petrolio. Era notte, le bombe esplodevano e le madri coprivano i figli con le lenzuola che avevano e poi si sdraiavano sopra di loro"2. E ancora "[…] Era un qualche tipo di riflesso di come sentivo le mie emozioni durante la guerra. O, si potrebbe dire, della mia infanzia in tempo di guerra. Perché quando la guerra iniziò avevo solo otto anni. Sono nato e cresciuto a Stalingrado, perciò molti dei miei amici e conoscenti, come me, hanno vissuto tempi davvero duri. Dovevamo lavorare molto, sentivamo la sofferenza umana. Questi erano i miei ricordi di guerra, ricordi che resteranno sempre con me e sono sicuro che, in un modo o nell'altro, sono riflessi nel film ’Va' e Vedi’"3.

Insisto su questi due passaggi di proposito, perché l'orrore mostrato è dunque quello vissuto, già guardato con gli occhi di bambino. Non è l'orrore "metafisico" del colonello Kurtz di Coppola quello a cui si fa riferimento, bensì a un fatto tanto concreto quanto, quasi, infilmabile. E al ricordo, all'elaborazione, si aggiunge lo stato di lutto che pervadeva Klimov ai tempi; infatti da pochi anni era morta la moglie del regista, la adorata Larisa Efimovna Šepit'ko (regista, tra gli altri, de "L'ascesa" e de "L'addio" terminato nel 1983 da Klimov).
Dunque, è da interpretare in tal senso l'accumulo costante e sfinente di mostruosità messe in scena attraverso il linguaggio proprio del cinema. Infatti, Klimov prima di tutto emerge come grandissimo regista nella direzione degli attori, molti non protagonisti. Aleksei Kravchenko, il protagonista, è perfetto nella parte del ragazzo allucinato. Per preparare il giovane, Klimov lo fece lavorare con un ipnoterapista: "Capii che dovevo iniettargli dei contenuti che non aveva di per se stesso. Questa è un'età in cui un ragazzo non sa cosa sia il vero terrore, cosa sia il vero amore" dirà il regista in un'intervista al New York Times. Ed è forte l'impressione che il giovane attore faccia emergere dal proprio inconscio un dolore che viene non dal vissuto, ma da qualcosa di più profondo, attraverso lo sguardo agghiacciante e perduto oltre la macchina da presa negli intensi e frequenti i primi piani del film.

Le scelte stilistiche sono forti, abbiamo già accennato all'incipit che tornerà (nella forma) durante tutto il film: primi e primissimi piani alternati a figure intere, campi lunghi e lunghissimi come a voler dare uno sguardo onnisciente: da storico e da entomologo allo stesso tempo. Come se le due parti fossero un tutt’uno. Una questione privata immersa in un immenso mare in tempesta. E il flusso, perché no, picaresco della vicenda narrata viene reso in immagini da complessi long take girati spesso con camera car o steadycam. Moltissime le sequenze degne di nota e che rimangono impresse nella memoria. Ci limitiamo a segnalarne due. La prima è l’arrivo dei nazisti nel villaggio, dove il montaggio sembra esaltare i movimenti della macchina da presa, che usano linee direttrici che convergono inesorabilmente verso il fienile (questa sequenza riporta alla memoria alcune immagini di "Underground" di Emir Kusturica uscito dieci anni dopo).
La seconda è la marcia finale nei boschi: superbo commiato al corpo partigiano. Senza retorica alcuna il sentimento è guidato attraverso gli alberi; seguendo dapprima gli uomini e poi scartando di lato, lasciandoli passare di lontano, oltre i tronchi, per poi riprenderli nuovamente da dietro e in ultima istanza lasciarli andare, liberi. Voltando poi verso l'alto in un estremo saluto.
Va citato a questo punto per il suo straordinario apporto il direttore della fotografia Aleksei Rodionov, che già aveva collaborato con Klimov ne "L'addio" e che lavorerà in seguito in alcuni progetti di Sally Potter. L'immagine, i quadri, gli obiettivi usati e i già citati movimenti di macchina sono il contraltare, la forma sublime per un osceno contenuto. Ma attenzione, non stiamo pensando alla tecnica fine a se stessa, alla ricerca ostentata di immagini "carine". L'immagine deve essere perfetta per farsi carico di un'emotività così travolgente, per poter sostenere il peso di insopportabile dolore. Non c'è leziosità, insomma. Non può essercene in un'opera d'arte.


