Ondacinema

Un appassionato cinéphile ostacolato da chi lo ha considerato semplice amatore; per tutta la vita lontano dalle scuole e dalle teorizzazioni cinematografiche ha aperto la strada a nuove tendenze per immediatamente dopo realizzare il contrario e con la sua arte ispirare giovani cineasti di tutti i tempi

"dites que sera un Melville, et cela suffira"

Non ha mai frequentato una scuola di cinema Jean-Pierre Grumbach, diventato Melville per ammirazione dell'omonimo scrittore e amore delle astrazioni, che da avido spettatore si è nutrito delle grandi opere cinematografiche, chiuso nella sala buia di "Le Paramount" dalle nove del mattino sino alle tre di notte. Lui che ha amato visceralmente tutto del cinema, quello parlato (il muto lo frustrava terribilmente), non ha mai smesso di formarsi. Voracemente, senza risparmiarsi con la profonda convinzione, sin dalla più tenera età, che nella vita avrebbe girato film.
Ma nessuna scuola. Sarà per questo che Autant- Lara e Daquin agli inizi gli rifiutarono la carta sindacale di assistente-regista, inconsapevolmente assecondando l'indole ribelle del giovane, che inizia così il suo percorso da cineasta indipendente.
Fondata la Melville Productions si lancia nelle prime produzioni a basso costo. Una vera rivoluzione ammirata ed osannata dai quei "giovani turchi" che videro nel "sistema Melville" la liberazione da un modo di fare cinema vecchio e ingabbiato in regole costrittive e lo seguirono coscienti dei grandi cambiamenti che ne sarebbero scaturiti. La Nouvelle Vague, dunque, che lui contribuisce a celebrare accettando il ruolo di Parvulesco in "Á bout de souffle" di Godard.
Ma è lo stesso Melville a rifiutare poco tempo dopo i suoi "discepoli", sottolineando quanto la rivoluzione si sia trasformata ben presto nello stesso "sistema" risucchiando i suoi fermi propugnatori. Ed è sempre lui che ad un certo punto della sua carriera ricerca con forza le grandi produzioni e quelle star, da sempre ammirate, che diventeranno una sorta di feticcio.

Guerra aperta dunque con tutti e contro tutti e ancora una volta la volontà di professare la propria libertà intellettuale e artistica. Per questo sempre un outsider (anche se fece parte della Commission de Censure), per questo per anni privato di quel consenso che gli avrebbe dovuto riconoscere un ruolo chiave nella cinematografia internazionale.
Nel 1965 Jean-Pierre Melville risponde per i Cahiers du Cinéma a una intervista collettiva ("Qui? Porquoi? Comment?"), producendo un testo che potrebbe essere assunto a manifesto della sua idea di fare cinema: "[...] je suis un producteur non syndiqué. Je suis un réalisateur non syndiqué. Je fais absolument ce que bon me semble quand je fais un film [...] Notre métier est un métier d'anarchiste. Aucune action constructive commune n'a jamais été réalisable. [...] Ce que je regrette, et à quoi il m'arrive encore de rêver, c'est qu'à l'échelon créateur, il y a cette anarchie totale; je veux dire que les réalisateurs-auteurs devraient s'unir dans le cadre d'une association qui ne doublerait ni le syndicat ni l'association des auteurs de films, mais qui serait un genre de cercle ou de club du style de ceux de la Révolution française ou de la Commune et où existeraient des Status dont le respect finirait par créer une sorte de Conseil de l'Ordre. But this, Mem Sahib, is another story...

Melville muore prematuramente nel 1973 lasciando a testimonianza del suo gusto, delle sue convinzioni, preferenze ed ossessioni un cortometraggio e tredici lungometraggi.

Gli esordi


L' opera prima da regista e produttore è per lui un peccato originale, un ignobile brouillon sfregiato dal ricorso a pellicola scaduta e dai problemi di recitazione del clown Beby. Ma si sa, Melville era un perfezionista estremamente critico con se stesso, e in realtà questi piccoli problemi tecnici non hanno assolutamente influito su un cortometraggio che già definisce i punti chiave dell'universo melvilliano. In Vingt-quatre heures de la vie d'un clown (1946) troviamo tutto: il gusto per le citazioni vere o false che guidano lo spettatore nell'interpretazione della finzione filmica (questa volta si tratta di una frase giustamente attribuita a Molière), la notte tanto cara al regista e Monmartre, dove la notte si fa giorno (lui stesso si definiva: "homme de la nuit et homme du matin, enfin du petit matin avant d'aller me coucher"² ), il tema dell'amicizia virile, la predilizione per la voce-off, il gusto per gli oggetti che raccontano e definiscono la storia e i protagonisti. A cui si aggiunge una regia misurata ed essenziale fortemente connotata dalla personalità dell'autore, che in questo primo film decide di esserci come voce narrante (e lo farà ancora) e con la sua silhouette naturalmente avvolta nell'oscurità e naturalmente armonizzata dal profilo di uno stetson (il cappello che insieme agli inseparabili occhiali Ray Ban e al trenchcoat completavano e definivano il personaggio Melville).

