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Venerata, contestata, sviscerata, parodiata, si è appena conclusa la nonostante tutto più importante serie di questo decennio, apice dell'affermazione del fantastico audiovisivo e, forse, canto del cigno della quality television di HBO. "Game of Thrones" è difatti un’opera di cui, spentesi le ultime polemiche, si parlerà ancora per anni, una pietra miliare produttiva che ha contestato da questa prospettiva la separazione fra cinema e televisione

"Il trono di spade" è una serie difficile da maneggiare: vasta quanto un cosmo, correlata da una sequela di paratesti dalla natura e dalle finalità molteplici, è dal suo esordio (se non prima, come vedremo) oggetto di analisi e interpretazioni, quasi a farne una sorta di saga epica contemporanea. O un mito fondativo, come l’affrontare di petto certe tematiche attuali, pur nella loro trasposizione fantastica, vorrebbe forse rappresentare. Anche se il nonsense dell’ultima stagione rende comprensibile il desiderio di una trattazione che faccia luce su fatti e azioni dei protagonisti e ne fornisca interpretazioni ficcanti (di cui il web è già pieno) non è in questi punti che si trova il valore principale di "GoT". E altrettanto comprensibilmente non si volgerà a ciò la presente analisi. Ciononostante seguiranno, pur moderati, SPOILER.

Valar morghulis.

 

Capitolo I: Un gioco per il trono televisivo

"La giustapposizione meccanica di temi, figure, motivi […] ha come risultato la creazione di vere e proprie allegorie involontarie, […] che offrono in filigrana l’immagine di un’epoca, di una società e delle sue contraddizioni."
Monica Dall’Asta, "Trame spezzate. Archeologia del film seriale"

Per comprendere l’importanza di "Game of Thrones" e cosa ha rappresentato per HBO è opportuno fare una vistosa serie di passi all’indietro, risalendo fino alle origini della serialità USA contemporanea e al fondamentale punto di svolta della metà degli anni 90. Fu allora che una rete via cavo premium (cioè costante un surplus rispetto all’abbonamento basic), specializzata nella trasmissione di successi di recente uscita in sala e grandi classici, decise di interpretare letteralmente il proprio motto (“It’s not TV. It’s HBO”, in realtà adottato proprio a partire dal 1996) e lanciarsi nella realizzazione di prodotti tanto innovativi quanto controversi. I modelli erano il successo "Twin Peaks", rivoluzione più unica che rara nella storia di un medium, e la più consolidata tradizione 80s di drammi infragenere e di ambientazione urbana come "Hill Street Blues" ma l’approccio divenne immediatamente peculiare: mai la narrazione televisiva era stata così verbosa, minuziosa e apparentemente priva di compromessi dal punto di vista rappresentativo, mentre la regia assumeva un ruolo cardine nel definire questi universi narrativi saldamente realistici e al contempo fondati su regole personali, dando un tono à la New Hollywood alle produzioni HBO. Il dramma carcerario "Oz", oggi purtroppo quasi misconosciuto, rappresentava già nel 1997 un perfetto prototipo di quello che sarebbe presto divenuto un vero e proprio (influentissimo) macrogenere, il quality tv drama eternato da "The Sopranos".

Mentre, dopo il cambio di secolo, HBO portava verso nuovi lidi di realisticità e tono romanzesco la narrazione seriale col celebratissimo "The Wire" di David Simon, l’avanguardia, se così la si vuole definire, del serial si concentrava su racconti considerevolmente intricati e rappresentanti tout court della sensibilità post-modernista allora imperante. E fra "Buffy – L’ammazzavampiri" e "X-Files" i network generalisti cominciarono ad uscire dall’impasse estetica cui i drammi d’autore di HBO e delle altre premium cable imitantila l’avevano costretta, intrappolata fra format più rigidi e una censura poco permissiva. Anche stavolta il punto di riferimento è la mitogenesi di "Twin Peaks" e la sua narrazione volutamente criptica e frammentaria, di cui la serie di Josh Whedon è sicuramente degna erede, laddove la palma di titolo più rappresentativo spetta probabilmente al monstre "Lost", vero e proprio inno alla bulimia narrativa e alla manipolazione spettatoriale come base della nuova fruizione seriale. Mentre questo ottiene un record d’ascolti dopo l’altro, "The Wire", nonostante il clamore critico sollevato, risulta ogni anno sul punto di essere cancellato, quasi una sineddoche dei rischi della marginalizzazione cui il rimarcato elitismo HBO ha gioco forza condotto.

Ad eccezione del quasi lynchiano (perlomeno nelle ambizioni atmosferiche) "Carnivàle", HBO esita nell’approdare alla narrazione di genere stricto sensu e alla ricostruzione storica che pur sono sempre stati due pilastri delle serialità televisiva anche americana. Difatti si dovranno attendere ancora alcuni anni per vedere il network cable alle prese con numerose produzioni in costume e fantastiche, tra cui vanno citati per scopi esemplificativi almeno "Boardwalk Empire" e "True Blood", per quanto un progetto come "Roma" rappresenti al meglio l’applicazione del portato HBO a una storia di contesto non moderno (e quindi naturalistico) e quindi un modello nel senso più stretto per "Il trono di spade". La serie realizzata in collaborazione con BBC 4 e Rai Fiction trasporta la narrazione rallentata (slow burn, si suol dire) e basata su un cast corale e minuziosamente caratterizzato nella Roma tardo repubblicana, creando un’età delle guerre civili dal grandissimo valore rappresentativo e considerevolmente coinvolgente, grazie alla trama complessa ma non priva di quegli escamotage da feuilleton che contribuiranno a rendere grande "GoT". Si tratta d’altronde di un altro kolossal in costume, la prima prodezza di questo genere nella storia di HBO (con la quasi contemporanea "Deadwood", un western e pertanto più tradizionale da un punto di vista rappresentativo) e un prodotto che, al netto di alcune caratterizzazioni dalla scrittura pigra (si pensi a Ottaviano) e dalla minore tenuta della seconda stagione, mette in scena una situazione marcatamente di genere col miglior cipiglio realistico della quality television, evidente nella descrizione minuziosa degli intrighi politici di una metropoli sul punto di diventare capitale di un Impero.

