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Il talento visionario del regista del Michigan: da pionere del nuovo horror americano a re mida di Hollywood. In magico equilibrio tra spettacolo pop, demenziale e cinema d'autore

Un occhio schizza via dal cranio di uno zombie inferocito. La macchina da presa effettua una velocissima ripresa in soggettiva del bulbo oculare che vola per aria, attraversa la stanza e finisce dritto nella bocca di una povera giovincella. Il cinema di Sam Raimi si potrebbe riassumere in questa iperbolica sequenza. É una miscela elettrizzante di velocità, divertimento, orrore. Facciamo però un passo indietro, e partiamo dall'inizio. Come avrà mai fatto il re del cinema horror indipendente americano a diventare una delle più potenti personalità a Hollywood? E sarà poi vero che la svolta "mainstream" intrapresa a partire dalla seconda metà degli anni 90 ha segnato un cinico voltafaccia rispetto al cinema più goliardico e visivamente originale degli esordi?

Samuel Marshall Raimi nasce a Franklin, Michigan, il 23 ottobre del 1959. Inizia ad appassionarsi di cinema sin dall'adolescenza, quando il padre gli regala una videocamera. Raimi gira i suoi primi cortometraggi nel cortile di casa assieme all'amico Bruce Campbell, ma finito il college si iscrive alla Michigan State University dove studia letteratura inglese. Ma non è questa la strada che Sam vuole percorrere. Nel frattempo, Raimi sta cercando di mettere assieme i fondi necessari per realizzare un piccolo film horror. Con l'aiuto degli investimenti di amici (tra cui il compagno di università Robert Tapert), familiari e aziende locali, il progetto può concretizzarsi. Interpretato dal vecchio amico Bruce Campbell, Evil Dead (1981), da noi tradotto La Casa, non ottenne un successo immediato, ma iniziò ad acquisire la fama di cult dopo le prime proiezioni in Europa. Spiazzati dal successo nel vecchio continente i distributori fecero uscire nuovamente Evil Dead nelle sale Usa, ottenendo un successo insperato. Uno degli aspetti più curiosi e interessanti riguardanti questo film è che la critica (o perlomeno gran parte di essa) ha sempre ricondotto l'esordio di Raimi al filone del new horror cinema a cui appartenevano registi come Wes Craven, David Cronenberg e Tobe Hobber (e in parte Carpenter). In realtà La Casa non ha molto da spartire con quel tipo di cinema, anzi, segna quasi un punto di svolta tra un modo di concepire un genere ormai giunto al capolinea e la sua ideale prosecuzione. I film di Crafen e Hopper erano lo specchio scuro degli Usa usciti dalla guerra del Vietnam, erano il parto di una società violenta e ambigua. I mostri di Raimi centrano poco con i freak de "L'ultima casa a sinistra" e "Quel motel vicino alla palude", né tantomeno con il cinema della "nuova carne" e le ossessioni sessuali - sociali di Cronenberg: ne La Casa persiste, senza dubbio, una forte componente orrorifica, terrorizzante, disgustosa (che sarà totalmente abbandonata sin dal primo sequel), ma i demoni e gli zombi di plastilina di Raimi non vogliono assurgere a emblemi sociali. Negli squartamenti e nel sangue che sgorga copioso da ogni dove non c'è sofferenza o compiacimento, i protagonisti diventano pupazzi animati da massacrare a piacimento. Con La Casa il cinema horror collassa, riflette su sé stesso. È il punto di non ritorno di una cinematografia che sta esaurendo la benzina e si rifugia di conseguenza in territori altri: in quello dello sberleffo goliardico, nel richiamo cinefilo. Operando un paragone quantomeno azzardato si potrebbe affermare che Raimi, ben prima di Tarantino e affini, abbia tentato di ridisegnare i confini del cinema di genere, contaminandolo con altri elementi della cultura pop (fumetti, cartoon, televisione), consegnandolo indirettamente a quella categoria del "post-tutto" che va tanto di moda oggi. Evil Dead resta tuttora un film estremamente divertente e vitale (da antologia le famigerate sequenze realizzate con la shakycam, che consente piani sequenza lunghissimi, accelerati e estenuanti), ma presenta anche dei limiti (ovviamente). La sceneggiatura, in primo luogo, è solo un esile canovaccio allungato sino allo sfinimento, e il continuo ricorso alla violenza stilizzata ed estrema potrebbe saturare sin dopo le prime sequenze. Ecco perché il primo Evil Dead, al contrario dei sequel più ambiziosi e calibrati, resta un'opera abbastanza elitaria, chiusa in sé stessa, imperfetta. Ma, nonostante tutto, segna la promettente entrata in scena di uno dei talenti più sregolati e visionari del cinema americano degli anni 80.