Vingt- quatre heures de la vie d'un clown è un delicato omaggio al circo e al cinema muto di Charlie Chaplin: Beby, il protagonista è un uomo di strada, uno che si arrangia e che trae dalla strada l'ispirazione per i suoi spettacoli serali. E' allo stesso tempo un uomo goffo, capace di trasformare la quotidianità in una lunga gag comica, ed estremamente triste, perché cosciente che la sua arte è ormai ai titoli di coda. E Melville ne racconta una giornata-tipo così come si faceva nel muto: nessun movimento di macchina, solo inquadrature fisse che affidano lo sviluppo del racconto al montaggio e ai cartons (qui sostituiti dalla voce narrante).
Il cortometraggio passa praticamente inosservato, nonostante le proiezioni parigine.

Il debutto ufficiale arriva l'anno dopo con un film tratto da Le Silence de la Mer, romanzo di Vercors, che aveva stregato Melville durante la guerra. Una sfida non solo per la difficoltà di adattare il testo, ma anche e soprattutto per il clima in cui il progetto viene portato avanti: senza la cessione dei diritti, senza carta sindacale da regista, senza pellicola (che si procurò rivolgendosi al mercato nero). Un film clandestino insomma, che racconta la resistenza morale ad un regime dittatoriale e distruttore e sfida con la sua assoluta indipendenza un altro regime, quello cinematografico francese che non lasciava spazio a chi rifiutava corporativismi di ogni genere. Sublime e nuovo, sconvolge gli assetti e spiana la strada ai giovani turchi della Nouvelle Vague.

Le Silence de la Mer (1947-49) è misurato e perfetto nella regia, nella direzione degli attori e nello sviluppo dell'intreccio drammatico. Melville riesce a rendere la drammaticità di quell'occupazione coatta e distruttiva, ma anche la grande dignità di chi resiste, affidando alla nipote e allo zio il peso di un mutismo che si romperà soltanto alla fine, per pronunciare poche misurate parole.
Ma quello che non viene detto passa attraverso gli sguardi, le espressioni dei due che pian piano si lasciano conquistare dall'utopia irrealizzabile di comunione e fratellanza fra due grandi culture, quella francese e quella tedesca di un ufficiale solitario nel promuoverla e per questo destinato al fallimento. Routine e rituali scandiscono l'evoluzione del rapporto fra i tre che si trasforma nel racconto di un amore impossibile e inespresso: quello fra l'ufficiale (la Germania) e la nipote (la Francia), ormai completamente rapita dalla raffinatezza intellettuale del giovane tedesco.
Il desiderio crescente è affidato ad una serie di campi/controcampi sull'uomo e sul profilo fiero e silenzioso della nipote, il cui sguardo accecante, per la dignità e il candore che comunica, ci sarà svelato soltanto alla fine, quando sarà chiara la decisione dell'uomo di tornare al fronte (e quindi di morire), deluso da un regime che non lo rappresenta.
Dal punto di vista stilistico, Melville opta per un'economia di movimenti di macchina, per una regia che in parte eredita dall'espressionismo, con quelle inquadrature estremamente angolate dal basso, come a rendere la grande distanza che separa i tre protagonisti; con quelle ombre, dell'ufficiale tedesco, che si stagliano sulle pareti, quasi a instillare il dubbio che quest'uomo apparentemente gentile ed estremamente colto, nasconda una identità spaventosa (quella genocida e oppressiva del nazismo); con i controcampi sulla nipote che si fanno via via più onirici, trasformando la ragazza in un oggetto del desiderio inarrivabile e puro.
Melville prosegue nello sviluppo di alcuni di quei temi tanto cari al suo cinema: la solitudine, la ritualità, l'amore impossibile, l'abbigliamento come esteriorizzazione effettiva o percepita della propria interiorità e della fatalità del destino, gli oggetti come veicolo di identità e simbologie (pensiamo al foulard che indossa la nipote l'ultima sera. Le mani dipinte su di esso, protese l'una verso l'altra come a volersi toccare, rappresentano la sconfitta di un' utopia che mai potrà realizzarsi) il gusto della citazione (da "Anatole France") in questo caso asservita alla causa di cui il film si fa cantore: la resistenza, la libertà fisica ed intellettuale.

