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Ritorno a Capeside, la città di mare inventata dal genio di Kevin Williamson. Qui, in un luogo che sembra un paradiso in terra, un gruppo di ragazzi ha iniziato il cammino verso l'età adulta, tra riflessioni sul futuro e sul senso stesso della finzione televisiva

Tornare a Capeside tredici anni dopo il congedo dai cinque protagonisti mette addosso un sentimento di nostalgia misto a tenerezza. Quell'adolescenza così idealizzata, scolpita su pellicola come se fosse l'età universale, non tornerà mai più, né nella società contemporanea del nuovo millennio, né tantomeno nei teen serial che vengono prodotti oggigiorno. Ma il potere di "Dawson's Creek" era quello di suscitare questa dolce malinconia anche in presa diretta, mentre veniva messo in onda per la prima volta. La penna geniale di Kevin Williamson aveva dipinto questo "purgatorio dei sentimenti" come nessun altro era mai riuscito a fare: una città immaginaria, arricchita da una scenografia suggestiva e una fotografia sfumata che ne faceva una sorta di sogno a occhi aperti; un gruppo di quindicenni che affrontava problemi reali in modi del tutto irreali, attraverso la parola, il ragionamento, la razionalizzazione degli istinti e dell'emotività. Insomma, anche nel 1998, quando la Warner lanciò lo show con la sua prima stagione, Dawson, Joey, Jen e Pacey (in rigoroso ordine di presentazione sui titoli di testa) apparivano terribilmente fuori da ogni epoca. È per questo che milioni di liceali nel mondo si sono appassionati appropriandosi delle loro vicende: erano quattro ragazzi di tutti e di nessuno, Capeside era un'amena località del Massachussets, ma al tempo stesso era il mondo intero.

Alla fine degli anni 90, prima dell'invasione social, della maturazione precoce, della globalizzazione delle possibilità e delle opportunità, "Dawson's Creek", sommessamente e delicatamente, spazzò via le serie tv precedenti con un immaginario demodé eppure così rivoluzionario: addio a "Beverly Hills 90210" e simili, basta con i giovani al sole della California che si dibattevano tra aspirazioni futili e case e macchine e locali che tutti vedevano come miraggio inarrivabile; era tempo di piantare i piedi per terra e pensare con umiltà a ciò che è reale e possibile. La magia di Williamson e dei suoi sodali produttori fu proprio questa: la creazione di una vicenda articolata, che permettesse un'immedesimazione mai tentata prima tra il giovane pubblico e i protagonisti, senza rinunciare al potere dell'immaginazione, del fantastico. Perché questo fecero i giovani di Capeside: teneri angeli custodi calati da un universo parallelo, capaci con le loro elucubrazioni totalmente irreali di affrontare i temi che chi si sintonizzava da casa sentiva suoi. Un miracolo televisivo, sociologico, ma anche artistico, per i motivi che adesso proveremo a spiegarvi.


Kevin Williamson e l'insana passione per il "meta"

Innanzi tutto, chi è Kevin Williamson? È un nome poco noto, forse, ma decisivo nell'evoluzione del cinema e della televisione negli anni 90. È la mente che ha partorito "Scream", la pietra miliare di Wes Craven che rilesse e aggiornò il mito dello slasher movie e del serial killer dal volto mascherato. Sarebbe strano affermare che tra il capolavoro del 1996 e il serial partito due anni dopo ci sono molte affinità? No, non lo sarebbe. Ingaggiato proprio dopo il successo di "Scream" dal produttore Paul Stupin, Williamson portò la sua consapevolezza postmoderna nel piccolo schermo e più in particolare dentro il concetto di show per ragazzi. Da una parte bisognava appassionare il giovane pubblico, che doveva trovarsi di fronte non più dei marcantoni abbronzati o delle mancate miss America, ma doveva seguire le vicende familiari, amorose e personali di un gruppo di amici "normali", mediamente dotati, mediamente intelligenti, mediamente carini: insomma, adolescenti che si confondevano tra la folla, che cercavano il loro posto nel mondo come tutti, su cui l'obiettivo della macchina da presa si concentrava quasi casualmente. Ma d'altra parte Williamson non intendeva rinunciare alle opportunità di riflessione sul mezzo televisivo che l'articolazione in più stagioni gli permetteva. È in questo equilibrio fra pop e artistico, tra alto e basso, fra soap opera e metacinema che "Dawson's Creek" realizza il miracolo.

