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recensione di Lorenzo Taddei
7.5/10
"Al citofono dissi di essere Andrea" è l'unica volta in cui nel romanzo compare il nome del protagonista e narratore. Ma Andrea è un nome d'arte, così come Aldo Nove. Il vero nome di Aldo Nove è Antonio Centanin, "Aldo 26 x 1" è il messaggio che diede il via alla rivolta partigiana di Torino (il 26 aprile 1945, all'una di notte) contro i nazisti. Nove è la somma delle cifre riportate nel messaggio. Non sappiamo invece quale sia il vero nome di Andrea, perché un nome non ha importanza, nei momenti in cui la vita - che è pure morte - prende il sopravvento sull'organizzazione della vita stessa, sulle convenzioni sociali. Niente come il dolore può indurre al desiderio di eliminare gli orpelli e distruggere tutto quanto ci è stato cucito addosso, così ben cucito che si finisce per distruggere anche se stessi. Eppure succede che una parte dell'essere resiste, come un reparto di emergenza che hai il compito di preservare l'individuo prima ancora che la specie, un reparto che sia fatto di cellule, neuroni, chimica, spirito non importa, il suo compito è salvarci e riportarci alla luce.

"La vita oscena", pubblicato da Einaudi nel 2010, è uno dei romanzi più belli di Aldo Nove e forse il più poetico, una prosa poetica che unisce i versi di Aldo Nove a quelli di Whitman e Trakl (che è il poeta preferito da Andrea).
Da alcuni è stato definito un moderno romanzo di formazione, Renato De Maria invece parla di una storia drammatica e visionaria, "una sorta di odissea pop" che lo ha attratto e quasi obbligato a farne un film. Il regista scrive con Aldo Nove la sceneggiatura e affida la direzione della fotografia a Daniele Ciprì. Considerato il trio di autori che ha generato questo film, le aspettative erano alte e pienamente rispettate.

La scena di apertura introduce all'inferno personale del protagonista (Clement Metayer) che fuma steso sul pavimento, su cui è tracciata la sagoma di un cadavere, che ancora non possiamo immaginare di cosa sia fatta.
Le prime parole del film invece riprendono l'incipit del capitolo quarto del romanzo, dedicato alla madre (Isabella Ferrari): "Mia madre portava delle lunghe vesti a disegni floreali. Era un personaggio, nel paese in cui abitavamo. La chiamavano l'indiana. Per me l'India da bambino era quella raffigurata sulle bustine delle spezie per fare l'arrosto, e mia madre pensavo venisse da lì. [...] Mia madre era un hippy. Così la chiamavano. [...] Gli hippy amavano i fiori e dicevano di essere loro figli. Io ero figlio di mia madre e quindi un bambino nipote dei fiori."

La prima parte del film è un flashback - il ricordo di Andrea che è riverso sul pavimento della sua camera - e quindi più nostalgica, più lineare, o comunque meno sconnessa. Le immagini sono sature e granulose, la camera malferma ci sintonizza sulla sofferenza del momento che Andrea ha vissuto e che sta rivivendo. Le immagini del padre (Roberto De Francesco) sono invece spesso filtrate di rosso, a enfatizzare la "colpa" che non solo la moglie, ma anche il figlio, gli attribuiscono.
"Mio padre morì all'improvviso, di ictus. Gli sopravvisse mia madre, malata da anni di cancro. Sarebbe dovuta morire prima lei. [...] Invece morì lui. Mia madre la prese come un'offesa inimmaginabile."
Questo è l'incipit del libro, citato anche da De Maria. Andrea non riesce a superare la morte dei genitori, che restano esanimi, appoggiati al tavolo della cucina e ricoperti da un telo di nylon. Una grande idea che più volte sarà ripresa durante il film fino alla bellissima "risoluzione".  Alla varietà di immagini fornite dal soggetto (fra le tante i "capelli astronautici" della madre; le due attempate e prosperose prostitute che fanno il sugo) De Maria ci mette del suo e arricchisce l'immaginazione di Nove con invenzioni davvero riuscite. Penso alle tazzine e alla fetta biscottata che levitano e ad Andrea che toccandole ne svela il semplice trucco. Alla madre che lo segue, proiettata sui palazzi di Milano, o alla scena in cui è ripresa da sotto il tavolo di vetro mentre ingurgita le pastiglie sparpagliate sul tavolo, con la bocca, senza usare le mani.  