Il passaparola rende pian piano Evil Dead un nuovo classico dei cinema di mezzanotte, e il nome del giovane Sam Raimi inizia ad acquisire una certa risonanza tra gli addetti ai lavori. Ci vorranno quasi quattro anni perché il regista riesca a farsi finanziare un nuovo progetto, Crimewave (I due criminali più pazzi del mondo, 1985) basato su una sceneggiatura degli amici e colleghi Joel e Ethan Coen (che collaborarono anche per La Casa, dando un aiuto al montaggio). Per questo nuovo progetto Raimi può disporre di un budget molto più elevato rispetto a quello del film d'esordio, ma per la prima volta deve anche sottostare alle indicazioni dei finanziatori, che impongono diversi tagli, un compositore e un montatore diversi da quelli scelti da Raimi e, soprattutto, relegano l'amico-attore Bruce Campbell in un ruolo di contorno invece che farne il protagonista come da copione. Il risultato fu disconosciuto dal regista stesso, ma nonostante ciò, mantiene una grande potenza visiva ed è, senza alcun dubbio, parecchio divertente. Il mix tra i generi più disparati (noir, farsa, musical) è portato ad un livello superiore e più esplicito rispetto a Evil Dead. Se La Casa utilizzava la ben consolidata struttura del film horror per poi violentarla alle fondamenta, Crimewave fa lo stesso con il genere noir. Come in molti classici del passato la pellicola è narrata dal protagonista (uno sfigato accusato d'omicidio per errore, che sta per essere ammazzato sulla sedia elettrica) attraverso un lungo flashback, ma tutta l'iconografia scenografica e temporale del film rimanda al cinema noir: da questo lato è impossibile non avvertire la mano dei fratelli Coen, che riprenderanno alcuni dei medesimi temi in molti dei loro film futuri (da "Crocevia della morte" a "L'uomo che non c'era", senza dimenticare i due evasi di "Arizona Junior", che sembrano i fratelli degli "sterminatori" schizzati di questo Crimewave). Al contrario dei Coen, però, Raimi non cerca la deformazione grottesca (e satirica) della società. Il suo umorismo vira sin dall'inizio verso il surreale, il demenziale, il puerile. Come nei cartoni animati della Warner Bros. E, difatti, qui vengono ancora più amplificate quelle componenti ipercinetiche e fumettistiche che già avevamo individuato nel film d'esordio: gli oggetti lanciati verso il killer ripresi attraverso "soggettive" impossibili, l'immaginifica sequenza della vittima che fugge (o danza) dal suo inseguitore attraverso una valle infinita di porte colorate ed enormi.

Il flop de I due criminali più pazzi del mondo non scoraggia Raimi, che due anni dopo è pronto a tornare in pista con il sequel del suo Evil Dead. Il progetto è prodotto da Dino De Laurentiis che mette a disposizione del regista un budget decisamente più elevato rispetto a quello del prototipo. Ora, c'è un po' di confusione nei riguardi di Evil Dead II: alcuni lo reputano un sequel del primo film, altri un remake più costoso. Effettivamente tutta la prima parte della pellicola non fa che riassumere (con molta sintesi) gli eventi del capitolo precedente. Ciò fu dovuto ad una controversia sui diritti del primo Evil Dead: impossibilitato ad utilizzare le immagini del suo esordio per riepilogare gli eventi passati, Raimi decise di rigirare direttamente le sequenze principali (mostrando come Ash raggiunge la casa maledetta e come la fidanzata Linda viene posseduta da un demone). La Casa 2, dunque è, a scanso di equivoci, un vero e proprio sequel. E senza dubbio è più riuscito e completo del prototipo. Proseguendo sulla strada inaugurata da illustri colleghi come John Landis con il suo "Lupo mannaro americano a Londra", Raimi contamina l'horror con la commedia, con esiti assolutamente brillanti. È questo il culmine della prima fase della carriera del regista, in cui le intermittenze e le dissolvenze tra cartoon (su tutti quelli del grande Tex Avery, a cui allude la sequenza con gli oggetti della casa che si animano e deridono il protagonista), scenette slapstick (influenzate dagli show dei Three Stooges di cui Raimi era grande ammiratore) e splatter estremo si fanno sfumate, invisibili, diventano vero e proprio "stile". Non c'è compiacimento (che affiorerà in parte nel terzo capitolo della saga L'armata delle tenebre), non è cinefilia snob, ma solo un divertimento fresco e travolgente. Bruce Campbell finalmente dà dimostrazione di tutte le sue doti di grande attore comico, utilizzando al meglio la mimica del volto e del corpo (come quando lotta contro la propria mano "indemoniata"), ritagliandosi un posticino d'onore nella storia del cinema horror e non (Ash diverrà il protagonista di svariati fumetti e videogame). Ancora più che nel primo film, il corpo umano diventa un disegno animato, un pupazzo da stravolgere a piacimento, incapace di provare vero dolore: Ash si amputa la mano e la rimpiazza con facilità con un'enorme sega elettrica, per poi pronunciare battute degne di un western con John Wayne. Il fantasioso finale, poi, porta il gioco ad un livello ancora superiore, ma è un discorso che Raimi affronterà qualche anno più tardi. Evil Dead II diviene in breve tempo un vero e proprio cult, una fonte d'ispirazione per tanti giovani registi, che verrà citato (e imitato) in tanto cinema a venire (basti ricordare alcuni dialoghi di "Alta Fedeltà" o di "Scream 2").