In effetti il setting mediterraneo di Approdo del re e la caratterizzazione iniziale di alcuni dei protagonisti di "Game of Thrones" fa rammentare in un primo momento il progenitore spirituale della serie del 2011, concretizzatasi dopo le lunghe contrattazioni dei due showrunner David Benioff e Daniel Brett Weiss coll’autore de "Le cronache del ghiaccio e del fuoco" G.R.R. Martin e con la rete televisiva, non convinta soprattutto dalla considerevole ampiezza dell’arco narrativo dei romanzi. Un pilot pare disastroso non compromette il progetto, che nel corso del 2009 entra definitivamente in fase produttiva, dando il via alla più grande messa in campo di competenze tecniche nella storia della televisione americana. Nonostante l’aspetto ben più povero della prima stagione rispetto alle successive (soprattutto alle ultime due) il budget assegnato si aggira comunque tra i cinque e i 10 milioni di dollari a puntata, forse adoperati dapprincipio in buona parte per pagare il cachet di attori celebri come Sean Bean e Mark Addy, difatti destinati a una non lunga presenza. Come i colpi di scena che determinano la precoce uscita di scena dei protagonisti interpretati dai due suddetti i realizzatori de “Il trono di spade” ribadiscono fin da subito che la serie è qualcosa di mai visto finora in tutto il medium televisivo anche tramite la vastità di ambientazioni e quindi di luoghi di riprese e di elementi di scena e costumistici, puntando alla creazione di un universo narrativo di possanza e varietà mai raggiunte.

La via HBO alla serialità high concept rimarca fin dal primo, densissimo, episodio la voglia di recuperare il tempo perduto con lo sviluppo di un ecosistema narrativo, per rifarsi alla definizione di Guglielmo Pescatore, tanto ricco quanto coerente, contraddistinto da una presenza sui media (dai libri ai videogiochi) massiva e da una produzione accompagnata da un’incessante campagna marketing, iniziata ancor prima dell’inizio della produzione e rendente subito "GoT" la serie più attesa del 2011. L’equilibrio fra fasto transmediale e scenografico e scrittura di qualità marchiata HBO dura per tutte le prime stagioni e contribuisce a cementare la fama della serie nel panorama mainstream, come evidenziano i dati del rating Nielsen in continua crescita, con le abituali flessioni del primo terzo di stagione e della seconda metà che hanno proporzioni risibili (i 10 episodi molto concentrati sono di certo un format vantaggioso). Vengono difatti evitate le trappole della narrazione iperbolica (che pure è ciò che ha causato la mancata pubblicazione, per ben otto anni, del sesto romanzo della saga-fonte) del succitato "Lost", mentre la spettacolarità di battaglie campali, duelli e grandi cerimonie viene somministrata in maniera accorta e non di rado ironica, conservando quindi il budget ad maiora. La formula della rete premium cable dimostra quindi la possibilità di incrociare i due modelli narrativi principi della serialità USA coeva e funge quindi da esempio per una vasta serie di produzioni, sia HBO che non, con la piattaforma OTT Netflix ad averne sposato gli ideali di quality tv ibrida in maniera pedissequa e spesso deludente nella sua prevedibilità.

Colpisce che una serie fantasy, nell’immaginario e negli ultimi anni anche alla prova dei fatti grazie al digitale fondata sulla creazione di realtà, in primis luoghi, completamente altre debba molto della sua efficacia alla grande capacità di individuazione e sfruttamento delle location, quasi tutte europee, in cui le sue vicende sono ambientate. D’altronde "Il trono di spade" ha decuplicato la rendita turistica dell’Irlanda del Nord, vero e proprio hub della produzione e sede di moltissimi set, praticamente tutti quelli posti tra la Barriera e Approdo del Re (la candida Dubrovnik), e dimostrato come il modello de "Il signore degli anelli" fosse replicabile non solo in un medium differente ma anche in una parte del mondo che certo non è ignota ed esotica quanto la Nuova Zelanda. D’altronde il meticoloso world building de "Le cronache del ghiaccio e del fuoco" è ciò che, senza arrivare alla minuziosità di Tolkien, ha contribuito a dare sostanza a una narrazione già nei romanzi molto frammentaria e ricca di scarti e inversioni, ed è difatti la perdita di consistenza del mondo a contribuire a un primo netto calo di qualità della serie a partire dalla quinta stagione, cominciando un’alterazione di proporzioni geografiche e temporali e della connotazione di popoli e terre che diventa poi pura inconsistenza nell’ultimo instalment. Forti di maggiori mezzi digitali i luoghi arrivano a perdere spesso alcuni loro tratti caratteristici in nome della spettacolarità, finendo per negare quella interessantissima e fruttuosa (e infatti analizzata da molti studiosi della serialità televisiva, come Jason Mittel) unione fra racconto delle vicende e viaggio che la celeberrima sigla sanciva, proponendo un paratesto che si fa anticipazione e chiave di lettura del testo propriamente detto, per usare i termini del succitato.

