Ondacinema

Uno dei più longevi maestri della settima arte. La sua carriera - tra Spagna, Messico e Francia - dura cinquant'anni[*], durante i quali il regista aragonese demolisce con dissacrante ironia i pilastri della società borghese: chiesa, borghesia, famiglia, esercito. E, con essi, il loro perbenismo

Luis Buñuel Portolés nasce nel 1900 in Aragona, nel paese "medievale" di Calanda[1]. I suoi genitori, una coppia di facoltosi proprietari terrieri, gli impongono una rigida educazione cattolica e lo studio del violino. In entrambi i casi, la sua reazione è il rigetto: diventerà notoriamente ateo ("per grazia di Dio") e mostrerà più volte, sullo schermo, strumenti musicali distrutti. I sette anni, a partire dal 1917, trascorsi nella Residencia de Estudiantes di Madrid sono decisivi per la sua formazione: è qui che stringe una calorosa amicizia con due giovani che diventeranno i più celebri esponenti della cultura spagnola del Novecento, Salvador Dali e Federico Garcia Lorca. E con Pepín Bello, personaggio geniale che nella vita non farà l'artista, ma che in questo periodo influenza tutti e tre i suoi compagni di studi. Tra le letture che lasciano un'impronta indelebile nelle mente di Buñuel, oltre a qualche opera di Marx e dell'Illuminismo francese, spiccano "L'evoluzione della specie" di Charles Darwin, "Le centoventi giornate di Sodoma" del marchese de Sade e i classici della psicoanalisi. Ma in questo periodo di grande fermento intellettuale sono molte le fonti abbeveraggio per Don Luis: la musica di Wagner e Debussy; il teatro di Josè Zorrilla, il cui "Don Juan Tenorio" (cui il Nostro deve il tema dell'amour fou) è messo in scena dai giovani Buñuel e Lorca; alcuni scritti religiosi più o meno apocrifi; gli studi universitari di entomologia prima e lettere poi; il pensiero anarchico e l'arte futurista, che confluiscono negli articoli della rivista "Ultra", dove Buñuel pubblica i suoi primi componimenti poetici, a loro volta segnati dal simbolismo di Ramón Gómez de la Serna e dal realismo di Benito Pérez Galdós: la commistione di surreale e razionale, colonna portante dell'intera poetica buñueliana, trae origine dall'influenza incrociata dei due scrittori spagnoli.

E' evidente come, a venticinque anni, la relativa aridità intellettuale che serpeggia nel suo Paese non possa che stargli stretta. Così il Nostro, riuscendo a imbucarsi in un progetto della Società delle Nazioni, ne approfitta per trasferirsi a Parigi, crocevia di movimenti e avanguardie, meta privilegiata delle menti più brillanti d'Europa, allora come oggi eldorado di coloro che nel dopoguerra si chiameranno cinefili e che, già negli anni '20, in Francia godono di un offerta estremamente variegata. E' qui che Luis impara ad amare l'arte emergente (su tutti Buster Keaton, gli altri comici americani e "Destino" di Fritz Lang, ma anche i serial francesi e il cinema russo); che ha l'occasione di assistere Jean Epstein alla regia di "Mauprat" e de "La caduta della casa Usher"; che, dopo aver alternato le attività di poeta, critico e teorico cinematografico, si cimenta nel suo primo, straordinario cortometraggio: Un chien andalou  (1929).
Pregno di accenni polemici nei confronti dell'ex amico Lorca (autore di una poesia estetizzante cui Buñuel si oppone) e firmato assieme a Salvador Dalì, il film, che manda all'aria qualsiasi convenzione narrativa (a partire dalla coerenza spazio-temporale), colpisce lo spettatore con il susseguirsi di sequenze prive di qualsiasi legame logico l'una con le altre, esclusi quelli costituiti dalle citazioni colte (mai particolarmente esplicite) e dalle pulsioni di morte e sesso. Onirico, disturbante, quasi sconvolgente, senz'altro rivoluzionario, "Un chien andalou" consegna alla storia del cinema uno degli incipit più celebri e dibattuti di sempre (l'occhio di una donna tagliato da un rasoio) e alle avanguardie cinematografiche uno dei loro film più rappresentativi. E grazie al grande successo di critica e, a sorpresa, di pubblico, consente a Buñuel di iniziare una carriera registica cinquantennale nonché, insieme a Dalì, di entrare a far parte ufficialmente del movimento surrealista, di cui ha sempre condiviso lo spirito, ancor più che i dettami stilistici.

Persino più importante nell'evoluzione del linguaggio buñueliano è il lavoro dell'anno successivo. Commissionato da due ricchi filantropi, i visconti di Noailles, realizzato con un contributo assai limitato di Dalì, i rapporti con il quale si sono anzi logorati, L'age d'or è il primo lungometraggio nonché il primo film sonoro firmato da Buñuel ed è l'opera in cui la dimensione sociale (tra i titoli di lavorazione c'è anche "Nelle acque gelide del calcolo egoista", da "Il capitale" di Marx) acquista maggiore rilevanza. Da buon ex studente di entomologia, il regista apre il film con un breve documentario sugli scorpioni (esseri asociali, violenti, velenosi), che successivamente lascia spazio a una sequenza sulla posa della prima pietra per la fondazione di Roma, cerimonia pubblica che poi approda in un ricevimento privato in una Roma "imperiale" contemporanea, evidente satira dell'Italia fascista, per concludersi con una citazione da "Le centoventi giornate di Sodoma" contrappuntata da blasfemi echi cristologici. Il film risulta più "secco" e lucido del precedente, più grottesco che surreale. Anche se quest'ultimo aspetto è presente nella sequenza dei manifesti che prendono vita accendendo pulsioni erotiche in uno dei personaggi: riecco il tema dell'istinto sessuale folle che, per quanto ostacolato da impedimenti esterni e interiori - l'intervento di politici e preti, l'idea del dolore fisico, della vecchiaia e della morte - travolge la società e l'uomo stesso. Rispetto al film precedente, e come sempre da ora in poi, la messa in scena è realistica; elementi incongrui e squarci onirici vi si innestano senza preavviso fondendovisi mirabilmente, come nei dipinti dell'amico pittore René Magritte, le cui affinità stilistiche con la poetica di Buñuel sono molteplici, a partire dai titoli, scelti in antitesi a ciò che si vede nell'opera, per arrivare, appunto, ai principi estetici dello spaesamento e dell'inatteso. Come viene accolto il nuovo lavoro del dissacrante regista anarchico? La forza sovversiva del film è tale che i Noailles rovinano le loro amicizie. Ma questo è il meno: gruppi di fascisti, cinque giorni dopo la prima, irrompono in sala e impediscono le successive proiezioni, devastando le poltrone, lo schermo e i quadri surrealisti esposti, mentre il questore dispone il sequestro della pellicola!

Dopo una fallimentare esperienza di pochi mesi a Hollywood, presso gli studi della Metro-Goldwyn-Mayer e a seguito dell'ufficiosa presa di distanze dal gruppo dei Surrealisti, Buñuel, che ora risiede a Madrid, spiazza tutti intraprendendo la travagliata lavorazione di un documentario in terra spagnola. L'autore è toccato dall'instabilità politica seguita alla fine della dittatura di Primo de Rivera, che non ha certo sollevato alcune regioni dalla miseria più estrema. E' il caso della zona montagnosa delle Hurdes, nell'Estremadura, al confine col Portogallo, che diventa il set per il suo terzo lavoro. Las Hurdes è anche un pamphlet anticapitalista e antireligioso, tutto basato sui contrasti (le rocce impervie delle Hurdes, in cui la gente e gli animali sopravvivono in condizioni di povertà e malattia, contrapposte alle vallate lussureggianti e alle città opulente della medesima regione) con esiti di forte impatto, grazie anche al lavoro dell'operatore Eli Lotar, collaboratore di Joris Ivens.

Negli anni successivi, segnati dalla Guerra civile spagnola e dalla Seconda guerra mondiale, Buñuel è estremamente attivo (si sposa, ha un figlio, aderisce alle Brigate Internazionali per le quali procaccia fondi in giro per l'Europa), ma non sul versante cinematografico, dove svolge solo pochi ruoli, non in qualità di regista. Il secondo sbarco negli Stati Uniti, nel 1938 e questa volta da esule politico, si risolve ancora in un disastro personale e professionale: trovato lavoro presso il Museo d'arte moderna di New York, incappa in una forma di protomaccartismo, complice l'autobiografia di Salvador Dalì che lo accusa di essere ateo (rifiutando poi di correggere il tiro per salvare l'ex amico), ed è costretto a rassegnare le dimissioni. Si reca a Los Angeles, dove cura il doppiaggio per il mercato latino-americano dei film della Warner Bros, ma perde il lavoro quando tale attività viene delocalizzata oltre il Rio Grande.

