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TRUE DETECTIVE STAGIONI 1-2-3. Subito divenuta cult negli Stati Uniti, "True Detective" apporta una serie di innovazioni formali e contenutistiche alle convenzioni del piccolo schermo: fondendo in sé detective story e paranormale in maniera del tutto ponderata, riesce a dare nuovo volto e nuova statura al genere poliziesco

Trasmessa nel 2014 da Hbo e divenuta subito serie dell'anno, "True Detective" ha fissato un nuovo traguardo per un intero genere cinematografico, stravolgendo i canoni tradizionali del poliziesco e rivestendoli di un'estetica torbida e di una sensibilità esistenzialista. L'atmosfera noir forgiata dai modelli hollywoodiani (a partire dal fondamentale "Il mistero del falco" di John Huston) è tradotta con un linguaggio inedito e affascinante. Se in quei classici d'epoca la caccia a un criminale realistico era fondata su un girato dalle tinte astratte, dove il gioco dei chiaroscuri risentiva fortemente del modello espressionista, in "True Detective" la situazione è ribaltata: l'inseguimento di un serial killer si tramuta nella battaglia impari contro un'entità occulta, mentre la trattazione dell'immagine tende ai toni di uno scabro realismo. Sebbene inoltre la fusione tra poliziesco e paranormale abbia più di un illustre predecessore in "Twin Peaks", "True Detective" segna un ulteriore passo avanti nella raffigurazione di una forza diabolica, di un'aura misterica, convertendo l'immaginario surreale di David Lynch in un contesto ancor più cupo e degradato.

La peculiarità dell'opera non sta però soltanto nel superamento dei canoni di un genere da sempre fortemente tipizzato. Anche la struttura antologica prevista dal suo creatore, Nic Pizzolatto, risulta inusuale per una serie-tv. Non vi è più, infatti, alcuna continuità tra una stagione e l'altra, anzi ognuna di esse assume totale autonomia a livello di trama, di cast, direzione e fotografia, con il rischio di allentare il meccanismo della suspense. Una scelta non del tutto nuova: Hbo - a cui si devono capolavori seriali come "Il trono di spade", "True Blood", "The Wire" e "I Soprano", solo per citarne alcuni - riprende la netta suddivisione a livello narrativo già sperimentata dall'emittente americana FX in "American Horror Story", ma in questo caso la spinge all'estremo, variando anche tutti gli attori e i membri della troupe e dando così vita ogni volta a un'opera autonoma e completa. Per quanto limitati, tuttavia, i caratteri condivisi tra le diverse stagioni non sono del tutto assenti. Se infatti varia la trama, il concept di fondo e l'impianto rimangono costanti: il taglio paranormale conferito al genere poliziesco, la scelta di scenari liminali (dalla Louisiana a una California poco conosciuta) e la cupa ambientazione sociale rimarranno costanti, assecondando un preciso disegno di Pizzolatto.

La prima stagione: una lenta discesa negli inferi

Fin dalle prime sequenze un'oscurità incombente pervade lo schermo, mentre la ricerca di un efferato assassino è solo lo spunto narrativo per intraprendere un percorso psicologico ed esistenziale, che assume persino sfumature filosofiche e metafisiche. Lontana infatti dall'essere una registrazione obiettiva dei fatti, la trama è strutturata in un lunghissimo flashback (17 anni) e si snoda attraverso il racconto dei due detective, dando così solo una versione soggettiva dell'accaduto, peraltro distorta da un vissuto confuso, quasi onirico. La storia s'incentra sulla lotta tra tenebre e luce, in cui si affannano i protagonisti Rustin Spencer Cohle (Matthew McConaughey), detto Rust, misantropo, analitico e ossessivo, e Martin Eric Hart (Woody Harrelson), soprannominato Marty, la controparte solare e socievole. In una lenta discesa verso le tenebre, la ricerca del killer di Dora Lange, ritrovata nuda legata e inginocchiata con un macabro rituale, costringe i due poliziotti a giungere alle radici di un male atavico. Quasi in una visione di tainiano determinismo (le variabili che definiscono l'individuo sono quelle genetiche, sociali e storiche), il percorso a ritroso nelle esperienze della giovane vittima attraverso gli indizi si sviluppa in un susseguirsi di scenari d'indicibile squallore: passando da una famiglia derelitta, con una madre dedita alle droghe, una sorta di bordello hippie in mezzo alle paludi, una chiesa itinerante diretta da un predicatore che vende illusioni, la ragazza sembra quasi destinata a imbattersi negli spettri colpevoli della sua morte.