Ancora guerra

La guerra e la resistenza non scompariranno mai dalla filmografia del regista forgiando ambienti e personaggi continuamente in bilico fra atmosfere del noir, sentimenti del western e retaggi di una vita da partigiani perennemente braccati, in fuga o rintanati nei loro nascondigli.
Nel 1969 un Melville ormai maturo ritorna su quel passato che aveva segnato profondamente la sua vita e la sua generazione riadattando un altro romanzo letto in gioventù e profondamente amato. Si tratta di "L'Armée des Ombres" di Kessel che lui priva della vocazione documentaristica per dare vita ad un pellegrinaggio nostalgico, una fantasia retrospettiva intrisa di quella visione melvilliana sulla realtà che non lascia spazio a interpretazioni e incasellamenti. Melville costruisce un racconto privo di iperboli, celebrazioni o inutili psicologismi, lavorando come sempre per sottrazione e affidando agli attori, agli oggetti e ai primi piani il compito di suggerire il non detto.
In questo contesto l'organizzazione dei resistenti, con le sue gerarchie e guidata da un eccezionale Lino Ventura, non sembra essere molto diversa da quell'ambiente di falsi e crudeli malfattori pronti a sacrificare amici in nome di un obiettivo. Proprio come in questi ambienti la notte è il tempo dell'agire e del vivere, mentre il giorno è il luogo degli agguati, del pericolo nascosto ad ogni angolo di strada. E la morte è una compagna di viaggio onnipresente che nessuno sembra temere con quelle pillole di cianuro sempre pronte a sollevare dal rischio di parlare e con quello sguardo scettico e glaciale con cui Lino Ventura affronta la triste messinscena della corsa nel tunnel, in fondo al quale troverà non la fine ma un braccio amico.
Non manca neppure l'universo femminile. Mathilde, donna ferrea, solida, coraggiosa sembra essere l'opposta rappresentante di un genere che nel noir il regista aveva dipinto come corrotto e debole. Ma in una sorta di inesorabilità del fato, anche lei sarà sopraffatta dalla sua natura e quindi costretta al destino di chi tradisce: la morte.
Folgorante la sequenza dell'esecuzione del traditore Donat seppur nella sua tragicità e sobrietà, non lascia dubbi sul perché Quentin Tarantino si sia lasciato ispirare da Melville per il suo cinema pulp e irriverente. Un dialogo serrato, ma allo stesso tempo estremamente pacato nei toni sul modo migliore per uccidere il giovane traditore rivela la spietatezza di chi, pur lottando per il trionfo della libertà, sostituisce sentimenti e debolezze con una durezza degna del migliore malvivente o soldato.