Dopo il successo di Evil Dead II, Raimi desidererebbe portare sul grande schermo uno dei suoi personaggi dei fumetti prediletti, "l'Uomo Ombra" ("The Shadow"), ma non gli vengono concessi i diritti (il personaggio verrà portato al cinema qualche anno dopo in un mediocre film di Russel Mulcahy), e decide così di inventarsi ex novo un proprio personaggio. Il risultato fu Darkman (1990). Prodotto dalla Universal e sceneggiato con l'amico Chuck Pfarrer, Darkman è un fumettone che rubacchia a piene mani da tante cose, a partire da "Il fantasma dell'opera". Ma, come accade quasi sempre con Raimi, anche qui non c'è traccia di compiacimento. Anzi, le idee non sono semplicemente riciclate da altre fonti, ma mescolate, rinnovate dall'interno, sino a diventare qualcosa di nuovo e originale. Il tono inizia a farsi più serioso rispetto alle prime opere del regista, segno che forse qualcosa sta cambiando, che il tempo di giocare sta finendo. Darkman non chiede certo di essere preso sul serio ma, da un certo punto di vista, è molto meno scontato e più avvincente (sebbene meno intrigante dal punto di vista visivo) del cugino "Batman", diretto da Tim Burton appena un anno prima, con cui presenta vari punti di contatto (a partire dalla melodrammatica colonna sonora dello scatenato Danny Elfman). Iniziano ad affiorare già quelle riflessioni sul doppio e la maschera che saranno il fulcro della trilogia di Spider Man (che attingerà moltissimo a questo film) ma, soprattutto, "il dolore", la fisicità del protagonista (ben tratteggiato da Liam Neeson), acquistano un valore fondamentale e primario, che era totalmente assente ne l'Ash de La Casa. Quindi, fermo restando che stiamo parlando di un "fumetto", con tutte le sue limitazioni, i personaggi appaiono più "umani", vivi, rispetto a quelli del precedente cinema di Raimi: la carne continua ad essere martoriata, distrutta (come il volto di Peyton), addirittura beffardamente clonata (la pelle sintetica e le maschere, quasi un'allusione all'incipit di "007 - Dalla Russia con amore"), ma i personaggi soffrono e non v'è traccia degli sberleffi goliardici degli esordi nelle ultime inquadrature che paiono negare ai personaggi qualsiasi forma di happy end.

Il film ottiene un discreto successo di pubblico, permettendo a Raimi di trovare i necessari finanziamenti per il suo progetto successivo (che indica, però, una battuta d'arresto nel suo percorso creativo), ma non viene accolto molto bene dalla critica. Darkman è, però, una sottovalutata e importante opera di passaggio, che aspetta ancora di essere rivalutata.

I tempi sono maturi per tornare, e concludere, la saga di Ash e del libro dei morti. Sempre sotto l'egida di Dino De Laurentiis (che aumenta ulteriormente il budget), Raimi dirige il capitolo finale (?) di Evil Dead, ovvero L'armata delle tenebre (1992). Il discorso riprende da dove era terminato: Ash, il protagonista, è riuscito a ricacciare da dov'era provenuto il "male" scatenato dal Necronomicon, ma come conseguenza non prevista, è stato catapultato in un non meglio precisato medioevo da incubo, popolato da agguerriti cavalieri e orrende creature. Il meccanismo de La Casa 2 è portato al limite: ormai l'horror è scomparso, rimpiazzato da una struttura fantasy-avventurosa, condita da una sana dose di delirante umorismo (infantile, ma non stucchevole). Forse il film in sé segna un passo indietro dopo il fumetto tragico Darkman, qui siamo nel territorio della pura autoreferenzialità, ma, per fortuna, il divertimento resta a livelli altissimi. Al pari dei due film precedenti, L'armata delle tenebre diventa immediatamente un cult, e a ragione. Raimi si diverte a citare il cinema del passato: da "I predatori dell'arca perduta" di Spielberg alle deliziose creature del mago degli effetti visivi Ray Harryhausen (l'armata di scheletri è animata a passo uno come da tradizione), sino all'Eastwood de "Il texano dagli occhi di ghiaccio" e al classico della fantascienza "Ultimatum alla terra" ("Klaatu Barada Nikto" viene da qui). Forse c'è meno freschezza rispetto agli episodi antecedenti, e un pizzico di (inevitabile) compiacimento, ma è impossibile resistere al travolgente Bruce Campbell che fa lo spaccone, si atteggia da cowboy e snocciola battute come "Dammi un po' di zucchero, baby".