Lo ritroviamo nel 1946 in Messico, meta tutt'altro che ambita dal Nostro[2]alla prese con la regia di un musical (l'unico nella sua lunga carriera): Gran Casinò. Palesemente a disagio con un linguaggio cinematografico convenzionale, Buñuel non riesce a sfruttare gli spunti favorevoli offerti dal soggetto (il tema del capitalismo di rapina attuato dalle corporation) e, risolvendo sbrigativamente gli snodi principali della vicenda, non sa evitare di cadere in posizioni politiche e poetiche estranee alla sua mentalità (la reverenza dei lavoratori verso i padroni, il machismo, un contenuto sentimentalismo). Davvero pochi, qui, i tocchi che renderanno riconoscibili i film messicani che Buñuel realizzerà a scopo "alimentare" negli anni successivi: l'odio per la musica (ma in questo caso solo verso quella scadente), l'attrazione per le gambe delle donne (qui però la femme fatale è castano-scura, in seguito saranno quasi tutte bionde), il "carceriere carcerato" della prima sequenza. Troppo poco, nel contesto di un film mediocre.

L'insuccesso commerciale di "Gran Casinò" produce il primo dei pochi rallentamenti di una fase della carriera dell'autore estremamente prolifica (saranno ventuno le sue pellicole realizzate in Messico). Ci vogliono due anni perché qualcuno gli offra la possibilità di girare El gran calavera, tratto da una piéce teatrale in tre atti e incentrato sull'interpretazione del celebre attore Fernando Soler. "Si tratta di una commedia borghese di ambiente borghese a impianto pochadistico, con personaggi estremamente tipicizzati e senza spessore psicologico: il parassita, l'amoroso, la donna contesa, la malata immaginaria ecc."[3.]. Film senza grosse pretese, decisamente piacevole e non totalmente privo di elementi buñueliani (la relazione tra Virginia e Pablo: come scrive Alberto Farassino, non proprio un amour fou... ma un po' pazzerello sì[4]), sancisce l'inizio della collaborazione con lo sceneggiatore Luis Alcoriza, dalla cui penna nasceranno alcuni dei capolavori dell'altro Luis, a partire dalla pellicola che segue.

Grazie al grande successo ottenuto dalla commedia, Buñuel può infatti mettersi al lavoro su un nuovo progetto, per il quale finalmente gode di un'ampia libertà espressiva. I figli della violenza è un film corale che ha per protagonisti un gruppo di ragazzini sbandati, tra i dodici e i diciassette anni, che popolano una delle bidonville alle porte di Città del Messico (ma la voce over del prologo ci ricorda, come a dar respiro universale alla vicenda, che in ogni metropoli del mondo la situazione è la medesima), mentre in corso d'opera va man mano concentrandosi sulla storia di Jaibo, capobanda appena uscito dal riformatorio e subito assassino di uno degli affiliati, e di Pedro, involontario testimone oculare dell'accaduto, vero figlio della violenza in quanto nato da uno stupro (ma il titolo originale è un meno drammatico "Los olvidados", "I dimenticati"). A far da contrappunto, le esternazioni del cieco cantastorie - nonché sedicente guaritore e scoperto delatore - don Carmelo, un reazionario che rimpiange la dittatura di Porfirio Díaz, epoca in cui le donne restavano chiuse in casa e i ladri venivano fucilati. L'ambiente descritto dal regista, contraddistinto da miseria, analfabetismo, guerra endemica tra poveri, rimanda certo al coevo Neorealismo italiano, sia per la dichiarata ispirazione tratta da "Sciuscià" di Vittorio De Sica, sia per un'insolita non responsabilità delle istituzioni, volte invece (se presenti: ma è raro) a compiere uno sforzo per migliorare la condizione degli infelici protagonisti. La Chiesa per una volta non si vede (né appare possibile imputarle una colpa per questo), la famiglia è pressoché assente ma spesso per cause di forza maggiore - alcuni dei ragazzi sono orfani di almeno un genitore - e comunque è chiamata a un compito gravosissimo; il personale del riformatorio è estremamente ragionevole ("invece dei ragazzi dovremmo rinchiudere la violenza", dice il direttore) per quanto idealista. L'affresco sociale che Buñuel dipinge mostra un dramma atavico, trascendente la volontà e i comportamenti dei singoli. Ed è sbattuto in faccia allo spettatore in tutta la sua durezza, allo stesso modo con cui Pedro scaglia un uovo contro la macchina da presa. A edulcorare leggermente il quadro di insieme, solo qualche discutibile scelta stilistica che incrina la perfezione dell'opera, collocandola un gradino al di sotto dei risultati più alti conseguiti dal cineasta. La musica melodrammatica è una nota stonata nella filmografia buñueliana e aggiunge una pateticità non richiesta, mentre la sequenza onirica al rallenty toglie il peculiare effetto di spaesamento che rende i sogni nei film del regista aragonese un inconfondibile marchio di fabbrica. Parliamo di sogni, perché anche in una pellicola come questa gli elementi surreali, o comunque tipici dell'autore (il gallo che fa capolino al termine di una zuffa, le cosce delle donne più volte inquadrate, le allucinazioni di Jaibo morente) non fanno certo difetto, tanto che è tuttora in corso una diatriba tra i critici sul considerare "I figli della violenza" un film realista o ancora una volta surrealista (molti, senz'altro esagerando, optano per la seconda ipotesi). Non manca poi - al contrario! - il lato psicologico, anche se non c'è pietà ed è altresì difficile provare affetto per le giovani vittime. Come attesta subito la didascalia iniziale, si può confidare nella forza emancipatrice del progresso; ma l'autore, la cui ironia è qui ai minimi storici, non è affatto ottimista.

Gli anni cinquanta sono il decennio più prolifico per un Buñuel ormai quasi perfettamente inserito nel sistema produttivo messicano. Che gli impone soggetti tipici, volti a esaltare la morale maschilista e borghese della famiglia e della società latino-americane (su cui però il Nostro, anche laddove non riesce a ribaltarne i valori, sa comunque insinuare ironicamente più di un dubbio), nonché attori e attrici noti o raccomandati, e tempi e budget ristretti. Il primo risultato di questa sorta di fordismo-taylorismo cinematografico è il gradevolissimo Adolescenza torbida, in cui la prorompente galeotta Susana, evasa "per miracolo" dal riformatorio, viene accolta in una fazenda, dove con la forza del suo erotismo mette in subbuglio le certezze dei componenti la ricca famiglia agraria, finché la polizia, altrettanto "per miracolo", non interviene a ristabilire l'ordine.

Il successivo La figlia dell'inganno è decisamente un episodio singolare nella filmografia di don Luis; si tratta, a tutti gli effetti, di un burlesque con i suoi stilemi di inversione, inseguimenti accelerati, randelli e pistole dalle traiettorie imprecise e l'equivoco di partenza, altamente drammatico, che trova la sua naturale conclusione nell'happy end finale. È la storia dell'onesto Don Quintin (Fernando Soler) che, ingannato dalla moglie, si disfa della figlia perché, ed è il secondo inganno, gli viene fatto credere che è il frutto di un adulterio e lui non ne è il padre. L'uomo onesto, anche un po' stucchevole, diventa un feroce gangster. Quando scopre la verità mette in moto i suoi fidati scagnozzi per ritrovarla, in un crescendo di sudore e risate. Buñuel impugna un soggetto drammatico e vi imprime la sua idea di surrealismo, l'unico piano di contenuto cui è sempre rimasto fedele. Non lascia spazio al pathos borghese, alla storia lacrimevole della famiglia che si disfa e si ricompone, e punta dritto il suo microscopio da entomologo sulla "tragedia di un uomo ridicolo" che terrorizza molti e fa ridere tutti. Lo spirito del film si può riassumerlo nella frase finale di questo padre finalmente ritrovato che scopre diventerà nonno; al che, colmo di felicità, chiede di vedere il nipotino e, non essendo ancora nato, commenta, sguardo in macchina: "Sono sempre il solito sfortunato!".

Un episodio decisamente da dimenticare della filmografia buñueliana è il successivo Una donna senza amore. Si parte dal pretesto letterario di Guy De Maupassant del quale il buon artigiano André Cayatte aveva già girato una riduzione cinematografica (1943) che la produzione messicana avrebbe voluto fosse ripetuta pari pari, inquadratura per inquadratura. Don Luis che probabilmente in quell'anno aveva già dato fondo al suo sottile humour (in "La figlia dell'inganno") accetta la comanda, rifiuta di copiare Cayatte e svolge un lavoro in cui è totalmente questione di dramma, melodramma e gelosia tra due fratelli che sono in realtà fratellastri, cosa su cui si poteva tranquillamente sorvolare finché erano poveri ma un'inattesa eredità porta al regolamento dei conti anagrafici e di legittimità. Don Luis ci mette del suo ad ammantare la vicenda famigliare di un tono sardonico che non soddisfa le aspettative dello spettatore abituato a tutt'altra dissacrazione dell'istituzione famiglia.