Onirismo e religione

Ritornando alla cronologia, il secondo ed il terzo lungometraggio, Les Enfants terribles (1950) e Quand tu liras cette lettre (1953), costituiscono due esercizi di stile in parte anomali per il percorso del regista e insieme Léon Morin, prêtre (1961), definiscono un passaggio fondamentale per la sua carriera.
Se il primo è un'incursione ben riuscita, ma non estremamente caratterizzante, nell'onirismo di Jean Cocteau, gli altri due film rappresentano il tentativo di raccontare attraverso il filtro della religione gli antagonismi tipici del suo cinema.
In più Quand tu liras cette lettre segna un momento delicato per la carriera dell'autore. Melville si è guadagnato con il suo primo lungometraggio l'etichetta di regista intellettuale e dilettante. La cosa lo rende più che mai inquieto e deciso a riscattarsi per arrivare finalmente al grande pubblico. In più, ha bisogno di soldi per comprare gli studi di Rue Jenner e proseguire il cammino da regista indipendente. L'occasione è una sceneggiatura di Jacques Deval perfetta sulla carta, ma scoprirà poi, inefficace sullo schermo. Un melodramma senza rischi e di facile presa sul pubblico fatto di rinunce, sentimenti religiosi e la giusta dose di crudeltà e nefandezze. Ma il risultato non è quello sperato, visto l'insuccesso personale e di critica che investe Melville subito dopo l'uscita del film nelle sale. Ma come in Les Enfants terribles, anche in Quand tu liras cette lettre, lo stile del regista si manifesta in tutta la sua acerba potenza. Da un lato l'onirismo di un mondo astratto dalla realtà, chiuso in una dimensione altra sufficiente a se stessa e al momento incapace di dialogare con il mondo esterno (Les enfants terribles), dall'altro (Quand tu liras cette lettre) la prima incursione, anche se solo accennata, in quel mondo notturno della malavita, che però ci è mostrato ancora in una dimensione diurna, inutilmente crudele (pensiamo allo stupro della sorella di Dénise da parte di Max, il giovane meccanico, furfante parigino in trasferta, che causerà anche la morte di Irène) e fortemente connotata come il male in contrapposizione alla purezza assoluta dell'universo rappresentato da Thérèse. Anche se già una prima contaminazione esiste, pur impercettibile, ed è proprio in Thérèse, aspirante suora, che ricorre al ricatto (arma largamente utilizzata dalla malavita) e lascia che il suo cuore venga conquistato da quel piccolo farabutto che lei stessa ha voluto in famiglia per salvare l'onore della sorella.
Gli specchi e le mani come rivelatori di sentimenti, passioni, identità assumono un ruolo sempre più importante. Come assume un ruolo decisivo quella recitazione sobria, sempre sotto le righe che ritroviamo in Juliette Gréco, ma che sarà propria di quell'eroe che Melville costruirà (sta già costruendo) con il suo cinema noir. Torna inoltre il tema dell'amore impossibile e della morte, assoluta protagonista, come conseguenza ultima della fatalità del destino, che troveranno la loro sublimazione in Le Samouraï.
Discorso a parte per Léon Morin, prêtre, dall'omonimo romanzo di Beatrix Beck, e terzo (anche se non in senso cronologico) film ambientato durante la guerra. Dalla regia robusta e controllata, questo film che si potrebbe definire classico, non parla tanto di guerra che resta sullo sfondo quanto di amori impossibili, desiderio, incontro/scontro fra diversità che si attraggono.
E' il primo di tre film che Melville gira con uno dei suoi attori feticcio, Jean-Paul Belmondo, perfetto nel ruolo del prete dall'integrità morale eccellente, ma al contempo divertito dalla sua capacità di sedurre le donne che incontra a Besançon.
La parola non ha ancora perso la sua funzione narrante, anzi al contrario è un flusso incontrollato di teorizzazioni, punti di vista espressi da Barny, comunista militante e voce narrante, per disvelare il suo sentimento, per Léon Morin, il prete scelto da lei per deridere la religione cristiana, ma che finirà per possederla (mai fisicamente suo malgrado) plasmandone pensieri, convinzioni ed emozioni. Esistenzialismo e fisicità, con un'incursione nell'omosessualità, questi gli opposti che i due protagonisti rappresentano, questo il dibattito che vedrà il primo vincere sulla seconda. Una contrapposizione resa visivamente più forte da un bianco e nero fortemente contrastato e da una fotografia espressionista a cui è affidato il racconto di ambiguità suggerite (vedi molte inquadrature angolate di Léon Morin, la cui ombra si staglia sui muri del suo ufficio, che sembrano mettere in dubbio la sua integrità) e di crescenti angosce, quelle provate dalla donna che finisce per immaginare quel contatto fisico desiderato in un sogno/visione tanto irreale quanto irrealizzabile.

Con Léon Morin, prêtre Melville riesce finalmente ad ottenere un buon consenso di pubblico e critica. Ma come è nel suo stile, non si accontenta, considerando questa sua opera il film della prudenza, lineare sia nello stile sia nella morale. In ogni caso, grazie al successo ottenuto giungono nuove ed interessanti proposte, fra cui il riadattamento di un giallo della "Série Noire": Le Doulos, primo vero esempio di noir melvilliano.

America!

Prima di approdare definitivamente al noir e consacrarsi come colui che ha reinventato un genere riadattandolo a un universo che nessuno dopo di lui è riuscito mai a riprodurre, Melville si concede la realizzazione di un ennesimo sogno. Da grande amante degli Stati Uniti (le auto che guidava, il suo abbigliamento, tutto ricordava i film di quei grandi registi americani che considerava i suoi maestri e che avevano ispirato il suo cinema) gira Deux Hommes dans Manhattan (1958) e L'ainé des Ferchaux (1962). E' il regista-turista qui che dietro alla sua macchina da presa si abbandona ad un viaggio alla scoperta dei luoghi più cari al cinema targato Usa: New York, il caldo e soffocante sud, le grandi autostrade americane, i locali notturni. Ma se Deux Hommes dans Manhattan ha un'anima in parte documentaristica nella ricostruzione degli eventi che hanno condotto alla scomparsa del presidente della delegazione francese ONU, in L'ainé des Ferchaux lo spirito che prevale è per certi versi diverso. Ad iniziare dalla colonna sonora che suggerisce chiaramente la volontà di omaggiare un genere, il western, da cui il regista continua ad attingere a piene mani. Il rapporto Michel Maudet/Dieudonné Ferchaux ad esempio, tanto ricorda quello ambiguo degli eroi del western. Melville ha voluto suggerire la morbosità di una omosessualità inespressa, una sorta di tensione fra i due protagonisti che costruiscono un rapporto esclusivo e asfissiante. E Michel Maudet, il segretario assoldato dal ricco banchiere Ferchaux per accompagnarlo nella sua avventura on the road, nonostante i ripetuti tentativi di rompere questo cerchio per affermare la distanza fra lui e il vecchio, perché alla fine da questo rapporto sarà soggiogato.
Giornalisti, banchieri, diplomatici, attrici e piccoli sbandati, nessuno è salvo: tutti egoisti, tutti profondamente in bilico fra verità e menzogna, tutti destini a rivelare il marciume che pervade le loro vite e i luoghi in cui essi agiscono.