Prima ancora che lo "stile Raimi" diventi manieristico e convenzionale, il regista sceglie di cambiare strada, scontentando molti dei suoi fan. Dopo la fine delle riprese dell'ultimo Evil Dead si prende una meritata pausa, in cui ha tempo anche per dedicarsi ad altro. Nel 93 produce l'esordio americano di John Woo, "Senza Tregua", sottostimato action con Jean Claude Van Damme, e l'anno seguente il fanta thriller "Time Cop" di Peter Hyams (sempre interpretato da Van Damme). Di maggior importanza, probabilmente, la collaborazione con i fratelli Coen dello stesso anno, per cui scriverà la sceneggiatura di "Mr. Hula Hoop", sgangherata commedia che cita e prende in giro i classici di Preston Sturges e Frank Capra. Sempre nel 1994, Raimi si pone alla guida, in qualità di produttore esecutivo, del serial televisivo per ragazzi "Hercules" (da cui nascerà pure lo spin off "Xena"), che otterrà un buon successo di pubblico (ne verranno realizzate sei stagioni).

Conteso da vari studios e star di Hollywood, Raimi, ormai regista affermato, viene scelto personalmente dalla diva del momento, Sharon Stone, per dirigere un western da lei prodotto, chiamato The Quick and the Dead (Pronti a morire, 1995). Con al suo servizio un cospicuo budget, uno staff tecnico di caratura elevatissima (il direttore della fotografia Dante Spinotti, il montatore Pietro Scalia, il musicista Alan Silvestri) e un cast pieno di divi (oltre alla Stone, Gene Hackman è il malvagio Herod) e giovani promesse (Russel Crowe e Leonardo Di Caprio), Raimi, tuttavia, pare proprio che non abbia voglia di crescere. La sceneggiatura è, ancora una volta, un mero pretesto per una lunga serie di citazioni e una valanga di bizzarrie visive (inquadrature sghembe, zoom improvvisi molto anni 70). Non c'è profondità o interesse nei confronti dei monodimensionali personaggi (la protagonista che vuole vendicare il padre assassinato, Di Caprio che vuole farsi rispettare dal padre, il killer interpretato da Crowe che scopre la fede), il meccanismo narrativo è ripetitivo e irritante come quello di un videogame (i pistoleri che si sfidano uno dopo l'altro come in una sorta di "Mortal Kombat"). Tutto è così sgangherato e stupido, a partire dai fori di proiettile che lasciano buchi perfettamente rotondi come in un cartone animato, che è impossibile non divertirsi almeno un pochetto. E anche se alla fine Pronti a morire resta uno dei film meno riusciti e interessanti del regista, sorge il dubbio che questo prodotto (all'epoca rifiutato da critica e pubblico) fosse troppo in anticipo sui tempi, e che se oggi un Robert Rodriguez qualunque dirigesse qualcosa di simile, ci sarebbe sicuramente qualcuno pronto a sperticarsi di applausi.