Laddove la saga di Martin ribadiva la propria natura metanarrativa fin dal titolo ("A Song of Ice and Fire", nell’accezione di ballata) la serie adopera l’opening con una finalità simile, così come, a voler essere arditi, tutti i numerosi contenuti come making of, caratterizzati da un tono discorsivo ed epico che a tratti si risolve in una vera e propria drammatizzazione del proprio ruolo documentario, rafforzando le retoriche di eccezionalità che come si è accennato connotano "Game of Thrones" fin da prima del lancio. Eccezionalità che, perlomeno a livello produttivo ed estetico, pare difficile poter negare e che, rafforzata da un apprezzamento quasi ecumenico fino alla sesta stagione, ha posto la serie HBO come un punto di riferimento per ogni progetto dalle ambizioni epiche e di consistenza narrativa del mondo, in un agone in cui anche lo stesso network USA non ha esitato a ripiombare con prodotti come "Westworld" e "Watchmen" (e il per il momento solo progettato spin off di "GoT"), in compagnia di "Vikings", "Britannia" e similia. Anche alla luce del tracollo dell’apprezzamento gli ascolti record testimoniano la centralità de "Il trono di spade" nella percezione collettiva del medium, così come il valore produttivo attribuitovi dalla rete via cavo rende ogni momento, perlomeno tecnicamente, all’altezza di una produzione cinematografica. Se l’obiettivo di HBO è stato fin dall’inizio portare le loro narrazioni al livello del miglior standard hollywoodiano e quindi ampliare ancora una volta il campo del possibile televisivo, la serie di Benioff e Weiss può dire di aver raggiunto il suo compito, al netto della perdita del suo principale valore, la complessità narrativa marchio di qualità premium cable.


Capitolo II: A Song of Fantasy and Television

"Diventiamo tutti canzoni alla fine. Se siamo fortunati."
Catelyn Stark, in "La tempesta di spade"

Presentato come "I Soprano nella Terra di Mezzo" "Game of Thrones", al netto degli evidenti modelli interni alla produzione HBO per quanto concerne la strutturazione narrativa, è in primo luogo una trasposizione fedele, nel tono e, fino ad un certo punto, nello spirito, della saga romanzesca di George Raymond Richard Martin, probabilmente uno dei più influenti esempi di fantasy post-tolkieniano. Per evitare fraintendimenti urge subito distinguere fra l’opera dello scrittore e filologo inglese, rappresentante l’archetipo e al contempo il maggior compimento del cosiddetto high fantasy, ovvero il fantastico di ambientazione medioevale e dalla marcata connotazione magica del mondo e morale della narrazione, e quella dell’americano, ponentesi con abilità e una certa dose di astuzia tra high e low fantasy, il quale sarebbe caratterizzato da una maggiore realisticità del contesto e da una, in teoria, maggiore maturità dei temi, non di rado elidendo quasi del tutto l’elemento magico. Apparentemente la stessa scelta compiuta da Martin e dagli sceneggiatori della serie, per poi intraprendere un progressivo ritorno al fantastico, culminante con lo scontro fra vita e morte (cioè Bene e Male) delle ultime due stagioni, con però delle differenze realizzative ben differenti, a causa della diversa natura dei due media, dato che la grande enfasi su ballate, aneddoti e dicerie che fa insinuare l’elemento mitologico nel mondo della Westeros cartacea non poteva certo facilmente essere riprodotta nella controparte audiovisiva. In questa alterazione a priori va rintracciato uno dei motivi principali della trasformazione e, se si vuole, dello squilibrio narrativo delle ultime stagioni de "Il trono di spade".

Risultato quanto mai ironico, considerando che proprio per evitare una eccessiva concentrazione, e quindi alterazione, delle vicende da lui narrate Martin avesse rifiutato fin dalla fine degli anni 90 la cessione dei diritti di adattamento della saga, sapendo bene che mai un film avrebbe potuto rappresentare adeguatamente "Le cronache del ghiaccio e del fuoco". Lo scrittore aveva difatti già avuto a che fare con il cinema e la televisione, avendo partecipato a un certo numero di lavori CBS e Columbia Television tra il 1986 e il ’95, principalmente come sceneggiatore e produttore esecutivo, esperienze in cui s’era confrontato con le rigidità e le tempistiche della produzione audiovisiva tanto da convincerlo a lasciar perdere un medium che, al netto della sua reddittività, pareva limitante la sua brama di raccontare. Questa veniva sfruttata negli stessi anni nella delineazione della eptalogia (allora ancora una più classica trilogia) che lo avrebbe reso celebre e nella scrittura del primo libro, pubblicato alla fine del suo decennio hollywoodiano. La narrazione complessa e ricca di colpi di scena di Martin era però destinata a rimanere prerogativa della carta stampata fino a che il successo della trilogia di Peter Jackson e della saga di Harry Potter mostrarono le possibilità commerciali del fantastico, mentre l’autorità e i corposi capitali di HBO garantirono all’autore la possibilità di una resa dei romanzi adeguata e sufficientemente prestigiosa.