Salita al cielo, considerato dalla critica come un piccolo gioiello nascosto all'interno della produzione "alimentare" dell'autore, appare sovrastimato in quanto abbondante di stereotipi, a partire dalla caratterizzazione degli stessi messicani, beoni e fastidiosamente rumorosi. Da ricordare solo una manciata di elementi, dal simpatico rappresentante di galline con tanto di campionario, all'ambientazione in un villaggio immaginario in cui gli abitanti sono tutti liberi dal lavoro (in quanto benestanti), ma anche dalla religione (non ci sono chiese, tant'è che gli sposi devono imbarcarsi per un paese vicino per convolare a nozze). Su tutti, l'unica sequenza onirica, l'articolato sogno in cui le tre figure femminili che sono parte della vita del protagonista Oliveiro - la madre la moglie e l'amante - si confondono l'una con le altre. Più che altro però colpisce il risveglio, quando Oliveiro si ritrova in mano una pecora uscita dal sogno stesso. Con un gesto impacciato se ne libera immediatamente, come a scacciare via la tentazione costituita dalla conturbante Raquel (il cui sex appeal è pari solo a quello della Susana di "Adolescenza torbida").

Davvero trascurabile (per quanto decoroso) è invece Il bruto, su un operaio omaccione e stordito (il divo Pedro Armendáriz), chiamato da un padrone di casa a placare le rivendicazioni dei suoi inquilini.

Nel bel mezzo di questa fase poco ispirata arriva l'adattamento del primo di due romanzi celeberrimi: controvoglia - l'opera di Daniel Defoe non lo interessa affatto - Buñuel mette in immagini Le avventure di Robinson Crusoe. Se nel libro si ritrova, nel protagonista, l'orgoglio di appartenenza alla civiltà britannica (la più prestigiosa dell'epoca), il ribaltamento del film consiste nella caratterizzazione di un Robinson inter pares rispetto agli animali dell'isola; la solitudine del naufrago è accentuata, l'istinto di sopravvivenza è in primo piano. Farina del sacco del regista sono la sequenza dell'incubo, in cui la presenza paterna aggiunge una componente freudiana impensabile ai tempi della stesura del romanzo, e il concetto di classe: lo status di membro della middle-class agli occhi del padre di Robinson sarebbe invidiabile - e invidiato anche dal re - e dunque il disagio del figlio inspiegabile, senza fondamento. Ma al di là delle elaborazioni teoriche dell'autore, il film è decisamente godibile per la rappresentazione dell'ambiente vergine in cui è immerso il protagonista, circondato da un bestiario di rara autenticità.

Don Francisco, notabile scapolo di mezza età costantemente in causa per questioni proprietarie, assiste - in chiesa, con tanto di fascia di "Cavaliere del Santo Sacramento"- al rito della lavanda dei piedi nella missa in coena domini sulle note di un canto gregoriano. E non riesce a trattenere l'eccitazione sessuale: soprattutto quando scorge l'affascinante Gloria, che tenterà ossessivamente di conquistare. Questa splendida panoramica in soggettiva costituisce uno dei migliori incipit del Nostro; ed apre Él, uno dei grandi film degli anni cinquanta con cui Buñuel insiste sulla chiave psicoanalitica. Proseguendo la riflessione sull' amour fou, il regista innesta anche un nuovo tema che diverrà ricorrente nella sua opera: la discrepanza tra essere e dover essere. Anche se qui, nella sua inadeguatezza rispetto al ruolo ricoperto, il protagonista è patologico; mentre gli eroi (?) dei film successivi saranno normali nella loro follia, o viceversa folli nella loro normalità. Un altro elemento che anticipa gli ultimi capolavori, è il fatto che don Francisco sia favorevolmente considerato nel suo ambiente anche una volta palesato inequivocabilmente il proprio delirio, un po' come il nazista "bravissima persona" ne "Il fascino discreto della borghesia". Al pari della sequenza di apertura, anche il finale in Colombia, che conclude la parabola davvero esemplare tracciata dall'autore in questo film, è memorabile per forza e ambiguità.

Di tenore in parte analogo è l'adattamento cinematografico del capolavoro di Emily Bronte, Cime tempestose. La disperata (tempestosa) storia d'amore tra Catilina e Alejandro (in Messico, gli originali si chiamano Catherine e Heathcliff). Ottimo pretesto per girare un episodio di amour fou, il film fu girato in un torrido bianco/nero, straniante se messo in relazione alla sua nordica ambientazione originale, che si permea di un umorismo certamente involontario e frutto della pessima recitazione della coppia Irasema Dilian e Jorge Mistral, malvisti già da subito da Buñuel ma imposti dalla produzione messicana. Non è azzardato rilevare che gli eccessi recitativi dei due siano stati fonte d'ispirazione per le telenovela sudamericane, quelle, per intenderci, dove furoreggiava, negli anni '80, il masnadiero Juan Del Diablo che dal nostro Alejandro ha spudoratamente copiato la camicia bianca perennemente aperta sul petto villoso, i calzoni alla pescatora stretti sulle caviglie, i silenzi recitativi che volevano esprimere il furore e la passione di un personaggio non più espressivo di una saponetta. Da non perdere uno (dei tanti) inseguimenti di Alejandro alla sua amata nel quale, per far prima, si lascia andare lungo una ripidissima collina sedere a terra: lo vediamo acquistare sempre più velocità finché arriva a valle coi pantaloni (alla pescatora) completamente stracciati...

L'atmosfera slapstick de "La figlia dell'inganno" si ritrova in un film del 1953: L'illusione viaggia in tranvai. Ambientata a Città del Messico, è una sorta di tranche de vie, una documentazione dal vago tratto neorealista di un tram, il 133, che è "rapito" dalla coppia di amici-ubriaconi Riccio e Terrayos, per una corsa notturna nella capitale che pullula di gente. Il tram fantasma raccoglie tutti e a tutti impone il suo "vagare". Quando qualcuno si lamenta della passeggiata senza scopo è fatto scendere con uno stratagemma e comunque la corsa è gratis per tutti. Il film è stato spesso accostato a "Hanno rubato un tram" di e con Aldo Fabrizi ma l'analogia (il film di Buñuel è comunque anteriore di qualche mese) si riduce al soggetto, il tram sequestrato che viaggia di notte. Aldo Fabrizi riprende un testo teatrale già da lui interpretato con successo a teatro e fissa sulla pellicola la sua indubbia capacità di basculare dal registro drammatico (denunciato da un collega invidioso è prima degradato e poi sospeso dal servizio) a quello comico (il grottesco viaggio con i suoi esilaranti compagni di viaggio). Buñuel, al contrario, utilizza il soggetto per comporre le sue liste eteroclite, borgesiane (pur essendo, Borges, uno scrittore che disprezza, forse perché è cieco mentre lui è sordo e i sordi odiano i ciechi[5], che concorrono alla creazione delle sue idee di surrealismo. Così sono da intendere le entrate/uscite di un gruppo di macellai coi loro bravi quartini di bue al seguito; la scolaresca caciarona e la bella Lupita che si addormenta lasciando scoperta una sensualissima gamba fasciata dai collant, un pezzo di bravura nella raffigurazione dell'erotismo cui il maestro ci aveva abituati fin dal suo esordio, la bella Lia Lys in "Un chien andalou".

Ispirato da una storia vera e ambientata nel villaggio di Santa Bibiana, Le rive della morte è la cronaca di una faida tra le famiglie Anguiano e Menchaca; faida sanguinosa che coinvolge sette morti e poggia su una tesi precisa, qualcosa che a Don Luis avrà di certo fatto venire l'orticaria: "La civilizzazione, la cultura, cancellerà la barbarie degli omicidi e delle lotte fratricide". Una tesi non priva di intenti didattici e moraleggianti e che, in ultima analisi, vuole stigmatizzare l'amore che i messicani portano per le pistole e le armi da fuoco, amore, è bene ricordarlo, condiviso dallo stesso Buñuel[6]. Ecco però che un pessimo soggetto diventa un film non certo memorabile ma godibilissimo, presentato anche alla Mostra di Venezia. Lì, lo smagato pubblico europeo riuscì a cogliere, con grandi risate, il parossismo degli ammazzamenti e lo humour nero del regista, reazione che provocò il profondo disappunto dei funzionari messicani che speravano, al contrario, nel riconoscimento della loro politica "umanista". Lo "scherzetto" di Don Luis al governo sudamericano troverà poi il suo capolavoro con "Viridiana", di cui si parlerà più avanti, ai danni del Generalissimo Franco.