Perfettamente in armonia con la vicenda è l'ambiente in cui il crimine si consuma: una cupezza diffusa domina ogni aspetto del paesaggio, rendendo in modo magistrale l'atmosfera fosca che domina la narrazione di Pizzolatto. Campi lunghissimi e panoramiche a volo d'uccello trasfigurano la Louisiana in uno scenario infernale, tra distese paludose e sobborghi disagiati, fatiscenti relitti industriali e desolanti quartieri popolati da un'umanità sordida e dolente. Una sorta di discesa negli inferi di un Profondo Sud rurale e decadente, in cui la natura assume le sembianze di una minacciosa forza ancestrale e personificazione onnipresente del male. Emblematica in tal senso è la chiesa abbandonata, creata ad hoc per il set del secondo episodio: perfino un luogo di culto, ormai privo di tetto, è invaso da una atavica energia primordiale incarnata da presenze ferine (un gufo) e piante infestanti; l'assassino, lasciando in tale contesto la propria firma (un disegno sulla parete, che rappresenta una donna-cervo), entra a far parte delle immateriali forze che incombono sull'umanità.
A tale realtà si contrappone l'ordinato microcosmo di Marty, personificazione dell'ordine sociale e domestico, ormai destinato anch'esso a soccombere. L'oscurità dilagante travolge allora anche gli ambiti in apparenza più sicuri, tutto si deteriora velocemente, come pervaso da un cancro inarrestabile. È proprio in tali termini che può essere interpretato il secondo filone narrativo, apparentemente solo abbozzato, incentrato sulla dissoluzione del nucleo familiare (il divorzio di Marty con la moglie e i comportamenti problematici della figlia adolescente). Infine il percorso dei protagonisti, allegoria dell'avventura umana in generale, termina in una sorta di labirinto (episodio otto), luogo archetipico e dantesco sospeso tra realtà fisica e mentale, dove è possibile giungere finalmente alla catarsi. L'illuminazione crepuscolare, l'uso di toni tendenti al fuligginoso nella fotografia, uniti agli sterpi secchi che invadono i cunicoli, conferiscono un ulteriore senso di ultraterreno, richiamando un'estetica da selva dantesca.