Lo stesso titolo è ambiguo: può significare "I casini di Dawson" e quindi può essere un'allusione alle vicissitudini sentimentali di ogni tipo dei protagonisti, ma può anche stare per "Il torrente di Dawson" e fare dunque riferimento, più poeticamente parlando, all'ambientazione bucolica di Wilmington, la località reale dove è stato girato il serial. A ognuno, insomma, il suo piano di lettura: fin dalla prima stagione, sdraiati su un letto a vedere un grande classico, Dawson e Joey riflettono sulle emozioni in movimento, in perenne cambiamento, sulla difficoltà di rimanere semplici amici a quindici anni, ora che i loro corpi e le loro menti si stanno evolvendo. È una clamorosa scena d'apertura, ma è anche una dichiarazione d'intenti: "Cari spettatori, è in questo universo di confusione intima dell'adolescenza che andremo a indagare". E infatti sarà così.

I detrattori accusarono Williamson proprio di aver ideato una serie che prendeva in giro il pubblico: giovani con il chiodo fisso per le prime esperienze che però parlavano come nei film di Woody Allen, con citazioni storiche, politiche, filosofiche. Per tacere dei continui riferimenti cinematografici: se ne contano una cinquantina, almeno limitandoci a quelli fatti da Dawson, vero alter ego di un giovane Williamson, che immagina il cinema come ideale specchio della realtà adolescenziale. È grazie al cinema che Dawson riesce a inquadrare meglio le sue vicende, soffrire di meno per amore o per una delusione personale, elaborare il lutto paterno o accettare l'inarrestabile corso della crescita. Da John Carpenter ad Alfred Hitchcock, hanno posto nella mente del giovane protagonista tutti i maestri di Hollywood, con un'ossessione vera per Steven Spielberg, il cineasta che più di tutti, negli anni 90, diede l'impressione di poter trasformare i sogni in materia tangibile. L'apoteosi di questo cortocircuito mediatico, in cui il cinema entra nella tv e la solleva dagli standard soliti, si avrà sul finire dell'ultimo, straordinario doppio episodio, allorché vedrà finalmente alla luce il finale di "The Creek", la serie scritta da Dawson, ormai pienamente lanciato nella sua carriera artistica, una serie che mette in scena le vicende accadute davvero a Capeside, con un finale "alternativo", in cui le due anime gemelle si dichiarano amore eterno. Un finale per la finzione, un finale per la realtà. Un'ambizione che ha ossessionato Williamson negli anni in cui lasciò lo show e seguì da lontano le peripezie amorose dei suoi beniamini, passati, dopo la seconda stagione, nelle mani di Gina Fattore, sceneggiatrice cui venne affidato il duro compito di completare lo script del nucleo fondante dell'opera nel suo complesso: il triangolo fra Dawson, Joey e Pacey. "Il baciò che salvò il programma", definì la stessa Fattore quello rubato dallo scavezzacollo Witter alla moretta più desiderata della città. Da lì in poi, il canovaccio, con le idee decisamente impoverite rispetto al debutto, resterà sempre quello: gli amici si metteranno insieme e si molleranno alla velocità della luce, andranno a Boston, faranno nuove esperienze di studio e di lavoro, ma sempre a quel legame indissolubile torneranno fino alla resa dei conti dell'ultima stagione.
A questo punto merita una considerazione più approfondita lo svolgimento narrativo delle sei stagioni, per capire come e perché si è potuti arrivare al finale tanto decantato.