I successivi anni hanno dimostrato la velleitarietà della "bolla fantasy", non solo concretizzatasi in opere di qualità spesso a dir poco discutibile ma spesso anche caratterizzata da una rendita al di sotto delle aspettative, da cui le numerose saghe iniziate e poi abortite ("Eragon" e "La bussola d’oro", per citare due testi-fonte di eguale successo e diversa qualità, il secondo dei quali sta venendo ripreso proprio da HBO), similmente a come negli anni 10 è avvenuto con il genere distopico. La causa del successo di "Game of Thrones" sta palesemente non negli elementi di genere della produzione, quanto in quelli percepiti come originali, in primis la rappresentazione marcatamente realistica e compiaciutamente sordida del mondo narrativo, non lesinando, come da contratto HBO, nella rappresentazione di violenza e nudità, attiranti di sicuro molte critiche (in primo luogo soprattutto per la rappresentazione femminile conseguente) ma anche ribadendo l’unicità di questo fantasy televisivo. Non si tratta solamente di creare un ricco e contrastato discorso comune riguardo alla serie ma anche dimostrare le possibilità espressive del medium televisivo, superanti, perlomeno nella retorica premium cable, anche il cinema per quanto riguarda la vastità e la profondità dei mondi rappresentati. In questa ottica i romanzi dell’ex-sceneggiatore (che nel frattempo ha firmato uno script per ciascuna delle prime quattro stagioni) si possono considerare scritti in funzione dell’adattamento televisivo, ricordando che la brevità e densità dei capitoli dei fluviali libri è la stessa di una sequenza di una serie televisiva ben scritta.

Ciononostante le differenze fra "A Song of Ice and Fire" e "Il trono di spade" sono presenti e nette e non riguardano solamente cambiamenti estetici dei personaggi (gli occhi violetti di Daenerys e la deformità molto più accentuata di Tyrion, ad esempio) o alcune prevedibili divergenze narrative (il casus belli delle Nozze Rosse o alcuni atti da Lord Comandante di Jon Snow), comprensibili data la natura necessariamente realistica dell’audiovisivo live action e la necessità di contrasti sempre marcati ed espliciti per un miglior pathos narrativo in un racconto forzatamente diluito come quello seriale. La ricerca del dramma e dello shock a tutti i costi che ha reso discontinue le ultime stagioni va attribuita alla già analizzata prassi narrativa ibrida della serie (e forse alla maggior parte delle forme narrative del medium), comprimente la complessità e la molteplicità (di prospettive, di interpretazioni, di storie, etc…) che sono i tratti fondamentali delle "Cronache" in uno spettacolarismo realistico che è ciò che ha reso "Game of Thrones" sé stesso ma ne ha anche fissato i limiti, rendendo inopportune o comunque ostiche quasi tutte le digressioni dai toni molto più molteplici che hanno contribuito alla riuscita dei romanzi. Vi sono eccezioni di grande efficacia, come la parentesi pacifista e popolana di Sandor Clegane o la peregrinazione a tratti quasi fiabesca di Samwell e Gilly attraverso il Nord, ma in generale ciò che non tratta di violenza, sesso, politica feudale o verbosa retorica non riesce ad amalgamarsi bene con il mondo narrativo, come avviene per la vicenda di Bran (e tacendo di quella del Re della notte).

La peculiarità e, complessivamente parlando, non completa riuscita del fantasy de "Il trono di spade" impedisce quindi di poter parlare della serie HBO come di un vero e proprio nuovo paradigma fantastico (ben diversamente da come avvenne per "Il signore degli anelli", non sorprendentemente citato fino alla nausea nelle battute finali della serie), tantoché gli esempi di prodotti del genere riusciti nella tv contemporanea si contano sulle dita delle mani, come "American Gods", che però è un urban fantasy tout court, o "Vikings", che lo adopera come mistico deus ex machina e difatti è riuscito sotto ben altri punti di vista. Quest’ultimo serial, insieme a una sempre più nutrita schiera di prodotti, evidenzia tutt’al più la maggiore fiducia post-"GoT" dei produttori nell’investire in monumentali affreschi storici, spesso emulanti la serie HBO sia a livello narrativo e rappresentativo che tematico, finendo così spesso per emularne difetti e limiti (e spesso senza averne l’elevato production value, né l’intelligenza della fonte). Alla luce di ciò risulta risibile negare l’importanza della serie a partire dal calo qualitativo degli ultimi anni o dal fallimento del ritorno all’influenza dei tempi de "I Soprano" tramite il successo di un prodotto, quanto si deve piuttosto ridimensionare definitivamente l’eccezionalità che da sempre ha connotato "Game of Thrones", derivando questa da una prassi narrativa e produttiva già ben consolidata e conclamata prima della sua realizzazione e da una fonte non certo rivista e arricchita nell’adattamento, quanto piuttosto resa con efficacia nelle stagioni migliori.

La forza di "GoT" non va difatti cercata né nella labirinticità degli sviluppi narrativi, né nella raffinatezza del character development (anche alla luce della limitatezza di questo, laddove non quasi del tutto assente, come avviene addirittura per alcuni protagonisti), rimarcando forse la parzialità con cui la serie ha sviluppato i due modelli narrativi che ne sono il fondamento, ma va rintracciata nella dimensione che è stata capace di costruire e nel come essa si è fatta strumento di narrazione. Ne "Il trono di spade", come nelle migliori opere in costume, la narrazione passa anche tramite gli abiti dei protagonisti e i luoghi in cui interagiscono, dicendo molto più su di loro di quanto la sempre più frettolosa sceneggiatura faccia, anche grazie al contributo di registi di talento come Neil Marshall, David Nutter e Miguel Sapochnik (come esplica ottimamente il contributo di Sara Martin presente nella raccolta di saggi da lei stessa curata, presente in bibliografia). Il ricorso a tali raffinatezze, pur comunicanti spesso evoluzioni fin troppo nette se non proprio grossolane, è fondamentale nello sfumare queste trasformazioni e il venirne meno nella fretta delle ultime due stagioni è un ulteriore concausa dell’appiattimento dei personaggi, evidente ad esempio nel personaggio di Daenerys, i cui bruschi cambiamenti delle prime stagioni si riflettevano più sugli abiti indossati da Emilia Clarke che sulla recitazione dell’attrice (percorso inverso pare essere capitato a Jon Snow/Kit Harrington, che quando ha cominciato a cambiare mise è incappato nella stasi evolutiva).