Per il suo film successivo, A Simple Plan (Soldi sporchi, 1998), Raimi decide di tornare nei boschi da dove aveva cominciato. Ma non potrebbero essere più diversi da quelli de La Casa. Sì, il tema di fondo è ancora una volta "il Male", ma non v'è traccia di zombie, arti mozzati o sangue. "Il Male" a cui il regista è interessato è quello che sta dentro ognuno di noi (tema su cui tornerà, seppur in maniera non convincente, pure in Spider Man 3), è un lato oscuro che forse non sappiamo nemmeno di possedere. A Simple Plan segna una svolta nel modo di fare cinema di Raimi, un cambio di direzione che gli amanti della trilogia di Evil Dead non gli perdoneranno (forse) mai. Con Soldi Sporchi inizia una fase "neo classica" per il regista del Michigan, in cui le invenzioni visive e le contaminazioni di generi dei film precedenti sono abbandonate in favore di un solido rigore stilistico, una maggiore cura nella sceneggiatura (qui firmata da Scott B. Smith, che adatta un proprio romanzo), nella configurazione di situazioni e personaggi. E proprio i personaggi, per la prima volta all'interno dell'opera di Raimi, iniziano ad essere "umani". Tutto ruota attorno alle loro scelte, ai loro sbagli, al loro dolore. Soldi Sporchi è stato più volte accomunato e messo a confronto con "Fargo" (1996) dei fratelli Coen, ma basta fare un po' d'attenzione per accorgersi che ne è, invece, l'ideale controparte: al centro vi sono senza dubbio alcuni temi in comune (l'avidità, il valore negativo del denaro), l'ambientazione in una cittadina di provincia, la neve che copre ogni cosa, ma i risultati, gli intenti dei registi, sono assolutamente diversi (e in entrambi i casi estremamente buoni, sia chiaro). A Simple Plan è un film ancora più "classico" di "Fargo", perché rifiuta la scappatoia del grottesco, non eccede nello humour nero, (forse) il nichilismo che propaga non è così universale. Eppure, rispetto ai Coen, qui c'è maggior senso della tragedia: non c'è spazio per la risata liberatoria nella struggente decisione finale di Jacob (Billy Bob Thornton), così come nel finale pessimista e cattivo, che condanna ogni protagonista a vivere nella mediocrità, schiavo delle proprie colpe, dei propri rimorsi. Pochi si sarebbero aspettati un Raimi così gelido, crudele, maturo. Il film ottiene uno scarso successo di pubblico, ma la critica non rimane insensibile alla svolta del regista: critiche entusiaste, e, per la prima volta, un film del regista ottiene due nomination all'Oscar (per la sceneggiatura e Thornton).

Gioco d'amore (For Love of the Game, 1999), storia di un giocatore di baseball sul viale del tramonto, è, paradossalmente -considerato che è quasi unanimemente reputato un fallimento commerciale e una pellicola impersonale- il film che più s'avvicina alla poetica "classica" della trilogia di "Spider-Man". "Terminato il tempo delle shakycam e degli omaggi al cinema di Hong Kong, Raimi, attraverso la non indifferente mediazione di Kevin Costner, probabilmente l'ultimo detentore del classicismo americano, opera una sorta di palingenesi del proprio cinema nel segno del melodramma e della memoria storica dei generi"[1]. In "Gioco d'amore", imprevedibile svolta minnelliana di Raimi, c'è un'assoluta coincidenza di intenti, come raramente se ne vedono, tra un regista che con entusiasmo adolescenziale scopre la sincerità dei sentimenti primari e un attore che lo asseconda in tutto, dandosi con virile malinconia, indossando sulla propria pelle lo spirito pudico e spudorato che Raimi conferisce a questo suo outing. "Gioco d'amore" arriva al cuore pulsante di Hollywood, là dove è di casa il coraggio della retorica"[2]. Ancora più che in "Soldi sporchi" e "The Gift", film di genere "adulti", lineari, misurati ma "attuali" nella loro precisa critica del capitale e delle derive della morale umana, "Gioco d'amore" è una pellicola anacronistica, orgogliosamente controcorrente, che non si vergogna nell'affrontare di petto retorica e cliché.

Accolto abbastanza tiepidamente come ultimo arrivato nel filone dei thriller paranormali dai risvolti new age (sulla scia di "The Others" o "Il sesto senso"), in realtà The Gift (2000) è un film molto meno furbetto e più audace di prodotti analoghi (la sceneggiatura è scritta dall'attore Billy Bob Thornton, autore anche del bellissimo "Lama Tagliente"). Raimi continua a rischiare poco dal punto di vista narrativo - estetico: come le due pellicole precedenti, pure questa poggia su una sana struttura classica e tradizionale, forse addirittura più convenzionale (la lunga parte processuale che occupa il segmento centrale del film). Ma il film si ricollega esplicitamente al discorso lasciato aperto con Soldi sporchi. Poco importa l'ambientazione: che sia una cittadina innevata o un sonnacchioso paese vicino alle paludi di Savannah, la sostanza cambia poco. A Raimi interessa mettere il coltello nelle storture dell'America di provincia. Così il thriller, la ricerca della ragazza scomparsa, diventa solo un "pretesto" per sondare la psicologia di diversi, ambigui, personaggi. Tutti nascondono qualcosa (l'unica "pura" è la veggente Annie Wilson, non a caso additata come "diversa"), e ognuno dovrà fare i conti, prima o poi, con la verità venuta a galla (come il cadavere deformato e mostruoso di Jessica King): il marito violento e adultero (Keanu Reeves), l'illibata e altolocata rampolla dei King che si rivelerà poi non molto illibata (Katie Holmes), il meccanico Buddy (Giovanni Ribisi), che cela nel suo inconscio un segreto che lo porterà alla fine. Annie Wilson, con il suo "dono", è il catalizzatore di un "male" che si trova già all'interno della società, e che aspetta solo di mostrare la faccia, di riapparire minaccioso e ben poco pacificatore (al contrario dei "fantasmi" sin troppo ciarlieri del film di Shyamalan). Raimi si sofferma sui suoi personaggi (aiutato da un ricco e ben diretto cast), più che sull'intreccio giallo (limando, in parte, le possibilità commerciali della pellicola, difatti un flop al box office), e confeziona un film di genere bizzarro, anomalo, difficilmente classificabile.