La regia potente e immaginifica, il montaggio incisivo e una fotografia plumbea apportano un contributo cruciale: uno scenario distorto, eppure reale, è trasposto con un'attenta scelta del punto di vista e del taglio delle inquadrature, mentre il montaggio, a volte lento, a volte estremamente rapido, traduce perfettamente il vissuto soggettivo dei protagonisti (che sono anche voce narrante). Impossibile trascurare la prova di bravura tecnica di Cary Joji Fukunaga (vincitore di un Emmy per la Miglior regia per una serie televisiva drammatica) nel quarto episodio; l'assalto di Rust in un covo di spacciatori viere realizzato in un'incredibile piano sequenza, in cui i movimenti sincopati del protagonista seguito dalla telecamera sono contornati dalle azioni violente e fulminee in profondità di campo dei personaggi circostanti; a questo si unisce un geniale uso delle luci e della fotografia da parte di Adam Arkapaw (vincitore di un Emmy per la Miglior fotografia per una serie single-camera proprio per questo episodio) che incrementa ulteriormente il senso di brutalità nella scena.
La sceneggiatura di Pizzolatto (Nomination agli Emmy) è un altro indiscutibile punto di forza: una discesa nei dirupi dell'animo umano attraverso le riflessioni e i dialoghi dei protagonisti. Motore di questo processo è soprattutto Rust, peculiare incrocio tra un filosofo e un sociopatico, connotato da una decisa propensione all'analisi, spesso declinante al patologico (come avviene per l'annotazione ossessiva delle sue elucubrazioni che gli causa il soprannome di "Taxman", ossia "Esattore"). Dal nichilismo nietzschiano, richiamato immediatamente alla memoria dalla menzione dell'"eterno ritorno", a epicuree considerazioni sulla vita, sulla morte e sul senso sacro e della religione, si compie un percorso esistenziale inedito, scandito dall'idioma quotidiano-gergale e dall'uso di irresistibili "massime". Esemplare è la dissertazione sull'utilità del culto e dei suoi ministri presente nel terzo episodio: dopo aver definito i dogmi "favole", Rust asserisce che la fede sia soltanto un'illusione e i credenti siano "così deboli che preferirebbero mettere una moneta in un portafortuna, piuttosto che comprarsi la cena", mentre la religione è solo "una malattia del linguaggio". A controbilanciare il suo cinismo c'è Marty, più possibilista sull'utilità, perlomeno comunitaria, delle pratiche cultuali.
Pur intrisa da un cupo pessimismo, quindi, la narrazione apre, proprio sul finale, uno spiraglio di speranza. Attraverso le parole di Rust - "Una volta c'era solo l'oscurità, per come la vedo io è la luce che sta vincendo" - è forse individuata una possibilità di riscatto per l'umanità.

Ma tutti gli straordinari ingredienti della serie non sarebbero forse bastati a regalarle il successo senza l'incredibile interpretazione dei due protagonisti, Matthew McConaughey e Woody Harrelson, capaci di conferire credibilità alla storia con una recitazione naturale e incisiva, basata su un perfetto equilibrio delle parti. McConaughey, dopo aver intrapreso da qualche anno un indirizzo più "impegnato", a partire da "Killer Joe" (2011), conferma la propensione per ruoli complessi e drammatici: reduce dal notevole dimagrimento per "Dallas Buyers Club" (2013), una eccezionale performance che gli è valsa l'Oscar come Miglior attore protagonista, in "True Detective", dona all'iroso e geniale Rust una stupefacente naturalezza, schivando ogni possibile deformazione grottesca o caricaturale. Harrelson ("Natural Born Killers", "La sottile linea rossa") nei panni del gioviale Marty, incarna la perfetta controparte, bilanciando perfettamente la spigolosità del compare. Inoltre, l'intera schiera di personaggi maggiori e minori che circondano i due poliziotti dà vita a un cast perfetto, a partire dalle figure centrali come Maggie Hart (Michelle Monaghan), il detective Gilbough (Michael Potts) e il detective Papania (Tory Kittles) fino alle inquietanti comparse marginali, come Reggie Ledoux (Charles Halford) la cui sola apparizione a distanza infonde un senso di angoscia profonda.

A distanza di poco più di nove mesi dalla messa in onda americana (il lancio della prima puntata risale al 12 gennaio dell'anno in corso) si delineano in maniera sempre più compiuta i protagonisti e i futuri caratteri della seconda stagione di "True Detective", la cui premiere è prevista per il prossimo gennaio. Dato il successo (sia di pubblico che di critica) della prima stagione, nessuna meraviglia che ci sia grande attesa per la prossima, a cui si accompagna tuttavia qualche perplessità di fondo: sebbene permanga un certo mistero sulle possibili evoluzioni, è ormai certo che i fautori del successo del primo capitolo saranno integralmente sostituiti, per dar vita a un prodotto del tutto nuovo. Messa infatti in panchina la magistrale coppia McConaughey-Harrelson, avranno l'arduo compito di prendere il loro posto Colin Farrell, Vince Vaughn e Taylor Kitsch nelle vesti di futuri protagonisti; anche la direzione cambierà firma: al posto del geniale Cary Joji Fukunaga si avvicenderanno alla regia diversi nomi, tra cui Justin Lin per i primi due episodi. Presupposti del tutto nuovi, dunque, che suscitano più di un interrogativo, ma ai quali si accompagna comunque una grande attesa e curiosità.