L’enfasi sui costumi sottolinea il legame fra "Game of Thrones" e il melodramma, genere che come molti studiosi del settore rimarcano da alcuni anni ha avuto un ruolo importantissimo nel delineare le evoluzioni della quality tv HBO (similmente a come le sue incarnazioni 50s fecero nei confronti del cosiddetto cinema post-classico), e permette quindi di ricondurre la complessa vicenda tratteggiata da Martin al dramma famigliare in un mondo fantastico e bellicoso che in fondo è. D’altronde il sesso e la violenza, per cui la serie è stata così spesso lodata e vituperata, sono la matrice stessa del melò fin dalla sua origine ottocentesca di contenitore ridondante e drammatizzante in maniera radicale dei contrasti fra individuo e società. Dialettica che ne è al cuore e che dimostra, se ancora ve ne fosse bisogno, che "GoT" non è un raffinato esperimento autoriale come può essere "Twin Peaks - Il ritorno" ma una serie di evidenti ambizioni popolari, per l’appunto conseguite con successo, e quindi il perché del suo interesse sta anche nel modo in cui si è interfacciata con le aspettative del pubblico, finendo per divenire la serie più rappresentativa del decennio volgente al termine. Pochi prodotti simili sono difatti riusciti a rappresentare in una forma altra le angosce totalitarie e la sfiducia generalizzata degli anni 10, rispondendovi con numerosi esempi di (me lo si conceda) "nichilismo attivo" e savoir fair, mentre fanatici e integrati crollano con i castelli di sabbia in cui si sono imprigionati.

Fondamentale al riguardo è il cambiamento nella rappresentazione delle protagoniste, dapprima inserite (certo non senza resistenze) in verosimili, dato il contesto, dinamiche di costrizione e manipolazione e poi rese protagoniste del "gioco del trono", laddove le pretese di potere degli uomini sono ridicolizzate (la pantomima di Jon Snow e della sua sottomissione alla Targaryen, ancora più tragicomica alla luce del finale), giungendo fino all’annientamento del maschile puro, bellicoso e non comunicativo, rappresentato dal Re della Notte, guarda caso emblema anche dell’elemento fantastico e quindi dell’irrazionale. Come in altre narrazioni femministe attuali o presunte tali (penso al romanzo "Ragazze elettriche" di Naomi Alderman) la resa di questo pattern narrativo finisce per creare però dei cliché dittatoriali, spesso rifacendosi apparentemente all’idea macbethiana che il femminile per imporsi debba rivoltare i propri valori e connotati e arrivando tra l’altro a rimarcare inveterati stereotipi misogini e a produrre scostanti tiranne (la coppia oppositiva, così fruttuosa sulla carta, Cersei-Daenerys), o in alternativa Mary Sue che annientano la verosimiglianza di un mondo dalla consistenza già traballante (Arya, che fra le protagoniste resta quella che ha avuto lo sviluppo più interessante). Nella crescente importanza di questa tematica, così come di quella razziale, più evidente nella serie rispetto alla fonte, si nota la funzione rielaborativa del reale con cui "GoT" è stato connotato in maniera sempre più netta, che tanto più occulta in mondi fantastici e personaggi melodrammatici le proprie problematiche e più ne rimarca l’urgenza fuori dalla narrazione. Non sarebbe del tutto esagerato considerare "Il trono di spade" il conflittuale (e per questo di frequente contraddittorio) inconscio del decennio.


Capitolo III: le cronache di uno show e di uno spettatore (ovvero le gioie del rewatch)

"Se solo stai sperando in un lieto fine non sei stato abbastanza attento."
Ramsey Bolton, in "The Climb" (03x06)

Stagione 1

Pur scontando una spettacolarità limitata a causa del budget ancora non così elevato (non c’è una battaglia che sia tale, impensabile in un fantasy, per quanto l’astuzia con cui si glissa su ciò ben rappresenta bene la qualità di scrittura di questa fase) e la sensazione di eccessiva frammentazione di alcune linee narrative nella parte centrale della stagione, questa si dimostra un eccellente preludio a quello che sarà la serie. Come gigantesco prologo (che in effetti è quello che è, come il romanzo da cui è tratto) funziona sotto ogni punto di vista, abbozzando in maniera efficace e non di rado accurata i personaggi così come l’intero mondo immaginato da Martin, grazie anche alla cura minuziosa per le scenografie e la qualità di un cast di veterani (laddove i giovani sono, e resteranno, spesso troppo monocordi). Merito anche per gli ormai proverbiali (e qui ancora efficaci e genuinamente sorprendenti) colpi di scena, che a partire dalla seconda metà della stagione trascinano progressivamente lo spettatore fuori da quella comfort zone in cui il bozzettismo ricorrente nei primi episodi poteva averlo fatto cadere (l'"effetto Xena" è di sovente dietro l'angolo). Non a caso la conclusione della nona puntata e l’inizio della successiva costituiscono il vero e proprio apice emotivo della stagione e uno dei momenti migliori dell’intera serie, una promessa di crudeltà che ha di certo contribuito a cementare il successo di "Game of Thrones".