E nonostante il flop assoluto di Deux Hommes dans Manhattan e l'accoglienza contrastata di L'ainé des Ferchaux (suo primo film a colori), entrambi rivelano il tocco magistrale di un regista capace di indagare l'animo umano svelandone vizi e depravazioni.
Analisi e interpretazioni a parte, la visione di questi due film lascia aperto un ragionevole sospetto: che queste pellicole siano un divertito intermezzo del nostro irriducibile cinéphile, un divertissement per raccontare attraverso giochi e citazioni i miti e i generi di un grande paese amato senza condizioni.

L'impermeabile e il cappello

Con Bob, le flambeur (1955), Melville avvia un processo di esplorazione del noir alla francese che lo porterà ad identificarsi con il genere e reinterpretarlo in un modo tanto originale quanto difficilmente replicabile. I suoi autori di riferimento restano geni come Huston, Hawks e quella lunga lista di cineasti americani che lui considerava i suoi maestri, ma il trentottenne e agguerrito regista con questo film offre un'opera esemplare non già nata da un adattamento di un romanzo, ma da una sceneggiatura originale frutto di cinque anni di scrittura e rimaneggiamenti. E il risultato sa di capolavoro, anche se alla sua uscita il film è accolto tiepidamente da pubblico e critica. Troppo lontano dagli schemi canonici del polar francese, questa è stata l'obiezione di chi nello stesso anno assistette alla prima dei più classici e seri (nel trattamento del tema) "Touchez pas au grisbi" di Jacques Becker e "Du rififi chez les hommes" di Jules Dassin. Critica più che giustificata dal fatto che Bob, le flambeur è realmente lontano anni luce da quel tipo di cinema, nonostante il solido impianto classico della narrazione e il trattamento degli stessi temi. Melville, ancora oggetto cinematografico non ben identificato, segue la sua strada, le sue logiche, raccontando il milieu parigino in modo ironico, poetico, divertito. Lo stesso autore aveva dichiarato a Rui Noguiera, nel lungo libro intervista, come questo film in realtà non fosse tanto un poliziesco in senso stretto, ma una commedia di costume in cui quello che si indaga è la natura umana, con un certo gusto per l'assurdo che spesso fa assumere un carattere grottesco ai personaggi.
L'ironia, come la celebrazione di Montmartre e del milieu parigino fanno dunque da filo conduttore a tutta la vicenda. Ma non c'è solo Parigi. C' è anche l'America di "Scarface" rievocata, o meglio omaggiata, nel locale in cui Bob ci viene presentato intento a giocare d'azzardo (le sale buie che attraversa per uscire ricordano un altro locale in cui si consuma il delitto di apertura del famoso film di Hawks). E il racconto dell'organizzazione del colpo a Deauville serve al regista come pretesto per introdurre e sviluppare alcuni elementi di una sua personale interpretazione del noir che da questo momento in poi svilupperà (malviventi in cerca di un'ultima occasione, collaboratori di polizia, amicizie onorate e tradite e donne ambigue e corrotte o al contrario fedeli compagne), ma anche per seguire un personaggio per cui prova sincera simpatia. Bob, per l'appunto, giocatore incallito che vaga da un locale notturno all'altro ed ex-malvivente dal passato glorioso. Non ha ancora lo sguardo di ghiaccio, la maschera impassibile e silenziosa che assumerà il protagonista dei successivi polar, ma già porta in se alcuni dei tratti tipici dell'eroe del noir melvilliano: il destino ineluttabile, la ritualità di gesti necessari alla vita stessa di chi li compie; lo strano intreccio di due mondi, malavita e polizia, al contempo nemici e amici; la definizione di una divisa (trenchcoat e cappello stetson) corazza indispensabile; l'organizzazione di un colpo previsto in ogni suo particolare ma sempre destinato al fallimento; l'inesorabilità della morte.
E il gioco d'azzardo come ulteriore protagonista e chiave di lettura di una vita per cui il rischio è più importante del denaro in sé. Per questo il colpo di Deauville, occasione tanto attesa, si risolve in un fallimento (la polizia li scopre e Paul perderà la vita) e allo stesso tempo in un successo (per la prima volta Bob vince al gioco sbancando completamente il casinò).
Melville si diverte ad estremizzare il carattere a volte grottesco dei suoi personaggi angolando i suoi primi piani, animando gli oggetti (la slot machine ad esempio) capaci di raccontare con la loro presenza l'essenza più profonda di chi li usa.