Dal paradiso della provincia alla disillusione metropolitana

"Dawson's Creek" fu un teen serial che problematizzò tematiche sociali mai affrontate prima da uno show per ragazzi: l'emarginazione fu sviscerata sotto ogni punto di vista. C'è l'instabilità mentale di Andy, c'è il passato da ragazza interrotta di Jen e ci sono molti personaggi di contorno, di età differenti, che costringeranno i protagonisti a confrontarsi con ogni sorta di ostacolo: la legalità, l'onestà, il senso più profondo della parola sacrificio, fino alla malattia, il cancro, la morte, intesa come evento fatale, ma anche come concetto legato all'ineluttabilità del destino umano. E poi c'è il quinto protagonista, che verrà inserito ufficialmente solo nella terza stagione, ma che giocherà un compito fondamentale nello sviluppo narrativo: il Jack interpretato da Kerr Smith è un giovane omosessuale che patisce la difficoltà di trovare il suo posto in una piccola comunità. Attorno a lui gli autori costruiscono una storia di rara intensità e delicatezza.

Il livello di scrittura delle prime tre stagioni è stupefacente: illuminati dall'ispirazione di Williamson e della Fattore, tutti i coautori partecipano alla messa in scena di una fiaba moderna, che fa dell'autoanalisi su se stessa la chiave per risultare vincente e unica nel suo genere. "Dawson's Creek" è un continuo guardare alle dinamiche interne al dipanarsi della trama e a quelle esterne dell'evolversi della contemporaneità. I personaggi si muovono in modo naturale nel loro ambiente solito, ma è come se sfondassero continuamente la quarta parete e parlassero al pubblico, ragionando insieme ad esso sulle svolte della vicenda. È questo approccio maturo e smaliziato al giovane spettatore che rende la serie un prototipo difficilmente replicabile: "Dawson'd Creek" è un classico teen serial eppure è anche uno specchio antropologico per le paure e le passioni degli adolescenti di mezzo mondo. Dopo le prime tre stagioni ci saranno due cali, entrambi probabilmente fisiologici.

Il primo nella quarta stagione allorché, all'ultimo anno di liceo, i ragazzi fanno i conti con un intreccio che ha già completato tutto un viaggio di "andata e ritorno". La love story "a sorpresa" tra Joey e Pacey si è consumata, sacrificando per essa le storie parallele degli altri protagonisti, cosa mai accaduta nelle tre annate precedenti. Diventa insomma tutto molto prevedibile e scontato. Alcuni degli autori sopravvissuti al traumatico addio di Williamson volevano chiuderla qui, al termine del percorso delle superiori. Ma i produttori, grazie proprio al triangolo amoroso, avevano rialzato gli ascolti e volevano tentare la strada dell'università, del cambio di location, del trasferimento da Capeside a Boston. È qui, tendenzialmente, che si dipanano le ultime due stagioni, punto più basso perché la serie si normalizza, diventa un vago sosia di altri show per il giovane pubblico: la separazione tra gli amici spezza l'incantesimo e gli sceneggiatori tradiscono la missione di "Dawson's Creek". Un po' "Melrose Place", un po' "Bayside School", il copione non regala nessuno spunto di rilievo, se non stanche reiterazioni di canovacci che abusano dell'affetto dello spettatore. D'altronde, gli amorazzi raccontati potrebbero proseguire all'infinito. Anche la new entry nel cast fisso, Audrey, interpretata dall'esuberante Busy Phillips, è un personaggio che funziona poco, che viene introdotto programmaticamente per "dare" una nuova amica a Joey e una nuova fidanzata a Pacey, ma il suo senso non ha alcuna relazione con l'origine della serie e con il percorso dei personaggi di primo piano.