Durante le riprese di The Gift si presenta un'occasione alettante per la carriera di Raimi: dirigere l'adattamento cinematografico di uno dei più popolari personaggi dei fumetti di sempre: Spider Man, l'"Uomo Ragno". A dire il vero il regista de La Casa non è la prima scelta dei produttori Avi Arad e Laura Ziskin (si era pensato a nomi più "affermati" come James Cameron o Roland Emmerich), ma poco importa, perché Raimi, fan del personaggio sin dall'infanzia, pare proprio la scelta ideale per questo tipo di pellicola. E, soprattutto grazie al regista, il film si trasforma in uno dei più grandi successi di tutti i tempi. È Raimi che spinge per scegliere un attore dal volto malinconico e triste da ragazzo innamorato, combattendo contro i produttori che vogliono invece un belloccio stile "Beverly Hills 90210", convinto che il ruolo da protagonista debba andare al giovane Tobey Maguire (sino ad allora impegnato in film "d'autore" per registi come Ang Lee, Allen, Gilliam). E sempre Raimi spinge il film verso un binario meno scontato del classico fumettone hollywoodiano, trasformando la vicenda del timido studente Peter Parker in un tormentato melò, costellato di amori impossibili (per la rossa Mary Jane interpretata da Kirsten Dunst) e conflitti generazionali (è il senso di responsabilità scaturito dalla morte dello zio a spingere il protagonista a combattere il crimine). Il pubblico simpatizza e si immedesima subito nel personaggio di Parker, supereroe con superproblemi (come recita la formula del grande Stan Lee), agganciato ad un universo concreto e ben poco fantastico, fatto di scalcinate case di periferia, conti da pagare, frustranti lavori part time. Detto questo, è innegabile, tuttavia, che il film soffra dei difetti tipici del primo "episodio" di una franchise: la sceneggiatura (di David Koepp, ma, si dice, riscritta dal premio oscar Alvin Sargent e Scott Rosenberg) non è molto ben strutturata e, ad una prima parte divertente e appassionante, ne alterna una seconda più scontata con il classico confronto tra bene e male (incarnato dallo scienziato Willem Dafoe, che a causa di un esperimento andato male ha sviluppato una personalità alternativa e malvagia, il "Goblin"). Infastidiscono non poco, poi, alcuni ritocchi posticci, aggiunti in seguito all'attentato dell'11 settembre 2001: il gran sventolare di bandiere americane (digitali), i cittadini di New York che danno man forte a Spidey declamando la forza di volontà della città. Da par suo, pure Raimi pare trattenersi, lasciando il suo talento visivo a briglia sciolta soltanto in alcune sequenze spettacolari: i volteggi del protagonista tra i grattacieli della grande mela ripresi con eleganti movimenti di macchina (il pathos aumenta ancora di più grazie alle musiche del "burtoniano" Danny Elfman); i soliti "camei", di Bruce Campbell, nel ruolo dell'annunciatore all'incontro di lotta, e della mitica Oldsmobile Delta 88 (comparsa in quasi tutti i film del regista, qui è l'auto di zio Ben), e poi tanti richiami autoreferenziali al cinema di Raimi e non (la ripresa finale di Maguire che si allontana dal cimitero è identica a quella che conclude Darkman, così come certi momenti nella sequenza dell'inseguimento dell'assassino dello zio; alcuni dialoghi di Defoe sono presi pari pari da "Mister Hula Hoop" dei Coen; parte delle oniriche immagini della trasformazione di Peter in Spider Man vengono da un vecchio film di Lucio Fulci...). In definitiva, Spider Man è un "perfetto" blockbuster americano, ottimamente miscelato in ogni sua componente, destinato ad accontentare ogni fetta di pubblico. Certo, forse da Raimi ci si sarebbe aspettato di più, ma alle prese con il primo progetto a budget elevato, il visionario regista mostra comunque di non aver perso il proprio talento e di avere abbastanza polso da non farsi mettere sotto dai produttori.