Dapprima  le immagini sono spesso rallentate, i suoni amplificati (l'accendino buttato sul comodino), sono l'effetto anestetizzante dell'alcol, degli psicofarmaci, il dolore che rende privo si significato tutto quanto intorno: "Io guardavo fuori il paesaggio e le cose del mondo che mi sembravano stupide".
Poi, con un letterale "colpo" di scena, si passa alla seconda parte del film. Sulle note di "I will never die" Andrea si riappropria fortunosamente della sua esistenza e decide quindi di morire con rinnovata convinzione. Si trasferisce a Milano con una borsa di studio per la facoltà di lettere e filosofia ma la realtà lo respinge, Andrea è incapace di affrontarla. Compra 17 grammi di cocaina, fuma, beve, tappezza la camera di riviste porno e lascia che il desiderio sessuale lo conduca senza sapere dove. Un viaggio allucinato e psichedelico lo trascinerà fino al suo inferno, al punto più basso, dove se non c'è morte c'è solo la risalita.
De Maria modula il ritmo sulle percezioni del protagonista, adesso circondato da persone, da un mondo che viaggia a velocità sconsiderata. Mentre Andrea si sposta sul suo skate il montaggio lo scatta in avanti, una, due volte, De Maria adopera questa tecnica in più occasioni, evitando sapientemente la retorica del tre: il terzo scatto in avanti non accade e lo spettatore resta in una sorta di spaesamento, di nevrosi da senso incompiuto.

Anche la colonna sonora gioca un ruolo importante nel trasferire sullo spettatore lo stato d'ansia e alienazione costante del protagonista. La musica elettronica e il basso si alternano alla chitarra elettrica, al pianoforte e alle tastiere, in un accompagnamento variegato e suggestivo, perfettamente legato alle immagini.  Gli autori sono i "Deproducers": Riccardo Sinigallia (cantautore, a Sanremo 2014 con "Prima di andare via"), Vittorio Cosma (pianista, ex "PFM" compositore e "collaboratore" storico di "Elio e le storie tese"), Gianni Maroccolo (bassista che ha suonato coi Litfiba, i CSI, i CCCP, I Marlene Kuntz) e Max Casacci (chitarrista, fondatore dei Subsonica).

Com'è quasi inevitabile nel riadattamento dei romanzi scritti in prima persona, De Maria si affida a una voce narrante (l'attore classe ‘76 Fausto Paravidino) che non coincidendo con quella del protagonista, in un certo senso ne incarna vocalmente il pensiero. Andrea è Clement Metayer (lo ricordiamo in "Qualcosa nell'aria" di Olivier Assayas) in un'interpretazione di poche parole, ma molto convincente. Lo stesso vale per Isabella Ferrari, che compare a piccole dosi, pur mantenendo un ruolo centrale nell'immaginazione del protagonista e nella suggestione dello spettatore. Nel cast anche Andrea Renzi, Iaia Forte e Duccio Camerini (il prete).

"La vita oscena" è stato presentato nella sezione "Orizzonti" allo scorso Festival di Venezia ed è sorprendente che abbia dovuto aspettare quasi anno per essere distribuito. Si tratta forse di "un'odissea" che non tutte le generazioni possono comprendere, ma resta un'opera collettiva di eccellenze italiane, di ogni provenienza artistica: letteratura, fotografia, musica e soprattutto cinema.

13/06/2015

Cast e credits

cast:
Clément Métayer, Valentina Bellè, Vittoria Schisano, Valentina Reggio, Eva Riccobono, Anita Kravos, Iaia Forte, Andrea Renzi, Roberto De Francesco, Isabella Ferrari, Duccio Camerini


regia:
Renato De Maria


distribuzione:
Film Vision


durata:
85'


produzione:
Film Vision


sceneggiatura:
Renato De Maria, Aldo Nove


fotografia:
Daniele Ciprì


scenografie:
Alessandra Mura


montaggio:
Letizia Caudullo, Jacopo Quadri


costumi:
Jessica Zambelli


musiche:
Riccardo Sinigallia, Vittorio Cosma, Gianni Maroccolo, Max Casacci


Trama
Dopo la morte del padre (Roberto De Francesco) e della madre (Isabella Ferrari), Andrea (Clement Metayer) comincia il suo viaggio solitario e allucinato attraverso alcol, droga, sesso, alla ricerca della morte, finendo invece per ritrovare la vita.
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