Il trasferimento da Capeside fa perdere quell'atmosfera onirica e ipnotica della provincia umile ma bellissima, la controversa esposizione delle turbe giovanili si banalizza in mezzo ai viali della metropoli: dove sono le complicate comparse, tutte capaci di lasciare un segno, conosciute e amate nel villaggio? Il vecchio regista che trasmette la sua passione a Dawson, la sorella di Pacey che fa perdere la testa al giovane Leery, il biondino Henry (un ancora sconosciuto Michael Pitt), che corteggia in modo spasmodico e umorale Jen, la povera Abbey Morgan, antipatica a scuola e tristissima nel doposcuola. Si potrebbe andare avanti all'infinito.

Si salvano di questi due anni poche puntate significative, più che altro quelle in cui gli autori, tornano a omaggiare quel cinema che viene spesso citato da Dawson e che è, al netto delle citazioni metalinguistiche, la vera fonte d'ispirazione di tutto il serial. Dopo i magnifici episodi in onore di "Breakfast Club" o de "I soliti sospetti", ci sarà spazio per un episodio-horror sulla scia della saga di "Venerdì 13" e, soprattutto, un emozionante one-woman-show, con unica protagonista Katie Holmes, ispirato al John Landis di "Tutto in una notte". Ma sono gli ultimi fuochi, nulla di straordinario o di memorabile. E poi c'è una questione cui non si può sfuggire: le differenze somatiche tra gli attori (anagraficamente più grandi dei personaggi da loro interpretati) e i protagonisti della finzione cominciavano a diventare troppo evidenti. "Dawson's Creek" è un teen serial e come tale, fisiologicamente, deve terminare, a meno di non sospendere l'incredulità al punto di adottare la tattica delle soap per adulti che sostituiscono gli attori e ringiovaniscono un protagonista. E a quel punto, considerando che si era nel 2003 e che non c'erano molti serial che curassero particolarmente l'ultimo episodio, la scelta era: chiudere i battenti senza colpo ferire oppure escogitare un calo del sipario in grande stile, un finale scritto e studiato con perizia, che suonasse davvero come una conclusione in grande stile? La Warner scelse questa seconda ipotesi e regalò alla storia della tv americana cento minuti di grandissima scrittura e messa in scena.


Un finale indimenticabile

Corteggiato a lungo dai produttori del network, Williamson alla fine si decise, dopo quattro anni, a tornare per scrivere la sceneggiatura dell'ultimo episodio. Durata doppia come si conviene per i grandi serial e promesse sbandierate di trovare un finale degno. Insomma, nel 2003, quando ancora l'idea di serializzare il racconto televisivo non era cosa di tutti i giorni e il concetto di narrazione ad episodi era a uno stadio ancora basilare, fu un teen serial a sublimare l'idea stessa di serie tv, congegnando un appuntamento conclusivo che dovesse mettere un punto al racconto iniziato sei anni prima.

Williamson ruppe subito le difficoltà del ritorno a distanza di molto tempo con un espediente neanche troppo originale: un salto temporale in avanti, nel 2008, a cinque anni dagli ultimi eventi descritti. Fu un modo per porre una cesura netta rispetto alle scelte degli sceneggiatori delle ultime due stagioni, raccordando piuttosto il filo del racconto non con un momento specifico del serial, ma con la situazione in generale. Dawson a Los Angeles, produttore di una soap per ragazzini; Joey a New York a pubblicare libri; Jen con bimba al seguito dopo essere stata lasciata dal compagno; Pacey gestore di un ristorante a Capeside e Jack insegnante al liceo della cittadina e fidanzato (segretamente) con il fratello di Pacey, Doug, nel frattempo diventato sceriffo. Tutto lo script è incentrato sulla riflessione circa l'attinenza della fiction al reale. Quanto si può rivivere il reale attraverso il cinema (o, come in questo caso, la televisione)? Williamson prende il volo nelle sue considerazioni, dopo essere maturato artisticamente lontano da "Dawson's Creek": ha sperimentato pregi e limiti di un gusto particolarmente metacinematografico del creare storie, ponendo la Settima arte stessa come fulcro centrale delle azioni dei suoi protagonisti, che si tratti di un horror o di un fantasy poco importa.

