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Da "Terra di mezzo" a "L'imbalsamatore", passando per "Estate romana", Matteo Garrone si è rivelato uno dei cineasti italiani più interessanti della nuova generazione. I suoi film, tesi e poetici, sono spesso ispirati da fatti di cronaca

Uno degli processi fondamentali che regola l'industria cinematografica è quello della distribuzione. Purtroppo l'odierna situazione, in Italia, è dominata quasi completamente da chi gestisce un certo potere distributivo, in quanto parametro ineluttabile e garante di un certo ritorno economico, indispensabile per rendere una certa continuità produttiva. Si è parlato e si parla ancora di crisi del cinema di casa nostra ma ciò che non traspare è che, invece, i film si sono fatti e si continuano a fare anche molto bene. Con l'avvento del digitale non è più un grande problema economico realizzare un lungometraggio. Difficoltà di distribuzione, quindi, e non di produzione. Uno dei nostri cineasti che di cinema ne sta facendo davvero bene e che ha potuto trovare spazio proprio grazie alla buona distribuzione dei suoi ultimi lavori è Matteo Garrone.

Nato a Roma nel 1968, Matteo Garrone è figlio di un critico teatrale, circostanza che lo porterà spesso, durante gli anni della sua giovinezza, a frequentare l'ambiente del teatro. La passione che ripone nell'oggetto "macchina da presa" e la volontà di cogliere ogni effimera situazione, particolare o movimento, lo "costringerà" ad assumere il ruolo di operatore per tutti i suoi film.

Nel 1996, Garrone è premiato al Sacher festival per il corto "Silhouette" che ritroveremo l'anno successivo nel suo primo lungometraggio, Terra di Mezzo. Diviso in tre episodi ("Silhouette", "Euglen" e "Gertlan", "Self service"), il film è un classico esempio di cinéma-verité, una sorta di documentario pilotato. Vengono proposte tre storie, dalla prostituzione allo sfruttamento, ambientate nei sobborghi della capitale. I veri protagonisti non sono solo i piccoli ragazzi albanesi e le prostitute africane, ma anche la nostra società, quella in cui loro vivono. Un film che parla più con le immagini che con le parole e incanta per l'occhio sensibile e sincero di un ragazzo che semplicemente "osserva", da diversi punti di vista.

Con il successivo Ospiti, Garrone racconta la storia di due cugini ventenni albanesi, Gheni e Gherti. Ospiti a casa di Corrado, giovane fotografo borghese ma comunque dotato di personalità fuori dagli schemi, i due ragazzi incrociano le loro storie con quella del padrone di casa, sensibile, buono e ingenuo. Le vicende sembrano svolgersi autonomamente, senza imposizioni, quasi a voler continuare il percorso iniziato dal precedente Terra di Mezzo. Alla fine, resterà sempre quel retrogusto di tristezza che ci farà sentire un po' perdenti anche da più fortunati.

Sullo sfondo di una Roma in fase di ricostruzione per il Giubileo, si combinano le vicende di Estate Romana. Girato senza una vera e propria sceneggiatura, ma con l'aiuto di alcuni "foglietti", Estate Romana è probabilmente il film più bello di Garrone, squisitamente semplice e sincero, ricco di poesia e ironia. Il dramma si sussegue alla comicità e si percepisce una sorta di improvvisazione narrativa dalla quale si generano situazioni più che storie. Il miscuglio tra la morte, il tradimento, il disagio esistenziale e l'incoerenza da una parte, e la gioia, la semplicità e la festa e una filosofia di vita positiva dall'altra, crea un'alchimia dolce, intima e malinconica, che non può non rimanere impressa in maniera indelebile nella mente. Lo stile di ripresa è semplice, ma ben curato, camera a spalla, in simbiosi con gli attori, primissimi piani che sembrano voler entrare nei personaggi, ma che soffocano una partecipazione "attiva" dello spettatore. I piani sequenza sono preferiti alla frammentazione della scena, in modo da rendere temporalmente reale il susseguirsi delle immagini.
L'apparente dissonanza melodica come quella delle migliori ballate folk-pop dei Pavement si può notare nei distorti, ironici ed eccezionali campi-controcampi, che rendono questo film, insieme ad alcune scene esilaranti e a quell'alchimia di cui parlavamo prima, uno dei migliori prodotti italiani degli ultimi anni.

Affrontato in una situazione economica più agiata, grazie alla produzione della Fandango, L'Imbalsamatore fa perdere al regista quella sensazione di libertà narrativa che si percepisce invece nei lavori precedenti. Questo non è da addebitarsi alla produzione in sé, ma al fatto che con L'Imbalsamatore, Garrone comincerà a lavorare partendo da una storia e non dai personaggi, come accadeva in passato.