Voto: 8

 

Stagione 2

Le ultime puntate della stagione precedente modificavano molto di quanto mostrato finora, permettendo così alla seconda di concentrarsi fin dall’inizio nella creazione di nuove terre e nello sviluppo di nuovi personaggi, con più classe e ponderazione della precedente. Dopo qualche ora anche in questo caso la storia soffre per l’eccessiva condensazione di linee narrative ma la gestione più oculata (rendente alcune di queste, come quella di Daenerys, brevi fin quasi all’inconsistenza, ma comunque memorabili per la qualità della scrittura e la ricchezza di dettagli che preparano le svolte future) impedisce allo spettatore di annoiarsi, mentre il mondo narrativo si espande fino quasi ai suoi massimi confini (a est, a nord e a ovest) e molti dei personaggi di maggior rilievo dell’intera produzione vengono introdotti. E poi arriva la nona puntata, stabilente un altro cliché interno alla serie, ovvero la battaglia del penultimo episodio della stagione pari, e quando, dopo 53 minuti in cui la maggior parte delle traiettorie dei protagonisti è collimata in un solo luogo, si sente la metanarrativa "Rains of Castamere" durante i titoli di coda si percepisce che, al netto della spettacolarità comunque moderata della battaglia appena vista, la serie HBO ha ora rivelato tutto il suo potenziale e che ora il "gioco del trono" può finalmente entrare nel vivo e puntare davvero ad essere la più grande narrazione epica mai trasmessa sul piccolo schermo.

Voto: 8

 

Stagione 3

Il terzo segmento della grande epopea tratta da "A Song of Ice and Fire" continua quanto fatto dalla stagione precedente e conduce il mondo narrativo alla sua massima estensione: pochi saranno i luoghi e i personaggi veramente significativi a essere d’ora in poi introdotti. Il world building non è l’unica cosa a raggiungere l’apice, considerando la qualità di scrittura raggiunta e la maggiore spettacolarità concessa dal budget decisamente più cospicuo: l’investimento e la pazienza di HBO hanno cominciato a dare i loro frutti. Mentre "Game of Thrones" conquista definitivamente il trono nel panorama della produzione seriale ad alto budget al contempo riserva molti dei suoi momenti più emozionati e geniali, così come molti dei suoi protagonisti raggiungono finalmente una complessità degna del paradigma quality (i tre fratelli Lannister, in primis) e la crudeltà narrativa si concretizza nel forse più drammatico episodio dell’intera serie (quel progressivo avvicinarsi di Arya a Delta della acque, sempre più ritmato e alludente a una qualche tragedia imminente non ben definita). Proprio dove le prime due stagioni latitavano (la fluidità dello sviluppo dei personaggi e la spettacolarità sempre al di sotto delle attese) questa dimostra la sopraggiunta maturità del duo di showrunner, producendo quella che può essere probabilmente definita la più riuscita stagione di GoT in assoluto, come sanciscono puntate clamorose come la quinta, la settima o la nona. Di certo la più equilibrata, e parlando di un melò fantasy che persegue costantemente l’eccesso non può che considerarsi un fruttuosissimo paradosso.

Voto: 8 ½

 

Stagione 4

Si prosegue col medesimo elevato standard nella probabilmente (e motivatamente) più divisiva fra tutte le stagioni di "Game of Thrones", celebrata da molti come la vetta assoluta del progetto e criticata da altri come l’inizio dello scadimento di cui vengono accusati gioco forza gli instalment successivi. Quel che è sicuro è che la spettacolarità di episodi come il quarto e il nono porta a compimento l’avvicinamento alla grandeur del blockbuster cinematografico che è sempre stata un obiettivo manifesto della serie HBO e prefigura il sorpasso che le grandi battaglie delle stagioni successive possono forse essere considerate. Non si possono contestare neanche i livelli di pathos che caratterizzano quasi tutte le principali linee narrative, anche quelle che precedentemente parevano aver cominciato a girare su sé stesse (Bran Stark, che difatti non rivedremo per un intero anno), con il climax posto stavolta non al nono ma al secondo episodio, in una delle più eccezionali sequenze viste in tv negli ultimi anni. Quel che si può contestare alla serie del 2014, oltre a questa costruzione anticlimatica che pur viene gestita ottimamente tramite processi, complotti, battaglie e battute (che pur sono un preludio alla deriva badass che dalle ultime puntate comincia ad affliggere la sceneggiatura), è lo squilibrio quantitativo fra le linee narrative (non poche vengono chiuse o posposte difatti), pur ivi incrociantesi come mai fino alla settima stagione, e il ricorso ai colpi di scena (gli "effetti speciali narrativi" di Mittel) che comincia a stuccare, parendo talvolta più casuali che imprevedibili.

Voto: 8

 

Stagione 5

Nonostante l’allontanamento dalla fonte la serie ribadisce suo malgrado la vicinanza ai romanzi da cui è tratta (parti del quarto e del quinto, simultanei a livello cronologico per buon parte della loro lunghezza) imitandone il passo più incerto e il minor equilibrio narrativo, enfatizzando così molte delle derive deteriori già emerse nella stagione precedente. Il pessimo trattamento della linea narrativa di Dorne (spolpata, condensata, travisata) evidenzia l’incapacità degli sceneggiatori nel dare spessore a personaggi e situazioni nuove, così come nel gestire il ritmo del racconto, avendo abbandonato, ancora su modello di "GoT" 4, la marcata frammentazione precedente a favore di una costruzione delle singole sezioni interne agli episodi "circolare", assommante un certo numero di vicende di uno o più protagonisti in un unico blocco, da cui parte in maniera spiraliforme una catena di frammenti dedicata a personaggi via via più “lontani” dai suddetti. La tenuta delle sottotrame, in quasi tutti i casi sempre più impalpabili e prevedibili, rimane quindi salda (più o meno) ma la noia comincia seriamente a far capolino, anche perché la sempre più evidente ambizione dei grandi momenti spettacolari conduce a un budget ridotto, in proporzione, per ogni momento che non lo sia, finendo per causare una frequente sensazione da scena di raccordo. La volontà di giocare coi propri cliché culmina nell’immancabile morte-shock del nono episodio, pretestuosa come il fare ludico prevede ma anche pietra tombale su una puntata con troppe linee narrative e troppo poco pathos (e effetti speciali ignominiosi per lo standard dello show): posta in mezzo ai due episodi migliori della stagione, forse gli unici a tenere alto il vessillo della serie, rimarca ulteriormente la proprio programmaticità (e quindi sterilità) fra i 30 splendidi minuti della battaglia di "Hardhome" e i vertici di sviluppo drammaturgico di "Mother’s Mercy" (Jaime, Cersei, Jon).