Il sequel di Spider Man viene messo in cantiere sin dal primo esaltante weekend d'apertura (114 milioni di dollari, nel 2002 un record storico), con Raimi confermato alla regia, così come il resto del cast. Per la sceneggiatura vengono accreditati niente di meno che un premio Pulitzer (Michael Chabon) e un premio Oscar, il navigato Alvin Sargent ("Paper Moon", "Gente Comune", "Giulia"). I risultati sono anche al di sopra delle più rosee aspettative. Sicuro dal successo strepitoso del precedente episodio, Raimi lavora con molta più libertà e firma, forse, il suo capolavoro. Il secondo film sull'arrampicamuri è molto più a fuoco rispetto al predecessore, la sceneggiatura colta ed equilibrata, e segna un magico punto d'incontro tra lo spettacolo pop hollywoodiano e il cinema d'autore. Azione, dramma, melò sono mescolati alla perfezione, mentre sullo sfondo Raimi dipinge una New York post 11/9 molto più cinica ed egoista di quello che potrebbe sembrare ad una prima visione. Spider Man si impegna a salvare la città, ma in che modo i cittadini di Manhattan ripagano il suo alter ego Peter Parker? Dov'è il proverbiale solidarismo susseguente all'attacco alle due torri? Non gliene va bene una al protagonista: costretto a sbarcare il lunario in tanti lavoretti part time, da cui viene continuamente licenziato (è sempre "in ritardo"), è incapace di dichiarare il proprio amore alla dolce Mary Jane (in procinto di sposarsi con un bellimbusto), così come di essere sincero con il migliore amico Harry (ossessionato dall'idea di uccidere Spider Man, che reputa l'assassino del padre). Zia May si interroga (riecheggiando il Brecht di "Non è un tempo per gli eroi") sulla necessità di eroi nella nostra società, mentre il giovane Parker, sempre più diviso tra senso di responsabilità e dilemmi adolescenziali, sceglie di abbandonare la sua carriera supereroistica per sempre. Almeno finché non spunta fuori il classico scienziato pazzo, il Dottor "Octopus", interpretato da un sublime Alfred Molina, che colora il suo antagonista di valenze tragiche e shakespiriane, che lo rendono qualcosa di più del solito cattivone monodimensionale. E nello spettacolare finale, illuminato da un lieto fine che poi così lieto non è (basterebbe l'ambiguo e preoccupato sguardo finale della Dunst), c'è pure tempo per interrogarsi su temi classici come il doppio e la maschera (non a caso la commedia che Mary Jane interpreta a teatro è "L'importanza di chiamarsi Ernesto" di Oscar Wilde). Raimi gira con grande veemenza, riportandoci direttamente ai gloriosi tempi de La Casa 2 (solo che qui il budget è cento volte più alto). Come altro definire la turbinosa sequenza della nascita di "Doc Ock", tra soggettive dei tentacoli che si avvicinano alle malcapitate vittime (curiosità cinefila, uno dei dottori è John Landis), e seghe elettriche in azione, se non come un'ideale prosecuzione delle follie visive di Evil Dead? E il lungo combattimento tra l'eroe e Octopus a bordo di un treno in corsa, non è forse una versione più costosa del duello finale tra il protagonista e il killer de I due criminali più pazzi del mondo? Spider Man 2 segna il punto di arrivo ideale nel percorso intrapreso da Raimi sin dagli albori della sua carriera, in cui tentò di ridisegnare il rapporto tra celluloide, fumetto e cartoon.

Il pubblico gradisce il sequel ancora più del capostipite, la produzione un po' meno, e forse rimpiange di aver dato troppa corda al talentuoso regista.

La data ufficiale di uscita di Spider Man 3 viene fissata per il 4 maggio 2007, ma qualcosa non va per il verso giusto durante la produzione del film. I produttori vorrebbero un film con più azione ed effetti visivi e fanno pressioni su Raimi. I "cattivi", dai due previsti, passano addirittura a tre, con l'introduzione (forzata, Raimi si oppose fino alla fine) di un personaggio amatissimo dai fan, il temibile alieno-simbionte Venom. Il regista ha un brusco litigio con il compositore Danny Elfman che rompe un sodalizio lungo vent'anni (verrà sostituito dal più anonimo Christopher Young). La sceneggiatura del film (sempre ad opera di Alvin Sargent, ma con il contributo stavolta dei fratelli Sam e Ivan Raimi) che inizialmente (e non a caso) doveva essere splittato in due parti, da girare back to back (un po' come i sequel di "Ritorno al futuro" o "Matrix"), è infarcita di tanti, troppi, elementi, personaggi, sottotrame. In questo mondo viene sacrificata quell'anima "intimista" e romantica che era la forza dei primi due episodi ma, soprattutto, molte situazioni paiono affrettate (la trasformazione del fotografo Eddie Brock in Venom), illogiche, risibili (l'amnesia di Osborn serve forse ai fini del plot?). I legami col fumetto di partenza si fanno sempre più labili (Gwen Stacy è un'ochetta senza cervello, l'uomo sabbia sarebbe il vero killer di Zio Ben), e lo stesso cast (a partire da Maguire) pare svogliato. Il tocco di Raimi resta, e si intravede nelle pirotecniche e inventive scene d'azione (il film ha contato su uno dei budget più alti di sempre), nei tocchi di ironia, mai così presente, quasi invadente (divertentissima comparsata del solito Bruce Campbell nel ruolo del maître pasticcione, un po' troppo esagerata, invece, la trasformazione di Peter una volta che entra in contatto con il costume alieno: perde ogni inibizione sessuale e ha delle movenze alla Tony Manero), e in alcuni momenti che sanno coniugare alla perfezione sentimento e fantasia (la nascita de "l'uomo sabbia"). Il risultato complessivo è abbastanza deludente, soprattutto se rapportato alla perfezione del capitolo precedente, e pure i fan della prima ora hanno storto il naso. Ciò non toglie che il film sia diventato l'episodio di maggior successo commerciale della serie (oltre 890 milioni di dollari in tutto il mondo), anche grazie ad una campagna di marketing martellante.