Ispirato a un fatto di cronaca nera, il film narra le vicende di Valerio, Debora e Peppino-profeta. Peppino fa l'imbalsamatore di professione e assume Valerio come aiutante dando inizio a un ménage a troi strampalato, dove ossessione e solitudine straripano in un amour fou inconsueto, che stravolge ogni certezza e ogni situazione.

Come in Estate Romana, così come nel successivo Primo Amore, Garrone ama ironizzare ma allo stesso tempo sussurrare fortemente un simbolismo mai autocompiacente e sempre efficace. Come nella divertente metafora della terra nel film precedente, il mestiere di Peppino-profeta rappresenta, in questo, la morte che "riempie" l'uomo per mezzo della brama di danaro e di potere (egli, infatti, lavora anche per la mafia, imbalsamando corpi di persone morte con sacchetti di cocaina). Ma L'Imbalsamatore è anche un film sulla stravaganza e sull'impostazione asimmetrica dei rapporti d'amore, mai scontati e banali, ma sempre intensi e complessi. Uno degli aspetti che rende interessante il lavoro del regista romano è la molteciplità dei punti di vista che vuole lo spettatore assuma, permettendolo di entrare nel film soggettivamente ai diversi personaggi e rendendo così la verità sempre relativa.

Nell'Imbalsamatore, ad esempio, c'è la ripresa in soggettiva dallo sguardo di un marabut (un uccello che si nutre di cadaveri) che, dalla gabbia dello zoo, osserva ciò che accade all'esterno. La fotografia di Marco Onorato è molto incisiva grazie a una cura meticolosa della luce, la stessa cura che ritroveremo in Primo Amore. Ed è proprio in Primo Amore che Garrone riesce come non mai prima ad amalgamare gli attori con i personaggi. Il suo metodo di lavoro lo porta a girare cronologicamente le scene, così da far partecipare "attivamente" anche gli attori. In questo film, infatti, la protagonista Michela Cescon perde 15 chili in otto settimane e il protagonista maschile, Vitaliano Trevisan (che è anche co-sceneggiatore), ne comincia a essere attratto anche nella vita reale. Come L'Imbalsamatore, il film è ispirato a un fatto di cronaca. Si narrano le vicende della relazione tra Vittorio e Sonia, nella quale "lui ha un progetto folle su di lei. Lei accetta (all'inizio lo fa anche perché le fa piacere perdere qualche chilo) poi si sente inghiottita in questa sua ossessione e si convince che, in realtà, continuando a dimagrire lei sarebbe riuscita a farsi amare di più da lui". Ritroviamo una situazione similare per tematiche e atmosfere in "Martha" di Fassbinder, regista per il quale Garrone nutre una dichiarata stima. Vittorio è orafo e quindi lo si vede spesso modellare l'oro, alla stessa maniera di come modella il corpo di Sonia. Dimagrimento, quindi, come sottrazione dell'essere. Ci sono due inquadrature, doppiamente efficaci, che rendono questa metafora esplicita: dopo la fusione e quindi il raffreddamento della colata d'oro, c'è un lentissimo movimento di camera che riprende il processo in primissimo piano, lo stesso movimento e lo stesso piano che ritroveremo in seguito sulla pelle di Sonia.

Gomorra di Roberto Saviano è un prezioso tour de force giornalistico/romanzesco, appassionato e appassionante: cronaca di un marciume che quasi parte dal nulla e si espande come un virus contagioso. Un documento destinato a resistere al tempo. Matteo Garrone non avrebbe potuto fare una scelta più saggia nel porsi al cospetto di una trasposizione cinematografica di un’opera di tale portata: spunti presi in prestito, una storia (quella del sarto Pasquale) estrapolata e ricucita su pellicola con discreta fedeltà e rispetto, indizi disseminati qua e là tra le righe e gonfiati, fatti storie, micro (macro?) vicende di un male assoluto. Cinque storie incastrate senza incroci materiali, lasciate evolvere con un rifiuto del colpo di scena e di traiettorie tipiche del gangster-movie. Matteo Garrone non ha voluto fare un film di denuncia - non nomi e cognomi di camorristi noti o meno, spiaccicati e fatti sentenza, non una lotta buoni/cattivi a sottolineare dove va piazzata di preciso la giustizia – ma un film dove lo sguardo è incollato al personaggio di turno, un occhio quasi alla Dardenne, con pedinamento che riesce a non dare scampo. Lo scavo della pellicola non affonda gli artigli nella malavita, quanto piuttosto in persone che sono addobbi di essa, vittime e carnefici. Nessuno dei protagonisti delle cinque storie è un uomo di prim’ordine del sistema. Mai un gratuito estetismo in “Gomorra”: i campi lunghi sono tanto apprezzabili nella loro mirabile compostezza tanto quanto lo scheletro dell’immagine nasconde una paesaggistica che mette paura tanto è degradata. Fondamentale la scelta del cast capeggiato da Toni Servillo (ma prevalentemente composto da teatranti e attori non professionisti) e il contributo tecnico. In Gomorra non si respirano praticamente mai ventate di speranza. Non un rimando alle virate grottesche alla Elio Petri né una forma di inchiesta alla Francesco Rosi. Matteo Garrone sembra aver trovato l’unica chiave possibile per affrontare un tema tanto spinoso: da una parte il cineocchio rosselliniano fedele ma non per questo sempre obbediente, dall’altro lo scavo in un territorio, che non assomiglia a quello di nessun altro. Come il film, fuori da ogni genere e tendenza, spartiacque di una visione che ci dice chi siamo e dove stiamo andando. E per questo epocale.