Il primo passo è stato dunque fatto, ma ci vorranno sei anni e due film (Deux Hommes dans Manhattan e Leon Morin, prêtre), prima che Melville ritorni al noir questa volta per produrre un polar che consolida e definisce non solo il carattere del suo eroe, ma anche lo stile di un autore che in questo genere troverà il modo più convincente e originale di esprimere la propria arte.
Nel 1962 uscì nelle sale Le Doulos, adattamento dell'omonimo romanzo della "Série Noire". Il film sostenuto da un cast a cinque stelle (Jean-Paul Belmondo, Serge Reggiani, Michel Piccoli, Jean Dessailly) costituisce una prova eccellente per il regista, che costruisce l'intreccio narrativo come un intricato gioco di scatole cinesi, in cui tutti mentono (compresa la polizia) e nessuno può fidarsi dell'altro. La menzogna, l'amicizia virile, la ferocia e l'istintualità di un certo genere umano sono i temi che il regista affronta. Ma soprattutto prende corpo in tutta la sua potenza il suo eroe, quello che film dopo film assumerà connotati e forma sempre più chiari. Silien è cinico, spietato, ambiguo, solitario e silenzioso. Cappello e impermeabile si aggira per una Parigi frammentata, fatta di angoli di strada, stazioni della metropolitana, locali notturni, tessendo la tela di una realtà ambigua e dalle mille interpretazioni. Tutti i personaggi, a cominciare dall'amico Maurice Faugel, sembrano esistere soltanto perché subordinati alla costruzione di questa realtà e sembrano schiacciati da un destino che non lascia via di scampo. Melville in effetti lo preannunciava già nella citazione iniziale "Il faut choisir. Mourir... ou mentir?" ("Bisogna scegliere. Morire...o mentire?" Trad. autrice), fornendo allo spettatore una possibile interpretazione...o forse no. La citazione in effetti assume da questo momento in poi un ruolo ambiguo, una sorta di vezzo usato per raccontare una verità (quella del regista), ma attribuendo la paternità a qualcun altro per tentare in qualche modo di condizionare la visione. Lo fa in Le Samourai con la falsa citazione da un altrettanto falso libro dei samurai, e in Le Cercle Rouge attribuendo questa volta la frase a Buddha.
Quel che più ha rilevanza in ogni caso è il lavoro che Melville compie intorno ai cliché del noir americano, suo inesorabile punto di partenza per la costruzione di mondo atipico in cui gli schemi narrativi del genere saltano (nonostante la dichiarata e perennemente sostenuta ammirazione del cinema classico) a favore di una dilatazione del tempo in cui i silenzi, gli sguardi, la ritualità dei gesti contano molto di più dell'azione tout court. E anche se con Le Doulos siamo ancora in una fase primordiale soprattutto nel personaggio di Silien possiamo individuare il principio di questo percorso. Perché lui è allo stesso tempo Gustave Minda di Le Deuxième Souffle, Jef di Le Samouraï, Corey, Jansen e Vogel di Le Cercle Rouge e il triste e disincantato commissario Coleman dell'ultima opera prima della morte: Un flic.
Tutti armati della stessa corazza (i famosi impermeabile e cappello), tutti con indosso la stessa maschera glaciale si aggirano come sospesi in una realtà altra che li rende indifferenti al prossimo, alla quotidianità e alle pulsioni proprie dell'essere umano. Uccidere o orchestrare il colpo perfetto non rientrano tanto nella manifestazione di un istinto animalesco irreprimibile, quanto nell'assolvimento di un rito indispensabile alla loro stessa esistenza.
Generalmente a metà fra due mondi, quello del milieu e quello della polizia, sono spesso rifiutati e braccati da entrambi. In tale contesto la morte assume il senso di una naturale riaffermazione della propria supremazia e potenza. L'eroe melvilliano la accoglie, la orchestra a volte e la sublima affontandola con la solita e spietata freddezza. La donna è un mezzo per ottenere informazioni, un alibi, ma resta pur sempre parte di un sistema corrotto e dedito al tradimento. E' la femme fatale del genere noir, ma deprivata da quel fascino irresistibile che irretisce l'uomo e lo manipola.
Alla sua uscita Le Doulos è accolto bene sia dal pubblico sia dalla critica. Ma qualcosa va storto. Godard, al tempo grande amico di Jean-Pierre Melville, lo accusa di aver rubato il finale di "Á bout de souffle". I rapporti con i registi, nonché critici, della Nouvelle Vague diventano sempre più tesi, irrimediabilmente compromessi. Le critiche pubblicate sui Cahiers du Cinéma sono sempre meno indulgenti verso quel pioniere che sta abbandonando la strada della produzione a basso costo per rifugiarsi nei grandi budget e creare un duraturo sodalizio con tre grandi star: Lino Ventura, Jean Paul Belmondo, Alain Delon.