Voto: 6 ½

 

Stagione 6

Nel sesto instalment della serie si prosegue lungo il percorso interlocutorio del predecessore, di cui ha tutti i difetti principali: lo squilibrio non tanto quantitativo quanto qualitativo tra i vari filoni narrativi, l’incapacità di creare nuovi personaggi e contesti che siano convincenti (le Isole di ferro, un’altra enorme delusione dopo Dorne, che difatti con rapidissima sequenza nella prima puntata sparisce come setting), lo sviluppo eccessivamente rapsodico di molte vicende (Braavos, Meereen senza Daenerys), la progressiva perdita di consistenza del mondo (con il fast travel videoludico che è ormai una feature posseduta da quasi tutti i protagonisti e l’approfondimento etnografico delle prime stagioni che viene sacrificato a favore della spettacolarità) e una ricerca dell’umorismo che sembra più ossequiosa di certe tendenze dell’audiovisivo contemporaneo che figlia della brillantezza sceneggiativa. Eppure "GoT" 6 supera ampiamente la stagione precedente nel complesso, sacrificando apertamente certe linee narrative sull’altare del minutaggio e dell’instabile equilibrio narrativo di questo moloch e sapendo fare un uso più accorto dei vari momenti interlocutori limitati dal budget come momenti di decompressione di un crescendo costruito stavolta con accortezza. Il clamoroso dittico finale, che può forse essere definito l’apice, perlomeno a livello registico, dell’intera serie (grazie, Miguel Sapochnik), non compensa tutte le carenze degli episodi precedenti (in generale meglio ritmati che nei due segmenti antecedenti) ma è la miglior esemplificazione di ciò che "Il trono di spade" è divenuto perlomeno a partire dalla quarta stagione: uno spettacolo discontinuo e forse privo della raffinatezza del passato ma tranquillamente eguagliante, anzi, superante, il kolossal cinematografico contemporaneo in quanto a trionfalità. La regia d’auteur di "The Winds of Winter" sta qui a ribadire ciò e il senso di "GoT" per HBO e per la tv attuale tutta.

Voto: 7

 

Stagione 7

Da più parti si sono definite le stagioni precedenti alla settima come un enorme preludio allo scontro definitivo e data la peculiarità narrativa dell’ultima parte della serie, dalle tempistiche molto più rapide rispetto a quanto visto in precedenza, e caratterizzata da un progressivo radicalizzarsi delle posizioni dei protagonisti e delle loro rappresentazioni (fino a finire ampiamente out of character), mentre il numero di questi cala incessantemente. Per chi scrive sarebbe più opportuno parlare però di "GoT" 7 come un immenso episodio di raccordo fra le prime sei stagioni e il concentratissimo scontro finale: ciò si riflette nel carattere brusco di molte svolte ed evoluzioni, eliminando in sette puntate quasi più comprimari che nelle sessanta precedenti e producendo un doppio rispecchiamento di antagonismi che rappresenta in maniera ingannevole il ritorno de "Il trono di spade" nell’alveo dell’high fantasy di matrice tolkieniana. E quando Petyr Baelish cade agonizzante sul pavimento anche il "Game of Thrones" dei tempi che furono, o meglio l’immagine low fantasy di sé che riuscì così bene a comunicare, si dimostra un obsoleto e sopravvalutato totem, a conferma dell’importanza della serie in primis produttiva e solo in secondo luogo narrativa (dell’elemento discorsivo pare ormai superfluo parlare). Laddove le due stagioni precedenti compensavano i propri numerosi difetti nella riuscita di precisi momenti o addirittura episodi, questa non riesce quasi mai a valorizzare allo stesso modo il suo grande production value, generando battaglie spettacolari ma stranamente mancanti di pathos (la quarta puntata, tranne il finale) ed episodi smisurati quanto a perenne rischio tedio (i 78 minuti del conclusivo "The Wolf and the Dragon", in un diluitissimo tentativo di emulare la grandeur di "The Winds of Winter"). Mentre coup de théâtre e agnizioni degni di uno shōnen avanzano inesorabili come il Re della notte in uno show che ormai non può che celare la propria meccanicità che con uno spettacolo sempre più maestoso, così come effimero.