Il 2012 è l'anno di Reality grazie al quale Garrone riceve nuovamente a Cannes il Grand Prix dalla giuria presieduta da Nanni Moretti. Storia di un pescivendolo napoletano che, dopo un provino, vive l’attesa della “nomination” come un’ossessione da cui non riesce a liberarsi, il film priva il racconto delle implicazioni più prevedibili, tendendo a una narrazione coraggiosamente astratta. Garrone infatti pedina il suo protagonista con una serie di lunghi, magnifici piani sequenza che, pur caricando le immagini di un intenso realismo, sospendono la vicenda su un piano narrativo fiabesco e struggente. Il difficile percorso interiore che conduce il protagonista dalla gioviale socialità iniziale alla muta immobilità della teledipendenza impone al regista di abbandonare il precedente approccio oggettivo-cronachistico (imposto dalla cangiante pluralità di storie contenute in Gomorra) per adottare un criterio narrativo completamente nuovo, più complesso e individuale. Così questa odissea dell’uomo medio alla ricerca di un diverso “io televisivo” si rivela un’opera ispirata, profonda e riflessiva, capace di rendere il drammatico vissuto psicologico del singolo simbolo del decadimento socioculturale dell'Italia intera.

Una nota di merito va sicuramente alla Banda Osiris che musica in maniera egregia praticamente tutti i lavori del regista e che ne risalta l'ironia, la malinconia, la tristezza e la gioia.
Ci sono due categorie di film: quelli che si dimenticano il giorno dopo la visione e quelli che non si dimenticano, come quelli di Matteo Garrone.

Nel 2015 è la volta de ll racconto dei racconti. Quando si parla di film di genere, che si tratti di horror, di fantascienza, e chiaramente anche di fantastico, etica narrativa ed estetica di un'opera cinematografica hanno la stessa dignità e lo stesso peso specifico. Mai come in pellicole di questo tipo, il motto "l'occhio vuole la sua parte" è assolutamente valido. Facciamo questa premessa per spiegare perché un giudizio critico sull'ultimo parto creativo di Matteo Garrone deve necessariamente comporsi di una valutazione separata per l'uno e l'altro aspetto.
Garrone disegna le sue inquadrature come uno dei suoi pittori preferiti che ne hanno ispirato le cornici sceniche mozzafiato, ha l'ambizione per sfidare i modelli del passato (su tutti Mario Bava) e porsi come una versione popolare e "popolana" del fantasy solitamente messo in scena con aspirazioni da kolossal. Ma in tutta questa bellezza, un po' più di cura dei personaggi in sede di sceneggiatura avrebbe giovato all'efficacia della pellicola. Il regista ha parlato di possibili sequel: ce lo auguriamo, perché potrebbero essere il banco di prova per perfezionare un nuovo percorso artistico che già fa intravedere le enormi potenzialità del suo autore. Vorremmo che le potenzialità deflagrassero in tutta la loro ricchezza.