Nel 1966 esce nelle sale Le Deuxième Souffle e nonostante la critica spietata di Michel Delahaye (Cahiers du cinéma, "L'imposture par elle-même", 1967) per Melville è la consacrazione. La rivista Arts titolava "Melville à reussi", tutti i critici furono concordi nel considerare il film un capolavoro e il regista "il più americano dei cineasti francesi". Il punto di partenza è nuovamente un romanzo, quello omonimo di José Giovanni, che Melville semplifica nella complessità dell'intreccio per attribuirgli il suo marchio inconfondibile. Perché Le Deuxième Souffle è ancor più nichilista dei film precedenti. La struttura narrativa circolare permette di ritornare sul tema dell'ineluttabilità del destino, della impossibilità del riscatto. Lino Ventura, nei panni del protagonista Gu Minda, ci regala un personaggio al contempo spietato e tragico, già rassegnato sin dall'inizio al destino di morte che lo attende. In quest'ottica i suoi tentativi di fuga, il periodo di "reclusione" volontario per far perdere traccia di sé, restano azioni vane dettate da un meccanico istinto di sopravvivenza. Ugualmente braccato da polizia e i suoi ex compagni di furto, Gu Minda non è tanto diverso né dagli uni né dagli altri. Il processo di sovrapposizione dei confini fra mondo dei malviventi e polizia prosegue verso la definizione di un nuovo universo circolare in cui queste opposte fazioni, sempre più lontane dalla vita reale, agiscono sino ad autodistruggersi.

Le Samouraï del 1967 (anno in cui i suoi studi Jenner vennero distrutti da un incendio) non fa che proseguire questo percorso ma con qualche novità. Melville affida il ruolo da protagonista ad un eccellente Alain Delon che porta alle estreme conseguenze il carattere dell'eroe melvilliano sino quasi all'ascetismo. Il tempo si dilata nel compimento di rituali e la parola risulta tanto superflua quanto compromettente. Jef Costello, lo spietato killer mercenario, agisce nel rispetto di uno schema personale che lo conduce a compiere con meticolosità sempre gli stessi gesti e sempre nello stesso ordine: ruba due volte un'auto e la fa ritargare, per due volte usa un mazzo di chiavi simile a quello che i poliziotti usano per infiltrarsi nel suo appartamento, per due volte incontra l'uomo della passerella e sfugge a un pedinamento. Il luogo in cui vive assomiglia alla tana di una bestia feroce nella quale rifugiarsi prima degli attacchi decisivi.
Nessun riferimento spazio-temporale, nessun movimento di macchina superfluo. In questo film tutto è essenziale e scarno, compreso il complesso movimento di macchina che in apertura ci presenta Jeff, calandolo in una atmosfera onirica, trasfigurata dalla schizofrenia del protagonista. Il risultato è una Parigi irriconoscibile, frammentaria, disordinata e altrettanto schizofrenica. Melville gira con Le Samouraï il suo secondo film a colori, dimostrando una grande capacità nel piegare la fotografia alle necessità di copione. Il mondo attraverso gli occhi di Jeff è grigio, gelido come il suo sguardo. Ogni luogo suggerisce la presenza della morte incarnata da Valérie, la pianista che si rivelerà essere il punto debole del protagonista. Soltanto per l'appartamento di Jeanne, la donna di Jeff, il regista scelse i toni caldi, individuando così in questo luogo l'unico rifugio veramente sicuro dell'uomo, che nonostante la polizia, può contare sulla fedeltà incondizionata della donna.