A metà del decennio più sfavillante della storia del cinema, Buñuel realizza il suo capolavoro sconosciuto, la vera perla nascosta nella sua filmografia: Estasi di un delitto. Archibaldo de la Cruz narra in prima persona la sua storia, dall'infanzia agiata ("è pieno di soldi, e questa è la prova migliore che si tratta di un galantuomo", dice un antiquario) negli anni '10, agli espropri subiti durante la Rivoluzione messicana, fino a un età adulta in cui, mancato barbablù, vuole la morte delle donne che lo circondano. Morte che puntualmente si verifica, malgrado Archibaldo non sia l'esecutore materiale degli inesistenti omicidi. Grazie ad ottimi interpreti, bei personaggi, dialoghi efficacissimi e una straordinaria fluidità narrativa che rende il film adattissimo anche al pubblico odierno, Buñuel scardina con efficacia, tramite un'articolata struttura a flashback, i cliché di più generi cinematografici (commedia, melò, giallo di stampo vagamente hitchcockiano) rivisitando al contempo i temi che gli sono cari con una chiave talvolta autoparodistica. Se il rimando all'infanzia del protagonista è semplicisticamente freudiano, l'ironia per cui il ricordo è rappresentato da un oggetto kitsch (un carillon), da una fiaba e da una musichetta riscatta tali semplificazioni, mentre l'attrazione per le gambe delle donne è tale anche se si tratta di quelle di un manichino monco. È una delle sequenze più significative (l'episodio è quello di Lavinia): mentre il racconto cambia registro (da melò a giallo) il sandalo svela la natura di Archibaldo, più aspirante assassino che smanioso donnaiolo. La doppia personalità del protagonista, che riconosce di oscillare dallo status di grande santo a quello di grande criminale, consente al regista di riprendere la riflessione iniziata in "Él" sul rapporto tra devianza morbosa e adempimento delle formalità cattoliche, col conseguente tentativo di punire coloro che dal dogma si allontanano (ad esempio Carlotta, quando si rivela essere un'adultera). I rimandi al film antecedente sono molteplici, a partire dalla relazioni tra il protagonista e le donne prescelte come spose, che scatena un crescendo di eros e thanatos, peccato e impossibilità di purificazione (cfr. Giovanna d'Arco e Carlotta). Se lo spiazzante montaggio in levare della prima parte è tipico della produzione successiva, l'uso delle musiche assume qui modalità uniche nella carriera del regista, che ricorre al leitmotiv (il suono del carillon) come variazione sul tema del fischio dell'assassino in "M" del suo maestro Lang, ma anche come ponte tra due sequenze separate da un salto temporale di quarant'anni, dall'infanzia alla ricomparsa dello stesso carillon. E che declina in maniera differente la stessa melodia (sarà la sola volta in cui Buñuel adopererà il refrain) a sottolineare e al contempo influenzare i differenti stati d'animo di Archibaldo. Come nell'opera lirica, di cui il regista non è certo un appassionato.

Ormai superato il giro di boa della sua carriera, dal punto di vista degli anni di attività ma anche dei film realizzati, don Luis è estremamente prolifico ma diseguale negli esiti. E nello stesso anno del notevole "Estasi di un delitto" realizza lo zoppicante "Gli amanti di domani". La guerra è finita da 10 anni ma la diaspora dei grandi registi europei rifugiati nelle Americhe non è stata del tutto riassorbita: Jean Renoir, la cui esperienza hollywoodiana non era stata particolarmente esaltante, ritorna in Francia a passo ridottissimo e la sua filmografia ci ricorda che avrebbe completato il trasloco in ben otto anni ("French can can", 1954), via India ("Il fiume", 1950) e Italia ("La carrozza d'oro", 1952). Fritz Lang fatta salva una rapida puntata indiana (i bellissimi "La tigre di Eschnapur" e "Il sepolcro indiano", 1959) tornerà in Germania solo per chiudere, con il terzo episodio, la ricca saga di Mabuse ("Il diabolico dottor Mabuse", 1960). Alfred Hitchcock e Billy Wilder non si sposteranno più dalla California e... Luis Buñuel? Le cause della sua fuga non sono purtroppo venute meno; la Spagna, rimasta intelligentemente neutrale durante il conflitto, è ancora una dittatura fascista e Don Luis se ne tiene giustamente alla larga. Intensifica semmai il meccanismo della coproduzione, soprattutto con l'amata Francia e anche con l'Italia, come è esattamente il caso de Gli amanti di domani. La protagonista è la Miss Italia 1947 Lucia Bosè e nel cast Don Luis ritrova anche il suo amato feticcio Gaston Modot, già protagonista de "L'age d'or". Per la prima volta dopo molti anni gli è affiancato un montatore serio, la bravissima Marguerite Renoir (sorella di Jean) e nel cast non figura neanche una comparsa sudamericana. Il riferimento al titolo originale ("Cela s'appelle l'aurore"), proviene dalla battuta finale dell'"Elettra" di Jean Giraudoux; 20 anni dopo Jean - Luc Godard omaggerà entrambi mettendo la battuta in bocca alla splendida (e moribonda) Maruskha Detmers, la Carmen anni '80 dell'entusiasmante "Prènom Carmen" (1983). Eppure il film, che guadagna anche un Oscar come miglior soggetto, assegnato a Robert Lord, non riesce e non ha fortuna. Tagliata selvaggiamente nei vari doppiaggi internazionali (in Italia ne arriva una versione di soli 69 minuti!), la storia diventa un pasticcio di registri narrativi e location suggestive (interni in teatro di posa a Parigi; gli esterni tra Bastia e la Corsica) ma poco funzionali a dare il giusto tono narrativo. La Bosè, pur parecchio fotogenica, non buca lo schermo, fallisce il transfer emotivo con lo spettatore e, probabilmente, con lo stesso Don Luis. Così, nonostante una sorta di insperato lieto fine di chiara matrice buñueliana, questa sordida storia antiborghese sembra, al più, confermare che è finita la stagione dell'amour fou, rimpiazzato dai beceri calcoli di posizione e rispettabilità sociale. Alcuni mesi prima, don Luis aveva rivisto André Breton che gli aveva detto, amareggiato: "Non esiste più lo scandalo"[7] e persino un genio rivoluzionario come Salvador Dalì dipinge quadri che arredano adesso le caserme di polizia...

La mancanza di feeling con l'attrice principale può essere una buona chiave di lettura per spiegare il parziale fallimento de La selva dei dannati, ambizioso film del 1956. Si conferma la co-produzione franco-messicana e Marguerite Renoir ne cura il montaggio. Il titolo originale ("La mort en ce jardin") rende meglio l'idea di un dramma che si sviluppa in una "selva oscura" resa famigliare da un perpetuo girare in tondo senza soluzione di continuità, come in un giardino, come in un sogno. Così come de "Gli amanti di domani", anche de "La selva dei dannati" circolano due versioni, una di 145 e l'altra, selvaggiamente sforbiciata, di 107 minuti. Un gruppo di cinque cercatori di diamanti scappa nella giungla per raggiungere, via fiume, il Brasile e la libertà. La lotta per la sopravvivenza si rivela però densa di ostacoli sia naturali (le fiere, le piogge, la natura ostile) sia sociali (gli attriti interni al gruppo e la feroce caccia ai fuggitivi della polizia). Il cast è di ottimo livello: un giovane Michel Piccoli, prete missionario dal petto villoso e dalla fede incrollabile, anche troppo, cui Don Luis mette di fronte una tesi scabrosa, una di quelle che avranno di sicuro fatto arrabbiare il Vaticano: "I missionari sono l'avanguardia dei negrieri..."; il bravissimo Charles Vanel, il personaggio più intrigante, perfettamente a fuoco come vecchio saggio prima e lucido folle poi e che ritroveremo, 6 anni dopo, in un ruolo molto simile, il ricco avventuriero della dinastia Ferchaux ne "Lo sciacallo" di Jean-Pierre Melville. La coppia di "eroi" è interpretata dal farabutto Clark (un Georges Marchal decisamente statico) e dall'avvenente Gin (una Simone Signoret sicuramente bella ma dal potenziale erotico modesto), memorabile nella sequenza della "vestizione", una splendida inversione à la Buñuel, quando, mentre tutti sono laceri, sporchi, feriti e disidratati, lei si lava, si trucca e indossa uno splendido abito da sera, lì, nella giungla... Don Luis si fa aiutare, nella scrittura, da una delle massime penne francesi degli anni '50 - '70, il "neo-surrealista" Raymond Queneau di cui in tutta onestà non troviamo traccia né nell'intreccio né nei dialoghi. Il film scivola via senza particolari acuti, salvo la sequenza onirica di una colonia di formiche che solleva un serpente (morto) e alcuni rimandi nei dialoghi a un'ossessione tipicamente surrealista, per le uova sode. Più interessante è invece la fotografia in Eastmancolor di Jorge Stahl che opta per una palette ristretta di colori pastello a dominante grigio-perla e blu pallido.Il tema della "discesa all'inferno" e della lotta per la sopravvivenza sono solo parzialmente liberati dallo stereotipo frusto e abusato di cui sono normalmente oggetto e solo qua e là Buñuel riesce a piazzare le sue inversioni, quel "realismo interiore" che l'ipocrisia generale ha spesso bollato di crudeltà gratuita e compiaciuta. È anche probabile che "La selva dei dannati" sia ancora una tappa intermedia che scopre, per esempio, Michel Piccoli (lo vedremo spesso da adesso in avanti) ma lascia ancora scoperti i ruoli dei protagonisti, prima tra tutti la "musa bionda" che la pur bravissima Signoret non era in grado di sostenere. Bisognerà aspettare il 1966, "Bella di giorno" e l'inquietante Catherine Deneuve, quello sì volto sadiano e adatto a don Luis!