Naufragato il quarto capitolo di "Spider-Man", a causa di controversie (guarda un po') tra regista e produttori (la Sony per rinnovare i diritti legati al personaggio ha messo in cantiere un reboot, abbastanza deludente e povero di idee, uscito a luglio 2012), Raimi torna, con "Drag Me to Hell" (2009), all'horror low budget degli esordi, per dimostrare a sè stesso e ai suoi fan che non ha perso lo smalto dei tempi andati. Il film è un bizzarro ibrido tra gli spaventi demenzial-splatter degli esordi e la messa in scena rigorosa e "classica" della seconda parte della carriera del regista. Se la maniera e il mestiere sono dietro l'angolo, il divertimento è però assicurato, e la pellicola si colora delle annotazioni politiche-sociologiche che hanno caratterizzato il cinema di Raimi da "Soldi sporchi" in poi. Con tempismo profetico "Drag Me to Hell" si scaglia contro l'avidità e la meschinità delle banche e del Capitale, personificati dalla pavida Alison Lohman, impiegata anodino e arrampicatrice sociale, che nega la proroga del mutuo ad un anziana signora (e purtroppo per lei, strega).

"Il grande e potente Oz" (2013) segna la prima collaborazione tra Sam Raimi e la Walt Disney Pictures, nel tentativo di creare un antefatto al celebre classico di Victor Fleming "Il mago di Oz" (1939). Il regista, però, non cade nel tranello della maniera di cui era già stato vittima Tim Burton con il suo deludente "Alice in Wonderland" (2010) e confezionaun'opera sorprendentemente personale e riuscita. Se la strega malvagia che volteggia sulla sua scopa ricorda il Goblin di "Spider-Man", il protagonista interpretato da James Franco non è altro che un aggiornamento del tracotante yankee de "L'armata delle tenebre", donnaiolo e cordardo, erroneamente creduto il salvatore di un regno in pericolo. Ma il film è anche, soprattutto, un appassionato omaggio alla magia e creatività della settima arte, tant'è che nel finale Oz riesce a sconfiggere le streghe maligne con un sofisticato inganno realizzato tramite proiezioni e ombre simili alle "lanterne magiche" degli albori del cinematografo. Girato in un funzionale 3D, la pellicola è stata salutata da un grande successo di pubblico, mentre i fan integerrimi di Raimi hanno storto il naso davanti a questa sua incursione nel cinema "per famiglie".

Sempre nel 2013 Raimi produce un remake-reboot del suo seminale esordio "La casa"-"Evil Dead": ma il film di Fede Alvarez, a parte raggiungere nuove vette in fatto di sanguinosità ed effettacci splatter, non è di certo memorabile, e non possiede l'ironia e l'urgenza del capostipite. Tuttavia, anche in questo caso il successo al botteghino non è mancato, tale da garantire un sequel, già annunciato.

Un cinema mutante, delirante, inclassificabile e affascinante quello di Sam Raimi: gli effetti organici ed economici del trio Kurtzman-Nicotero-Berger hanno lasciato spazio alle nuove armi della civiltà digitale, e se l'Opera del regista del Michigan ha cambiato faccia, in fondo è rimasta la stessa, spiazzante e controcorrente degli esordi.

[1]Giona Antonio Nazzaro, "Nel cuore della grande città. E dopo...", FilmCritica, n. 528, settembre-ottobre 2002, p. 453
[2]Alessandro Borri, "Melodramma", in Leonardo Gandini, Roy Menarini (a cura di), Hollywood 2000, Le Mani, 2001, Recco









Sam Raimi