C'è un'interessante discussione, in quel di Los Angeles, che coinvolge Dawson e i suoi colleghi, tutti impegnati nell'uscire dal pantano in cui il loro show, "The Creek", è finito: come chiudere il triangolo amoroso? Meglio l'anima gemella predestinata? In questo caso il pubblico verrebbe rassicurato, non si uscirebbe dai binari della narrazione consueta e le peripezie dell'intreccio avrebbero avuto il loro scopo tradizionale, ovvero quello di diversificare gli eventi in attesa, però, del finale più atteso e "normale". Oppure meglio "lo sfidante", l'amore più maturo arrivato dopo? Ma in questo caso, ci si chiede, come reagirebbero gli spettatori? Si creerebbe un pericoloso precedente, il pubblico perderebbe certezze. Un programma televisivo mainstream che finisce con un colpo di scena? Una mossa molto azzardata. È come se Williamson si stesse facendo coraggio mano a mano che il copione veniva scritto: bisogna avere l'ardire di sperimentare nuove possibilità. Nessuno ha una sceneggiatura preconfezionata. Ed è così che finisce "Dawson's Creek", con un sogno d'amore che alla fine sfuma, con la morte di una delle protagoniste e con un bacio gay che suggella lo sdoganamento definitivo della relazione omosessuale nel serial.

Non solo in quest'ultimo episodio "Dawson's Creek" abbandona le zavorre da soap opera che lo avevano appesantito nella quinta e nella sesta stagione, ma si eleva anche rispetto al soggetto brillante delle prime quattro annate. Con gli attori che possono smettere di fare la parte degli adolescenti e invece vestono dei più confortevoli panni di giovani uomini e donne, i dialoghi e i ragionamenti non sono solo mere riflessioni linguistiche sull'uso della finzione scenica: diventano compassati e maturi pensieri sulle paure della crescita, sulla difficoltà del compiere scelte definitive, sulla durezza del ricordo e la dolcezza della nostalgia. "Dawson's Creek", che avevamo amato per quel suo essere fuori dal tempo e dalla moda, mette in scena il proprio finale con adulta consapevolezza, per un congedo completo e saggio. È lo show medesimo che dice agli spettatori che quell'epoca televisiva fa parte del passato, che quel modo di raccontare e di affabulare non è più parte del presente produttivo. Altri teen serial sono già in arrivo mentre l'ultimo episodio viene girato, altri prodotti ruberanno un po' di ispirazione aggiornata, però, al nuovo millennio. I ragazzi di Capeside salutano come dal palcoscenico di un teatro, ostentando la creazione artistica che hanno impersonato, sorridendoci dall'altra parte dello schermo, con quell'ultimo colpo di scena, un po' sornione e beffardo, come un'ultima sorpresa che resterà nel cuore dei telespettatori, un ricordo dolce ma al tempo stesso spiazzante.


I voti

Prima stagione: 8
Seconda stagione: 8
Terza stagione: 8
Quarta stagione: 7
Quinta stagione: 5
Sesta stagione: 5
Ultimo episodio: 9

Dawson's Creek
Informazioni

titolo:
Dawson's Creek

titolo originale:
Dawson's Creek

canale originale:
The Wb

canale italiano:
Italia 1

creatore:
Kevin Williamson

produttori esecutivi:
Outerbank Entertainment, Granville Productions, Columbia TriStar Television Inc., Procter & Gamble Productions, Sony Pictures Television

cast:

James Van Der Beek (Dawson Leery), Katie Holmes (Joey Potter), Joshua Jackson (Pacey Witter), Michelle Williams (Jen Lindley), Mary Beth Peil (Evelyn "Grams" Ryan), Mary-Margaret Humes (Gail Leery), Nina Repeta (Bessie Potter), John Wesley Shipp (Mitch Leery), Meredith Monroe (Andie McPhee), Kerr Smith (Jack McPhee), Busy Philipps (Audrey Liddell)

anni:
1998-2003