L'intero 1957 è uno dei rari periodi di riflessione; Buñuel prende un anno "sabbatico" che culminerà in uno dei migliori film del periodo messicano e dell'intera filmografia buñueliana: Nazarin. Convitato di pietra fin da quando uno stralunato duca di Blangis abbandona il castello delle nefandezze de "Le 120 giornate di Sodoma", ebbro di sesso e morti efferate, e ha il volto inequivocabile di Gesù Cristo ("L'age d'or"), tema sentito da un "ateo per grazia di Dio"[8 ], oggetto di scherno nelle sequenze più dissacranti ma anche di ammirazione quando era questione di bastonare la modernità e i suoi derivati peggiori, l'"informazione", il "debolismo spirituale", l'innovazione tecnologica esasperata... "Nazarin" è un film totalmente religioso, cristologico, che ruota intorno all'ottima interpretazione di Francisco Rabal che indossa i panni lisi di un prete povero, onesto, toccato dalla Grazia e formidabile testimone delle Virtù Teologali: Fede (incrollabile), ottimistica Speranza, instancabile esercizio della Carità. Insomma, un uomo semplice la cui missione è la diffusione della Buona Novella, l'amore verso il Prossimo come fosse lui stesso, il rifiuto di godere i privilegi che i paesi latini tributano generosamente agli ecclesiastici e, in ultima analisi, specchio di quel Messia che se si dovesse ripresentare alle nostre porte sarebbe ancora una volta dileggiato, scacciato e infine perseguitato. Il film è girato in un torrido b/n che esalta l'instancabile vagare della sua sagoma scura sulle strade bianche di tufo, palcoscenico di poveri, mendicanti, malati infetti, puttane, uomini incatenati e carrozze di ricchi che scappano da tanto degrado sollevando grandi polveroni. Nazarìn, suo malgrado, è coinvolto in una serie di episodi spiacevoli e di un evento ambiguo che l'isteria popolana fa gridare al miracolo. Così, un gruppetto di "ultimi" abbandona tutto (in realtà molto poco) e lo segue speranzoso: Andara (Rita Macedo), una prostituta brutta e vecchia; Beatriz, una bella fanciulla innamorata di un farabutto e Ughetto, un nano innamorato di Andara cui ripete sempre, come un mantra: "Ti stimo. Anche se sei brutta, ti stimo...". Lo strano quartetto attraversa a piedi mezzo Messico fino a quando le scandalizzate Istituzioni, il governo (su Andara), il clero (su Nazarìn) e la famiglia (su Beatriz) spezzano i fili e instradano ognuno verso un destino/punizione. "Nazarin" è un film di grana superiore. Già dalla prima sequenza Buñuel pesta il piede sull'acceleratore e mette lo spettatore di fronte al dilemma: sullo schermo si succede una serie di fotografie in truka; l'ultima, un campo lungo di una strada sterrata, si anima improvvisamente e ci ritroviamo catapultati nella finzione. È l'unico "miracolo" che Don Luis mette in scena. Notevole è la sequenza girata nella stanzina della bimba moribonda dove le fervide preghiere di Nazarìn si accavallano alle urla e alle invocazioni superstiziose di parenti, amici e semplici curiosi che costruiscono un muro religioso di notevole impatto e suggestione. Come è spesso caso nei film di Buñuel, infine, si finisce se non proprio con un impossibile happy end almeno con la Speranza (di noi spettatori) davanti all'esercizio delle virtù teologali di Nazarìn che, affranto e spossato, sembra aver perduto la Fede e risponde malamente a una popolana che gli aveva allungato un pezzo di pane. Subito pentito, accetta il povero dono, ringraziando Dio e la donna di quel gesto di Carità.

Il 1959 è l'anno del ritorno al tema delle enclaves, quei luoghi geografici che per le loro caratteristiche fisiche influenzano fortemente i comportamenti di chi le abita. L'isola che scotta è una parte di un' "allegra" democrazia centroamericana composta dell'isola e di una terraferma non meglio identificata; il capoluogo, El Pao, è il terminale di raccordo con la capitale, sede del governo dispotico. A differenza de "Le avventure di Robinson Crusoe", la nostra isola non è un luogo dimenticato; al contrario è nevralgico perché la sua posizione naturalmente defilata ne ha fatto il punto di raccolta della cospirazione democratica e, allo stesso tempo, il posto più sicuro dove edificare un'efficientissima prigione-lavoro che ospita sia i delinquenti comuni, ladri affamati, sia quelli politici, i cospiratori sfortunati. La bella Ines è la vedova del governatore Vargas, assassinato, nonché l'amante del "progressista" Vasquez. La sua figura è erotizzata fin dalla prima inquadratura, (co)stretta in un tubino nero e ornata di un vistoso filo di perle che mettono in risalto la sua natura annoiata, passionale, ambiziosa e per niente rassegnata alla monotona quotidianità insulare. Don Luis trova il giusto feeling con l'attrice Marìa Felix (qualcuno la ricorderà primadonna in "French can can" di Jean Renoir, 1954) che poco più avanti vedremo discinta mentre si gode un paio di ceffoni del marito tradito e, a metà film, costretta a uno strip-tease che ha il solo scopo di umiliarla. A suo modo ape regina (o, meglio, mantide religiosa), omaggio al profondo amore entomologico di Buñuel, in un certo senso "amante diabolica" e motore di una sorta di amour fou, Ines è il personaggio meglio risolto. Tra le sequenze memorabili, è decisamente riuscito il raccordo simbolico tra la tauromachia che inquieta il nuovo amante di Ines, Gual, neo-governatore dell'isola, perfido e corrotto, che intravede nella morte del possente toro, prima sfinito dalle veroniche della muleta e poi finito con un preciso colpo di spada dell'elegante torero, il suo stesso destino... È un film politico, pessimista, che mette in scena le infinite risorse del Potere cui tutto, persino "la" questione privata per eccellenza, l'amore, va in suo soccorso. Ai buoni resta solo il colpo di coda, la redenzione dell'ultimo atto, il suicidio invocato con un marginale gesto di disobbedienza che consente, almeno, di morire in pace. Da gentiluomo qual era, Don Luis ha sempre dotato i suoi protagonisti di una pastiglietta di cianuro per uscire di scena con un certo stile...

Uno dei titoli italiani più assurdamente drammatizzanti, Violenza per una giovane, contraddistingue il film che va a chiudere un decennio caratterizzato da cinque coproduzioni internazionali, tra cui la presente: "La joven", ovvero "The Young One". Fa un certo effetto sentire gli attori che recitano in inglese in quello che è per eccellenza il film statunitense (più del "Robinson Crusoe", anch'esso coprodotto Usa) - il film cioè della nazione che lo ha sempre respinto - del Nostro. Ambientata in un isola a sud-est del paese a Stelle e Strisce, la pellicola racconta di una quattordicenne orfana che vive in una riserva di caccia abitata soltanto da lei, suo nonno (anziano e alcolizzato) e un guardaboschi. Quest'ultimo, alla morte del vecchio, prova a sedurre la nipote. Anche se l'approdo di un musicista di colore introduce la tematica razziale, il film è esattamente ciò che ci si aspetterebbe dal suo autore: la descrizione di una società violenta, isolata in un ambiente circoscritto, con il solito - ma più prevedibile del solito - bestiario che si innesta meccanicamente nella narrazione senza spiazzare il fruitore. L'immeritato Premio speciale della giuria a Cannes indica comunque che la critica europea ha ripreso interesse verso un grande maestro che sa valorizzarsi con discontinuità.