Con un incipit impeccabile che compendia anche a livello allegorico l'intera enucleazione del canovaccio, Dogman (2018) è un ritorno verso territori già esplorati, un piccolo gioiello che rimarca definitivamente la pulsione del desiderio e del riscatto.
Siamo al confine tra il Lazio e la Campania. L'atmosfera è brutalmente spoglia e reiterata, trasuda solitudine e desolazione. La fotografia porta a saturazione una tavolozza cromatica imperniata sul giallo, come il più classico dei film di frontiera. La periferia, gli ambienti catturati dalla macchina da presa potrebbero essere quelli di cinquant'anni fa, come anche quelli di un futuro post-apocalittico. E invece il tempo della storia è tristemente fossilizzato ai giorni nostri. Un ambiente al limite del surreale, insomma, dove le diverse vite di Marcello e Simone si incontrano e si interscambiano. Il primo ama il proprio lavoro e la figlioletta Alida, ma è oscuramente tentato da una pericolosa attrazione per la criminalità. La sua minuta piazza di spaccio attira, tra gli altri, proprio Simoncino, un pazzo energumeno che terrorizza a suon di testate e cazzotti il quartiere (mostruosa, letteralmente, la sequenza all'interno della sala slot). Marcello, in una sorta di forte instabilità emotiva e di malato slancio criminale, non solo accondiscende alle angherie e alle riprovevoli azioni del malvivente, ma addirittura gli salva prima la vita e poi si sacrifica al carcere per lui.
Torna così il desiderio di Peppino Profeta di appagare i suoi impulsi erotici e criminali al fine di riscattare lo scherno della società per la sua sciagurata natura e il suo aspetto fisico. Ma quello era un sentimento cristallizzato, "imbalsamato" per l'appunto, mentre il riscatto di Marcello viaggia su un respiro ben più ampio e umano. Lui che cerca riparo dalla violenza del mondo nell'affetto incondizionato dei suoi cani o immerso tra i fondali del Golfo di Gaeta mano per mano con Alida. Nel silenzio, in un mondo perfetto che può durare solo pochi attimi. Torna l'ingenua illusione di Luciano, incarnata nel corpo di Marcello da una qualità morale che è costretto ad abbandonare per poter sopravvivere. Torna il desiderio malato di sottomettersi per amore o amicizia come Sonia che giunge all'anoressia pur di compiacere il desiderio psicopatico di Vittorio.
Film essenziale e semplice a detta dello stesso cineasta romano, così fiabesco (incredibile come il trait d'union abbracci persino "Il racconto dei racconti") e irreale che la sceneggiatura scritta assieme ai fidati Gaudioso e Chiti tende ad appianare la messa in scena al punto tale da creare volutamente dei cliché di contorno, come dimostra la schiera di amici di Marcello, ognuno dei quali presiede un determinato ambiente, filo diretto con altrettanti luoghi comuni: Franco e la sua compravendita d'oro, Francesco e la sua sala slot, Gianluca e la sua trattoria. Ogni vita un'attività, ogni attività un bersaglio su cui dare libero sfogo agli intenti criminali di Simone.

C'è un messaggio comune in ogni intervista rilasciata da Garrone a Cannes, quello coraggioso e umile di allontanare dalla visione chi vorrebbe assistere al resoconto filmato del raccapricciante fatto di cronaca del "canaro" (ormai noto proprio grazie a Garrone) di ormai trent'anni fa. Dogman, così come L'imbalsamatore, non hanno nulla a che vedere con la riproposizione degli eventi reali, seguono percorsi indipendenti, autoriali, profondamente intimi. Non è la storia del "canaro", ma quella di Marcello. Una storia di umanità e bestialità, di poderosa violenza psicologica prima ancora che fisica. Di carne, sentimenti puri e volti che segnano lo schermo. Un lavoro che ha richiesto a Garrone dodici anni di gestazione ed è stato partorito solamente dopo aver conosciuto (in una storia che anch'essa ha del fiabesco) Marcello Fonte, guardiano di un centro sociale che si è ritrovato nel giro di pochi mesi dapprima comparsa per sbaglio e in seguito assoluto protagonista.
Dogman è quindi l'ennesima, definitiva, prova di Garrone come maestro nel trasformare gli interpreti in assoluti fuoriclasse (si pensi a Michela Cescon o Aniello Arena) in un film che vive delle magistrali prove attoriali dell'intero cast artistico, dalla malvagia deformità di Edoardo Pesce al potenziale comico di Fonte che si atteggia in più di un'occasione a Buster Keaton, come conferma lo stesso regista.
La lotta per la sopravvivenza, però, non ammette compassione e tenerezza. Il mancato riscatto e la conseguente vendetta messa in atto da Marcello rappresentano dunque "la decadenza o addirittura lo sfacelo delle sue qualità morali" alla stessa stregua di quanto accade al cane Buck di London. Neanche dopo aver messo in atto quello che i suoi amici non avevano il coraggio di fare e aver trasportato sulle spalle il trofeo per le desolate lande della spiaggia tirrena (come un cane che porta compiaciuto la preda al proprio padrone), Marcello è frastornato dall'indifferenza altrui e da un silenzio assordante. Gli ultimi secondi del più bel film di Matteo Garrone rappresentano l'epitome di un'umanità confusa, rassegnata a convertirsi in una ferocia spietata, bestiale.

Contributi di Vincenzo Lacolla ("Reality"), Giancarlo Usai ("Il racconto dei racconti") e Matteo De Simei ("Dogman")





Matteo Garrone