Voto: 6

 

Stagione 8

Si è soliti dire che narrazioni di lung(hissim)o corso non possono trovare un finale veramente soddisfacente, tanto più nell’epoca del fandom, in cui il loro portato viene esteso da analisi e teorie dei fan e quindi il para-racconto finisce spesso per oscurare la matrice, la quale alla fine si sviluppa seguendo tutta una serie di limitazioni che invece le rielaborazioni esterne non sono tenute ad avere. "GoT" 8, chiudente il cerchio sulla serie del decennio e, in maniera parziale, sulla più importante saga fantasy degli ultimi 30 anni, è ben esemplificativo di ciò, proponendo, con una condensazione delle vicende che distrugge quasi ogni pathos ed è quanto di più lontana dalla narrazione slow burn, una sequela di battaglie, confronti individuali e discussioni collettive che è quasi dall’esordio la struttura base della serie ma che, così gestita, non può che stuccare già a metà stagione (e sono sei puntate, si rammenta). Sottomettendo ogni ragionevole sviluppo dei personaggi e della trama alla direzione cui gli showrunner hanno costretto il racconto la meccanicità, grande debolezza de "Il trono di spade" (così come della maggior parte della serialità), non può essere più celata sotto il grande sfarzo delle scenografie e degli effetti speciali, così come dei pochi momenti riusciti. Apparentemente la stagione sarebbe stata concepita da HBO in tre film, poi estesi in due puntate brevi e quattro monstre, un’espansione che fa onore a Benioff e Weiss ma che di certo non basta a far respirare una storia in cui i personaggi agiscono quasi tutti in maniera slegata dal loro passato e una marea di impliciti rende la narrazione sempre più lacunosa. Il finale prova a rilanciare il pathos delle origini ma la brusca cesura centrale e il fanservice onnipresente determinano la fine di ogni sua ambizione, così come la valanga di citazioni, non solo al "Signore degli anelli" ma a interi ambiti della cultura popolare contemporanea, non aggiunge quasi mai significato e finisce per rendere ancor più anonimo uno show la cui eccezionalità sta ormai solo nei mezzi economici impiegati.

Voto: 5

 

Percepita da molti fan come una lesa maestà l’ultima stagione di "Game of Thrones" è in realtà diretta filiazione della precedente e conseguenza di scelte narrative presenti fin dai primi instalment e proprio per questo motivo così fallimentare: la frequente gratuità del "subverting expectations", la drammaticità come unico compimento possibile di (quasi) ogni linea narrativa e il fanservice e le citazioni come tramite per mantenere l’attenzione spettatoriale sono stati fedeli compagni di viaggio di "GoT" fin dall’inizio. E, come dice il detto, chi va con lo storpio impara a zoppicare (o a volare?). La serie HBO è caduta come "Lost" sotto il peso della sua intricatezza narrativa (e della allora ancora acerba prassi produttiva della Abc) e "True Blood" (parlando di primi esperimenti di genere di cable premium) degli stereotipi con cui giocava e che alla fine ne sono divenuti la carne: quindi un’altra vittima di un medium che si dipinge così spesso come il grande narratore di quest’epoca ma che è troppo implicato per sostenere il peso delle sue storie senza appiattirle e sfibrarle. O forse è proprio questa la ragione per cui la serialità televisiva sembra dire così tanto al e del presente.

Valar dohaeris.

 

 

Per approfondire

 

"Complex TV. The Poetics of Contemporary Television Storytelling", Jason Mittel, NYU Press, 2015 (Minimum Fax, 2017)

"Game of Thrones: Una mappa per immaginare mondi", Sara Martin, Valentina Re (a cura di), Mimesis, 2017

"It’s All Connected. L’evoluzione delle serie tv statunitensi", Paola Brembilla, FrancoAngeli, 2018

"Le nuove forme della serialità televisiva. Storia, linguaggio e temi", Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore, ArchetipoLibri, 2008 (CLUEB, 2012)

"Narrative Complexity in Contemporary American Television", Jason Mittel, in "The Velvet Light Trap", numero 58 (autunno 2006), University of Texas Press

“The HBO Effect”, Dean J. DeFino, Bloomsbury, 2014 

Il trono di spade
Informazioni

titolo:
Il trono di spade

titolo originale:
Game of Thrones

canale originale:
HBO

canale italiano:
Sky Cinema, Sky Atlantic, Rai 4

creatore:
David Benioff, D. B. Weiss

produttori esecutivi:
David Benioff, D. B. Weiss, Carolyn Strauss, Frank Doelger, Bernadette Caulfield, Bryan Cogman, David Nutter, Miguel Sapochnik

cast:

Sean Bean, Mark Addy, Peter Dinklage, Lena Headey, Nikolaj Coster-Waldau, Emilia Clarke, Iain Glen, Michelle Fairley, Kit Harrington, Sophie Turner, Maisie Williams, Isaac Hempstead-Wright, Richard Madden, Alfie Allen, Aidan Gillen, Conleth Hill, Harry Lloyd, Jason Momoa, Jack Gleeson, Rory McCann, Charles Dance, Stephen Dillane, Liam Cunningham, John Bradley, James Cosmo, Jerome Flynn, Sibel Kekilli, Joe Dempsey, Carice Van Houten, Natalie Dormer, Rose Leslie, Oona Chaplin, Hannah Murray, Gwendoline Christie, Tom Wlaschiha, Michael McElhatton, Krystofer Hivju, Iwan Rheon, Nathalie Emmanuel, Jacob Anderson, Michiel Huisman, Indira Varma, Dean-Charles Chapman, Jonathan Pryce, Kristian Nairn, Art Parkinson, Ian McElhinney, Julian Glover, Gethin Anthony, Eugen Simon, Richard Dormer, David Breadley, Gemma Whelan, Daniel Portman, Diana Rigg, Anton Lesser, Ciaràn Hinds, Paul Kaye, Thomas Brodie Sangster, Ellie Kendrick, Clive Russell, Tobias Menzies, Kerry Ingram, Pedro Pascal, Alexander Siddig, Max Von Sydow, Pilou Asbaek, Bella Ramsey, Hafdòr Jùlìus Bjornsson

anni:
2011-2019