E infatti con il film successivo arriva la strameritata - questa volta - Palma d'Oro alla Croisette (ex-aequo con il modesto "L'inverno ti farà tornare" di Henri Colpi). Don Luis torna a lavorare in una Spagna che sta vivendo una presunta ma solo apparente svolta liberale seguìta al suo ingresso nell'Onu. Il disappunto degli antifranchisti per il suo ritorno è grande, ma basta la visione del capolavoro del vecchio anarchico (che in un articolo dell'Osservatore Romano è accusato di blasfemia - e in Italia condannato in contumacia a un anno di carcere per vilipendio alla religione di stato - per questo film, che scatena polemiche paragonabili a quelle sollevate da "L'age d'or") per fargli cambiare idea. Prima di prendere i voti, la novizia Viridiana acconsente di andare a trovare suo zio don Jaime, che in vita sua ha visto pochissime volte ma che, a distanza, l'ha a lungo mantenuta. Quando lo zio (Fernando Rey: il suo volto ci diventerà presto familiare) la vede, la sua memoria va alla defunta moglie. Inizia così a sedurla rimediando una serie di rifiuti che lo conducono a suicidarsi e a lasciare la sua eredità per metà a lei, per metà a suo figlio naturale Jorge (Francisco Rabal, altro aficionado). Viridiana decise così di abbandonare il convento e di dedicare la vita ai poveri. Come altri grandi film di altri maestri del cinema (si pensi a "L'orgoglio degli Amberson" o a "Il gattopardo") anche Viridiana affronta il tema marxiano delle classi sociali mostrando l'ascesa di una borghesia operosa contrapponendola - ad esempio in una sequenza in montaggio parallelo mirabile per sintesi ed efficacia - al declino di un'aristocrazia parassitaria. È qui che si inserisce il tentativo di composizione delle contraddizioni sociali operato dalla religione cattolica, che ha in questo caso il compito di addomesticare la natura immorale, egoista e autenticamente eversiva (potremmo dire anarchica) del sottoproletariato ai margini della società e al di fuori di ogni processo produttivo e decisionale. Ma Viridiana, la cui natura umana è ovviamente corruttibile, fallisce miseramente. Se questo straordinario spaccato delle classi nella loro evoluzione - ma anche immutabilità - storica rappresenta la particolarità di questo capo d'opera della settima arte, la progressiva immersione di Viridiana in una realtà infernale regala innumerevoli momenti tipici della poetica del regista, qui in una forma di rara lucidità e perfezione: le reazioni di don Jaime e di sua nipote di fronte al corsetto da sposa (la moglie dello zio morì d'infarto proprio il giorno delle nozze) o ai simboli della Passione (chiodi, corona di spine); l'imbarazzato contatto di Viridiana con i capezzoli della vacca e la somigliante corda per saltare, utilizzata da don Jaime per impiccarsi; l'esatta riproduzione dell'"Ultima cena", che dà il calcio d'inizio alla totale, definitiva degenerazione del contegno e dei costumi all'interno della villa. E così via: eors e thanatos si rincorrono all'infinito sotto forma di feticismo, necrofilia, autentico istinto sessuale senza freni. La repressioni e le perversioni di nipote e zio lasciano il campo alla purezza della pulsione disinibita di chi è scevro da sovrastrutture sociali e mentali. Un'ultima menzione per un finale che, modificato per volontà censoria della produzione, acquista maggior forza metaforica e resta impresso come uno dei migliori mai visti su uno schermo.

D'ora in poi Buñuel girerà quasi solo grandi film, ma è forse con "Viridiana" e il successivo L'angelo sterminatore che raggiunge la vetta della sua ispirazione: si tratta infatti di due soggetti originali, di due film consecutivi completamente diversi dal lato stilistico nell'estrema coerenza tematica e poetica, di due vette all'interno della sua produzione e della storia del cinema. Quanto "Viridiana" appariva classico e lineare, così L'angelo sterminatore risulta moderno e criptico, un viaggio nel sogno privo della mediazione della realtà, un'opera teorica che, nel suo barocchismo visivo, non rinuncia all'efficacia della forma cinematografica lasciando lo spettatore affascinato e al contempo completamente spaesato. La villa di Edmundo Nobile ospita un gruppo di borghesi di ritorno da una serata trascorsa a teatro. Mentre la servitù si affretta ad andarsene, accampando i più svariati pretesti, una forza oscura impedisce agli ospiti di fare lo stesso. Neanche dall'esterno è possibile intervenire in soccorso de "i naufraghi della via Providenza" (doveva essere questo, inizialmente, il titolo del film). I giorni passano, la sovrastruttura del ritegno progressivamente viene meno, le pulsioni autentiche emergono e si scatenano, mentre la lussuosa abitazione ospita anche orsi e agnelli (sacrificali). Esplicitamente onirico (basti vedere le irrazionali iterazioni, come il doppio brindisi all'interprete dell'opera cui hanno assistito a teatro) nel suo surrealismo di fondo, il film contiene anche dei sogni veri e propri, uno dei quali (la mano mozzata) produce effetti anche sulla realtà come il cagnolino che si materializza in "Salita al cielo". Ma oltre a una confusione tra veglia e sonno, il film opera anche una collettivizzazione della sfera onirica, non solo nel senso generale della pellicola, anche nello specifico del sogno - comune a tutti - delle statue, delle montagne, delle nuvole, in cui la presenza di un violoncello distrutto congiunge l'esperienza dei personaggi all'autobiografia dell'autore. L'enigma che impedisce l'uscita degli ospiti è momentaneamente sciolto quando ognuno riprende la sua posizione e, abbandonati gli istinti primordiali, il suo posto - storicamente determinato - nel mondo. Ma il problema si ripresenta quando il regista, allargando lo sguardo ad altri due pilastri della società - e di quella latino-americana in particolare - rinchiude i protagonisti in una chiesa e chiude il discorso con un intervento dell'esercito che non risolve la situazione di stallo. Anche in quest'opera neo-avanguardistica che coniuga psicoanalisi e religione (l'angelo sterminatore è una figura biblica del libro dell'Apocalisse), la riflessione sulla realtà contemporanea è comunque centrale.

Il successivo Il diario di una cameriera, prima (e meno riuscita) collaborazione con lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière, segna il ritorno, non ancora definitivo, di don Luis in Europa. È la Francia l'inevitabile location per la trasposizione del romanzo omonimo di Octave Mirbeau, che gli autori però ambientano nei primi anni trenta, con lo spettro dei fascismi che si aggira per il continente. Ovvero trent'anni più avanti rispetto al testo d'origine. Il film racconta di Célestine, una governante appena assegnata al servizio di un vecchio ricco agrario, a sua volta circondato da potenziali eredi e vicini di casa di classe inferiore, e come di consueto affetto da perversione feticista. Il quadro delineato è tipico del Nostro; un omicidio -elemento atipico nella sua poetica - reso in maniera mirabilmente cruda, nell'insieme cambia però ben poco: "Il diario di una cameriera" è sostanzialmente un'opera interlocutoria, nonché stranamente fiacca. Il rimando al questore Chiappe - colui che aveva fatto sequestrare "L'age d'or" - al di là di un antifascismo fuori tempo massimo è poco più che una curiosità.

Il congedo (Buñuel manterrà la cittadinanza messicana) con la realtà di un'America Latina in piena crisi del debito avviene emblematicamente con un'esperienza produttiva fallimentare: la brusca interruzione di Intolleranza: Simone del deserto per mancanza di fondi. La parabola di Simone lo stilita, eremita penitente che vive appollaiato su colonne sempre più alte in mezzo al deserto della Siria, si conclude così - in fretta e furia - in un locale da ballo di New York, a sancire la vittoria dell'Avversario (nelle vesti di una procace fanciulla). Il mediometraggio di 45' che ne deriva si configura come un pamphlet sull'impossibilità di resistere alle tentazioni (fame, pulsioni erotiche, orgoglio) anche per chi come Simone (si notino le frequenti inquadrature dal basso, che non sono solo mosse da ragioni "logistiche", ma danno anche un'aura di sacralità al protagonista) è in grado di fare miracoli. Ed è questa la sostanziale differenza col Nazarin del film omonimo: Simone non rifiuta il ruolo del profeta, per quanto si ritenga indegno di essere ordinato sacerdote. Ma le divergenze sono rilevabili anche nella recitazione aulica di tutti i personaggi. Anche se i miracolati, appena ottenuta la grazia, tornano alle loro bassezze (le mani riacquistate servono a picchiare la figlia...) e al linguaggio naturalisticamente scurrile, palesando la falsità del loro pentimento. Tratto da un soggetto risalente all'epoca dell'amicizia con Garcia Lorca, ottimamente girato con la complicità della potente fotografia del fido Figueroa, sconta un certo schematismo (è praticamente un film a episodi, spesso scanditi dal ritmo dei tamburi di Calanda), riscattato però dalla profondità intellettuale delle riflessioni. Il punto di vista dell'autore è rivelato dal monaco Daniele, che a partire da una discussione sulla proprietà rimprovera a Simone di condurre una vita avulsa dalla realtà circostante. La sequenza in cui la moglie del monco gli rammenta che riacquisite le mani dovrà inevitabilmente lavorare sembra anticipare di pochi anni l'episodio del cieco e dello storpio del "Mistero buffo" di Dario Fo.