Se Le Samouraï resta una sorta di elegia funebre dell'eroe solitario, con Le Cercle Rouge (1970), ennesimo polar dopo il ritorno alla guerra con il già citato L'Armée des Ombres (1969), Melville racconta nuovamente l'organizzazione del colpo perfetto, l'amicizia virile fra truands. Sempre nell'ottica del fallimento, sempre all'interno di quel cerchio rosso da cui è difficile fuggire, ma in questo caso attribuendo alla relazione fra i due protagonisti (Corey/Delon - Vogel/ Volonté) una sorta di onestà reciproca, di complicità esplicita che da Le Doulos in poi era stata soppiantata dal sospetto e dalla pura menzogna. Ma anche in questo film si mente, come anche in questo film polizia e malviventi giocano a rimpiattino in un continuo sovvertimento dei ruoli. Esemplare in tale contesto è Jansen (interpretato da Yves Montand), ex poliziotto radiato per alcolismo presentato in preda alle sue ossessioni per dare sfogo attraverso questo personaggio a quel gusto per onirico che da Les Enfants terribles non aveva mai abbandonato il regista.
Il film è un successo assoluto, nonostante i critici evidenziarono la ricorrenza di situazioni tipiche del noir (19 per l'appunto, contate con esattezza dal regista e volontariamente utilizzate tutte insieme all'interno di uno stesso intreccio). Melville raggiunge finalmente il suo obiettivo: è ammirato e riconosciuto dal pubblico, lavora con grandi star in perfetta sintonia con lui (ad eccezione di Gian Maria Volonté con il quale ebbe diverse incomprensioni), le sue finanze sono nuovamente in attivo. Ma le difficoltà durante la lavorazione del film e un cattivo rapporto con la sua troupe, che lui paragona a una medusa sulla spiaggia, lo resero disincantato.

Disincanto che sembra riversare nell'ultima e malinconica pellicola: Un Flic (1972). Ancora una volta Alain Delon, ancora una volta un noir. Il film si apre su un colpo perfetto orchestrato da quattro rapinatori, quattro uomini attempati alla ricerca del riscatto sociale. Questa volta Melville abbandona la prospettiva del malvivente per assumere quella del poliziotto, il giovane commissario Coleman (Alain Delon). Ma la sostanza non cambia, perché la sensazione che si ha è che il suo eroe abbia soltanto dismesso gli abiti del truand per assumerne altri. Coleman è solo, cinico, spietato quando serve, silenzioso. Si aggira per la città come in passato si aggiravano Silien, Jeff e gli altri semplicemente mettendo in atto un rituale che si ripete uguale a se stesso giorno e notte. Tutti sembrano muoversi stancamente, compresa la "femme fatale" di turno interpretata da Catherine Deneuve, che agisce quasi come un automa comandato ora da Coleman ora da Simon (capo della banda e proprietario di un night-club). E la morte che tocca come da copione al malvivente Simon, non risparmia neppure il commissario Coleman: lo sguardo rassegnato che rivolge a Cathy sembra quello di un condannato a morte.

La critica, che ha accusato il regista di essere morbosamente interessato alla morte, alla parte marcia e depravata della società, non è clemente con quest'opera, che a ben vedere potrebbe sembrare una sorta di commiato, il saluto del regista al noir per dedicarsi a generi con cui fin dall'inizio della sua carriera avrebbe voluto misurarsi, il western ad esempio.
Certo non sapremo mai cosa ci avrebbe riservato il genio creativo di questo appassionato cineasta francese scomparso prematuramente il 2 agosto del 1973, ma possiamo ancora godere delle sue intuizioni colte in parte e reinterpretate da moderni cantori del crimine come Quentin Tarantino, John Woo, Walter Hill e Takeshi Kitano.



¹ "Sono un produttore non sindacalizzato. Sono un regista non sindacalizzato. Quando giro un film faccio assolutamente quello che mi sembra più giusto fare [...] Il nostro è un mestiere di anarchici. Mai si è potuta realizzare un'azione costruttiva comune. [...] Rimpiango, e a volte mi capita di sognare ancora, che fra i registi ci sia questa totale anarchia; voglio dire che i registi-autori dovrebbero unirsi in un'associazione, non una copia del sindacato o dell' Association des auteurs des films, ma una sorta di circolo o di club come esistevano durante la Rivoluzione Francese o la Comune con i propri statuti il cui rispetto darebbe vita ad una sorta di Ordine di categoria. Ma questa, Mem Sahib, è un'altra storia..." (trad. dell'autrice)

² "Uomo della notte e uomo del mattino, o meglio dell'alba prima di andare a dormire". (trad. dell'autrice)


Nota dell'autrice: la scelta di citare i film nella loro versione originale non è casuale. L'Italia non è stata clemente con il cinema di Jean-Pierre Melville, mutilato da tagli tanto arbitrari quanto dannosi e da impietose traduzioni dei titoli. Ad oggi resta ancora difficile, nonostante i recenti omaggi all'autore, gustare le sue opere nella loro integrità stilistica.





Jean-Pierre Melville