L'immagine in eccesso.

Il film è stato accusato di propaganda e di essere antitedesco, abbastanza scioccamente vien da pensare, perché è evidente che si tratti di un film fortemente antifascista e contro la guerra, ma non c'è alcuno sforzo di esaltare alcunché dall'altra parte. Anzi, gli episodi narrati sono talmente minimi che si fa fatica a farne un discorso propagandistico. Come nel raccontare il furto della mucca, che riecheggia episodi fenogliani, di guerre fra poveri diavoli che cercano di sopravvivere a qualcosa che li sovrasta. E il discorso di Klimov è rivolto all'Uomo e a ciò che può diventare se spinto agli estremi: "Come scrisse una volta Dostoevski: "L'essere umano è la bestia dentro di te che tu affronti, mentre lei affronta te". In alcune circostanze un essere umano può scoprire delle cose orribili all'interno di sé, ovvero che lui, come uomo, può scendere davvero in basso. Questo è quello che ho provato a ritrarre in ‘Va’ e Vedi’. Per questo abbiamo voluto mostrare nel film un uomo vicino, e a volte anche oltre, i suoi limiti. Mostrare soltanto che cos'è l’essere umano. E questo fine - queste questioni ultime – è il più importante nel mondo dell’arte".

E tutta la costruzione del film, che avanza come una sinusoidale, porta a un finale che sarebbe perfetto non fosse per l’uso delle immagini di repertorio. Non si può infatti non sottolineare la pesante estraneità delle rapide ma superflue scene documentarie appiccicate come sorta di giustificazione dopo il massacro vendicativo finale. Sembra che il regista abbia sentito il dovere di giustificare il gesto dei partigiani, come se già non fosse chiaro da che parte bisogna stare. Immagini violentemente reali, che in qualche modo depotenziano ogni possibilità di linguaggio cinematografico. Verrebbe da pensare a un’ingenuità di Klimov, per quanto possa sembrare incredibile. Un discorso troppo elementare e mal riuscito. Di altra natura invece il successivo montaggio che alterna fiction e documentazione del reale. Perché lì si palesa un concetto, ben più alto. Nel suono deflagrante del fucile del giovane Florya (da notare che sono i suoi primi colpi esplosi) riverbera tutta la rabbia, l'impotenza, il dolore di un uomo, non ancora uomo, che comprende l'ineluttabilità dell’orrore. Gli occhi di Florya incrociano gli occhi di Hitler bambino, tutto è già successo e non si può più tornare indietro.


1 Fonte: theguardian.com
2 Fonte: nytime.com
3 Fonte: openjournals.uwaterloo.ca

 


20/02/2020

Cast e credits

cast:
Aleksey Kravchenko, Olga Mironova, Liubomiras Laucevicius


regia:
Elem Klimov


titolo originale:
Idi i smotri


durata:
145'


sceneggiatura:
Ales Adamovich, Elem Klimov


fotografia:
Aleksey Rodionov


montaggio:
Valeriya Belova


musiche:
Oleg Yanchenko


Trama
Bielorussia, 1943. Florian vive in povertà con la madre e le due sorelle, unico uomo di casa decide comunque di abbandonare la propria famiglia per unirsi ai partigiani. Nella foresta conosce Glasha, sua compagna di viaggio nel delirio della guerra. Un viaggio allucinato fra torture e violenze inaudite alla ricerca di un senso del vivere.