Ristabilitosi stabilmente in Francia e superato ormai ogni ostacolo produttivo, Buñuel si accinge a realizzare i capolavori della maturità, frutto di una creatività e di una libertà espressiva senza freni. Il primo capitolo di questa ultima fase coincide con l'opera "borghese" dell'autore, nonché con il suo massimo successo di pubblico, determinato anche dall'algida bellezza e dalla bravura di una repressa e curiosa Catherine Deneuve, che viene lanciata da questo film e che sul personaggio di Séverine ricalcherà molti ruoli futuri (pur rifiutando, quarant'anni dopo, di prender parte al sequel del film di Buñuel diretto da Manoel de Oliveira). Ma sull'esito al botteghino incide anche il lato pruriginoso dell'opera, se è vero che molti spettatori si interrogano sul misterioso contenuto della scatoletta del cliente asiatico, rispetto al quale la disinibita protagonista non si tira indietro, a differenza di una sua collega.. Bella di giorno è tratto dal romanzo di Joseph Kessel: il fatto che il Nostro non ami il testo, lungi dal costituire un impedimento, rappresenta piuttosto una sfida. Inutile ricapitolare la trama di un film celeberrimo che rappresenta, oltre al ritorno alla realtà di una metropoli (Parigi) dopo alcune location rurali, un punto d'arrivo nella riflessione sull'insoddisfazione della vita borghese e sulla pericolosa inadeguatezza dell'educazione cattolica: la scelta di Séverine, prostituta d'alto bordo per mezza giornata, è l'estrema conseguenza di entrambe. Non è un caso che la mannaia della censura si sia abbattuta anche su questo film: ad esempio nell'edizione italiana mancano il ricordo della prima comunione della protagonista e qualche richiesta estrema dei clienti. Quasi privo di ironia, a tratti morboso, forse un po' datato al cospetto delle perversioni attuali, "Bella di giorno" mostra un Buñuel-regista un po' a disagio nelle sequenze di gruppo all'interno della casa chiusa. Non per questo è giustificata l'esclusione da Cannes per "insufficienza artistica" se è vero che, lo stesso anno, il festival di Venezia accoglie il film a braccia aperte e gli assegna il Leone d'oro.

Nel bel mezzo di quei moti sessantottini che avrebbero potuto tranquillamente solleticare un anarchico come Buñuel - il quale ha tuttavia rifuggito sempre la stretta attualità - don Luis decide di chiudere i conti con il tema che da sempre lo ossessiona più di tutti gli altri (al massimo, lo spareggio è con il sesso...): la religione, la forza eversiva del suo insegnamento, la negazione dello stesso operata dalla Chiesa e in generale dalle manifestazioni storiche del "cattolicesimo reale", di cui denuncia l'ipocrisia, l'intolleranza, le contraddizioni. Con La via lattea, infatti, il cineasta aragonese intraprende un viaggio picaresco nella storia delle eresie, a fianco di due squattrinati che seguono il sentiero (da cui il titolo del film) diretto a Santiago de Compostela. Per azzardare un paragone onestamente un po' campato in aria, possiamo dire che l'operazione è analoga a quella compiuta dal cantautore anarchico della musica italiana, Fabrizio De André, che nello stesso periodo compone "La buona novella" prendendo spunto dai vangeli apocrifi[9]. Gli echi del '68, pressoché assenti nell'album del musicista, nel film fanno capolino solo di tanto in tanto: un Priscilliano che predica l'amore libero, qualche anatema contro i vegetariani a una recita scolastica, un messo dell'inferno che si presenta come "un operaio che non sciopera mai". Con la disinvoltura di una chiacchierata sul calcio al tavolo di un bar, Buñuel affronta i sei dogmi dell'Eucarestia, della Trinità, della natura di Cristo, dell'Immacolata Concezione, dell'Origine del male e del Libero Arbitrio, avvolgendo il film in una struttura caleidoscopica non scevra di zampate feroci (Cristo che ridà la vista a un cieco con lo sputo, l'interrogativo su cosa diventi il corpo del profeta una volta nello stomaco, la fucilazione del papa), pur nel costante mantenimento di un controllato distacco critico. Trova il modo di omaggiare anche de Sade mostrandolo sullo schermo mentre cerca di convincere una fanciulla della non esistenza di Dio. Scambiato per puro divertissement al limite del nonsense, è invece un film basato su una mole di testi ufficiali e ufficiosi accuratamente studiati e selezionati dall'autore, che ormai vanta una conoscenza enciclopedica in materia. E, a dispetto della fragilità e della pochezza di cui è accusato dalla critica (spesso non molto benevola con gli ultimi film apertamente surreali del regista), al contrario sfiora talvolta il didascalismo, come nella celebre sequenza del duello (in senso letterale!) teologico sulla dottrina della giustificazione.

Location medievale, una Toledo pizzuta e in chiaroscuro, per l'adattamento del romanzo di Benito Peréz Galdòs, Tristana. Nella variazione sul tema degli uomini anziani che amano giovani donne, il regista richiama in servizio Catherine Deneuve, già protagonista di "Bella di giorno". In realtà si tratta di un ripiego poiché la prima scelta sarebbe stata la giovane e carnale Stefania Sandrelli; l'impossibilità di ingaggiarla offre a Don Luis di cambiare completamente registro e offrire il ruolo all'eterea e esangue diva francese. Questa apparente oscillazione tra bionda/bruna, carnale/cerebrale ormonale/frigida è risolta, a modo suo, solo nell'ultima opera, "Quell'oscuro oggetto del desiderio", nel quale il regista spagnolo riunisce in un unico personaggio i tratti polarizzati di Angela Molina e Carole Bocquet. "Tristana" è un film totalmente europeo, meno interessato alla tresca amorosa, al rapporto virulento tra i sessi, alle vendette e alle ripicche che tanto avevano appassionato la committenza sudamericana; si torna, invece, a temi più sentiti dalla cultura europea, raffinata, decadente, smagata e ormai irrimediabilmente "post". Così, i piani di consistenza si allargano dai naturali protagonisti Don Lope (un muscolare e impettito Fernando Rey) e Tristana fino a abbracciare la location, Toledo, che offre contesto e tono della narrazione (lunghe passeggiate su strade larghe e spianate, pasticcerie, chiese baciate dal sole, tempo scandito dalle campane e dai battiti dei lavori artigianali...) e all'oggetto-feticcio che nel film in questione è la gamba di legno di Tristana, solo in ultima analisi strumento adiuvante e invece più pregno di valore simbolico (gruccia su cui sistemare il corredo dell'intimo, martelletto che batte sul parquet di legno e tormenta il già provato Don Lope e, in ultima analisi, oggetto sessuale in sé, ferita spaventevole su cui si pone lo sguardo erotizzato e mai realizzato del vecchio sulla giovane). Tutto sommato, "Tristana" assomiglia anche troppo a "L'age d'or", al suo tema onirico e ossessivo dell'insoddisfazione degli amanti cui non è possibile il congiungimento. E, nell'epoca del "post", ciò che è cambiato è il soggetto di negazione che a inizio secolo è il caosmos e oggi è uno dei due, la donna. Una curiosità e una nota di merito per Franco Nero, uomo "designato" a sposare Tristana che alfine cede e scappa. Nel film è un pittore di buoni modi e ugual talento ma scarsa spina dorsale: se ne ricorderà Elio Petri ne "Un tranquillo posto di campagna" (1968).

L'impossibilità di mangiare e il camminare all'infinito senza meta su una strada deserta: sono i simboli dell'inettitudine del potere, nonché i fili conduttori che che accompagnano lo spettatore tra le sequenze de Il fascino discreto della borghesia, forse l'ultimo capolavoro dell'autore, uno dei suoi film più celebri, probabilmente una delle vette della storia del cinema nonché uno dei film-simbolo del decennio. Buñuel arruola alcuni dei suoi attori preferiti (da Fernando Rey a Michel Piccoli, da Julien Bertheau a Milena Vukotic) e realizza, con la collaborazione di Carrière in sceneggiatura e grazie a una fluidità del racconto mai raggiunta in precedenza, quella che è una summa della sua poetica. Sotto accusa la classe sociale del titolo, ma anche gli altri pilastri della società borghese: chiesa, esercito, politici. Se il cibo è il bisogno primario principalmente inappagato, il sesso lo accompagna in maniera dialettica (nel senso hegeliano del termine): un pasto è impedito da una fugace scappatella in giardino - il secondo invito dai Sènèchal - la visita di Simone all'ambasciatore è interrotta dall'annuncio di un invito a cena. Il connubio si ripresenta quando don Rafael estrae il cibo dalla borsa della militante armata che ha appena neutralizzato, preannunciandole al contempo un futuro fatto di cosce aperte innanzi alle autorità. Ma "Il fascino discreto della borghesia" è soprattutto l'opera con cui si afferma una volta per tutte il primato del sogno come strumento di analisi della realtà ("i sogni... certe volte..." balbetta eloquentemente il Ministro dell'interno). E in effetti la sfera onirica rivela la natura criminale dei protagonisti (alte personalità che trafficano in cocaina) e la corruzione dei poliziotti, pronti a rilasciarli al più presto mentre non avevano esitato a usare brutalità per reprimere gli studenti (è la memorabile sequenza del brigadiere insanguinato). Aggancio, quest'ultimo, con i movimenti politici di quegli anni, richiamati anche col personaggio del prete giardiniere (ci sono i preti operai - ci dice - e dunque anche giardinieri), bene accolto solo nelle vesti talari, cacciato in malo modo quando si era presentato in abito da lavoro. Un proletario, dunque, ma anche un uomo di Chiesa, pertanto un ipocrita agli occhi del regista, che gli fa addirittura commettere un omicidio (la vittima era a sua volta l'assassino dei suoi genitori, ma in punto di morte aveva bisogno soltanto di essere confessato). Un lavoratore che vediamo ben poco nell'atto di lavorare: in generale, la classe dirigente mostrata dal Nostro non sembra sfruttare il proletariato, né produrre ricchezza. È solo un ceto parassitario che non si differenzia da quell'aristocrazia che ha spodestato alle redini del pianeta; una concezione che il Nostro ha verosimilmente derivato da ciò che ha visto in America Latina e che traspone in Francia, il paese della rivoluzione borghese per eccellenza. Il terzomondismo e la lunga permanenza in Messico paiono altresì all'origine dell'invenzione di Miranda, non il paese idilliaco dipinto dal suo diplomatico, ma una corrotta repubblica delle banane rifugio dei nazisti in fuga dall'Europa. Anche in quest'ultimo caso a rivelare come stanno effettivamente le cose è il sogno, che si è fatto ormai preponderante al punto da spiegare la sfera onirica medesima (il sogno di Thévenot che contiene a mo' di matriosca quello di Sénéchal), oltre che smascherare le ipocrisie di tutte le classi sociali, i cui membri interpretano dei personaggi ben precisi, recitando un copione prestabilito: un po' come il "Don Juan Tenorio" di Zorrilla declamato dai protagonisti che, nel sogno di Sénéchal, si ritrovano su un palcoscenico teatrale.

Un titolo mutuato da "Il manifesto del partito comunista", che è anche un'autocitazione de "La via lattea", per un film che a sua volta inizia citando il quadro di Goya "Le fucilazioni del 3 maggio", prima inquadrato poi ricostruito con la presenza dello stesso regista (che ha per anni bramato un film sulla vita del pittore spagnolo) e del produttore tra le comparse: lungi dall'avvitarsi su se stesso e dal servire la solita minestra, il cinema di Buñuel prosegue con coerenza il proprio percorso con forme nuove (qui in particolare il narrato, che segue un personaggio per poi abbandonarlo e seguirne uno nuovo senza stacchi di montaggio, si dipana tramite un'ininterrotta concatenazione). Il fantasma della libertà è infatti un ennesimo grande film, per quanto poco conosciuto e spesso e volentieri frainteso e sottostimato. Oltre al titolo, anche la prima sequenza, che si chiude con i condannati che gridano "Viva le catene!" (nell'edizione italiana "Abbasso la libertà") in faccia all'invasione napoleonico venuto a portare la cultura liberale (chissà che agli americani del nuovo millennio non fischino le orecchie...) pone l'accento sul tema della crisi e della sconfitta delle illusioni, che ricorre nelle tarde opere buñueliane. Per il regista aragonese, il mondo è ormai completamente sottosopra: si mangia chiusi in bagno e si defeca a tavola (il rimando è anche a un sogno ricorrente di chi è affetto da disturbi legati all'alimentazione) seduti su un water, le cartoline panoramiche sono oscene, i condannati vengono rilasciati immediatamente dopo il processo e così via. Il ribaltamento delle convenzioni si accompagna alla presenza di elementi incongrui inseriti in contesti di apparente normalità (la donna nuda in una stanza elegante) e all'estremizzazione di piccoli lapsus di tutti i giorni (la vicenda della bambina non vista dai genitori pur essendo davanti ai loro occhi, esasperazione di un fenomeno descritto da Freud nella "Psicopatologia della vita quotidiana"). Per arrivare all'assurdità esplicita (il "doppio sindaco", la carica della polizia - ma l'episodio è poco chiaro - sugli animali dello zoo). Superati i settant'anni, ormai è lo stesso Buñuel, non solo il suo cinema, a non avere freni inibitori.

Guardando alla cronologia della produzione dell'ultimo film, possiamo ipotizzare che l'orientamento iniziale fosse verso un'opera relativamente convenzionale (l'origine è il romanzo "La femme et le pantin", "La donna e il burattino", di Pierre Louÿs; l'intenzione dell'autore di adattarlo risaliva al '57) e che poi, capendo di non avere più molte cartucce da sparare (i problemi fisici che il Nostro accumula in questi anni non si contano), l'autore surrealista per eccellenza abbia cercato di lasciare più impronte possibili ascrivibili alla sua poetica. In Quell'oscuro oggetto del desiderio, infatti, molte scelte non convenzionali sono state apportate in corso d'opera. A partire da quella più appariscente: il ricorso a due attrici differenti (al posto di Maria Schneider, reduce dal successo di "Ultimo tango a Parigi", sostituita all'ultimo momento) per interpretare il medesimo personaggio - Conchita: diciottenne, vergine, orfana di padre, domestica e ballerina - a sottolinearne la natura schizofrenica e sfuggente. Da un lato fredda e timida (il volto è quello di Carole Bouquet), dall'altro estroversa e passionale (Angela Molina). Ma è difficile ricondurre i momenti in cui compare la medesima attrice a un comportamento univoco: il regista è abile nell'inserire puntualmente un episodio che disorienta lo spettatore nelle sui convinzioni. Ennesime variazioni sul tema del doppio. Stesso discorso per la sequenza finale (la camicia da notte macchiata di sangue e l'esplosione che pone termine a una situazione apparentemente aperta), la più enigmatica e dibattuta. In un viaggio in treno tra Siviglia e Madrid Mathieu narra ai suoi compagni di viaggio (tra cui un nano) la sua storia con Conchita (a cui prima della partenza ha gettato un secchio d'acqua addosso): l'impossibilità di possederla carnalmente, gli schiaffi morali subiti a causa del suo atteggiamento volutamente irritante. L'origine cattolica della repressione sessuale della donna è negata da Conchita stessa e comunque a uscirne peggio sono sicuramente gli uomini: sia Mathieu (una delle migliori interpretazioni di Fernando Rey, perfetto nel rendere l'ossessione del personaggio), che risulta un servo ingenuo e stupido accecato dall'erotismo, sia lo stesso regista, che non riesce a tenere a bada una latente misoginia. Considerando poi una presenza del terrorismo assurda (in quanto opera dei Gruppi Armati Rivoluzionari del Bambin Gesù) e talmente ricorrente da risultante noiosa (Spagna e Francia ne sembrano assuefatte), possiamo concludere che, al suo congedo dal cinema, pur mantenendo la proverbiale ironia Luis Buñuel palesa un pessimismo sociale e antropologico mai così evidenti.

 

 

Questa monografia deve moltissimo al volume: Auro Bernardi, "Luis Buñuel", Le Mani, Recco, 2000.
Ancor più ai preziosi contributi del co-autore PIERO CALO' ("La figlia dell'inganno", "Una donna senza amore", "Cime tempestose", "L'illusione viaggia in tranvai", "Le rive della morte", "Gli amanti di domani", "La selva dei dannati", "Nazarin", "L'isola che scotta", "Tristana").

NOTE

[*]Non bastasse una produzione copiosa spalmata su quarantotto anni di carriera, la fervida mente dell'autore ha concepito una lunga serie di progetti mai portati a termine: un paio di film porno, un documentario su Goya a un altro sulla schizofrenia, una vita di Gesù, una serie di adattamenti di romanzi talvolta girati - in seguito - da altri: "E Johnny prese il fucile", di cui scrisse la sceneggiatura insieme a Dalton Trumbo, "Il monaco" da Lewis, "Là-bas/L'abisso" da Huysmans. Aggiungiamo che don Luis avrebbe dovuto comparire in "Io e Annie" al posto di McLuhan (ma rifiutò) e girare "I prigionieri dell'oceano", progetto poi affidato a Hitchcock. E che pare abbia effettivamente girato, negli anni trenta, quattro film "orrendi" che non ha firmato.

[1]Calanda è famosa per il rito che si celebra tutti gli anni il Venerdì santo: i fedeli suonano dei tamburi ininterrottamente per ventiquattro ore (secondo altre fonti per tre giorni, fino alla domenica di Pasqua) per ricordare il presunto miracolo mariano del 1640 quando, si dice, la Madonna ridiede la gamba a un mutilato. Il rimando è al terremoto che seguì la crocifissione di Cristo e che suggerisce un'idea di morte. I "tamburi di Calanda" si odono più volte nei film di Luis Buñuel.

[2]Ma paese, in questo periodo, cinematograficamente fiorente. Lo stato, sulla scia della presidenza progressista di Lázaro Cárdenas, conferisce lauti finanziamenti ai film nazionali, che vengono addirittura esportati negli Stati Uniti. Tra questi, i più importanti sono quelli realizzati da Emilio 'Indio' Fernández, il più prestigioso di sempre tra i registi messicani.

[3]Cfr. Auro Bernardi, "Luis Buñuel", Le mani, Recco, 2000, p. 91

[4]Cfr. Alberto Farassino, "Tutto il cinema di Luis Buñuel", Baldini & Castoldi, Milano, 2000

[5]Cfr. Luis Buñuel, "Dei miei sospiri estremi", Rizzoli, Milano 1991, pag. 232

[6]Cfr. "Dei miei sospiri estremi", op. cit., pag 222

[7]Cfr. "Dei miei sospiri estremi", op. cit., pag. 130

[8]Cfr. "Dei miei sospiri estremi", op. cit., pag 185

[9]Ma anche il coevo "Mistero buffo" di Dario Fo, che abbiamo già citato, va nella stessa direzione





Luis Buñuel