La seconda stagione: il mondo è dei colpevoli

Dopo una visione a distanza di sicurezza è innegabile che la seconda stagione di "True Detective" abbia numerosi cedimenti, ma non è quel disastro che si guadagnò unanime riprovazione durante la messa in onda, quando scontò il reato di succedere all'eccezionalità della prima stagione senza essere eccezionale a sua volta.

"True Detective 1" non sovvertiva cliché, non piegava al suo volere topoi del thriller: con intenzione o meno, stava perlopiù fuori dal genere, eludendo possibili codifiche in termini di ritmo, struttura, istanze narrative, caratterizzazioni. Il genere irrompeva negli ultimi due episodi, provocando in apparenza un calo del livello complessivo. Con uno scarto brusco si passava da opera indecifrabile a buddy movie poliziesco. Amarezza; ma a posteriori anche l'improvviso scivolamento verso formule più rassicuranti era parte dell'inafferrabilità di un dispositivo seriale che trovava il suo climax nella quarta puntata (cioè a metà racconto) e quasi all'esterno della vicenda principale, un climax quasi esclusivamente estetico, sotto forma di pianosequenza. Così come era inafferrabile il protrarsi dell'epilogo, sgravato da aspettative e colpi di scena; o lo scontro finale, altalena di lampi metafisici e puro patetismo; o la chiusura ottimistica, forse in realtà una resa all'insignificanza della vita terrena, ai piedi di un'infinità della quale si può solo prendere atto, senza negoziare. Eccetera.
Di inafferrabile c'è poco nello svolgimento di "True Detective 2", che tuttavia condivide l'innesco con il predecessore: un omicidio tanto inspiegabile quanto brutale e inquietante. Stavolta il cadavere (occhi disciolti con l'acido, genitali sparati via da una fucilata a bruciapelo) appartiene a Ben Caspere, affarista della cittadina californiana di Vinci. In un clima di inganno perenne, viene assegnato alle indagini il trio formato da Ray Velcoro, detective legato al boss declinante Frank Semyon, da Antigone Bezzerides, cinica poliziotta mascolina figlia di padre hippy, e da Paul Woodrugh, ex soldato ora agente della stradale; ciascuno marchiato dal proverbiale passato oscuro, ciascuno rassegnato a un presente miserabile tenuto insieme da omissioni coscienti e rimozioni inconsce, autocondanne punitive, pulsioni represse.

Quanto più i veri detective dissotterrano la depravazione di Vinci rivelando collusioni, turbini di soldi sporchi, vecchie inchieste insabbiate, orge e perversioni sessuali, tanto più la sceneggiatura dissotterra la vita dei veri detective; li denuda di una nudità che non spartisce nulla con il sovraccarico esistenzialismo di Rust Cohle ma che altrettanto spietatamente non concede alibi, né a loro né all'habitat sociale che li circonda. E se nella prima stagione l'andamento sincopato, il ridiscutere la veridicità della rappresentazione per immagini, la scompostezza (più che scomposizione) di trama e psiche dei protagonisti, tutto confluiva in un disarmonico e perturbante unicum, nella seconda stagione è la tradizione a prevalere. Uscita quando il fiume di elogi all'accoppiata McConaughey-Harrelson era ancora in piena, non poteva che deludere chi attendeva un'altra discesa nel cuore di tenebra della torbida Louisiana venata di esoterismo e filosofia, e invece si trovò difronte le convenzioni di un moderno noir metropolitano.

La conseguente bocciatura potrebbe essere stata figlia di una prevenzione ingiusta ma inevitabile e di una serie di problemi, il più evidente dei quali è la presenza di troppi registi dietro la mdp. Mentre la stagione uno beneficiava del lavoro del miracoloso pseudosconosciuto Fukunaga, la stagione due è affidata a sei registi diversi. Un peccato, considerato che i primi due episodi diretti da tale Justin Lin (tipo che ha bazzicato a lungo il franchising "Fast & Furious" e che qui invece sfodera un talento tutt'altro che fracassone) possiedono atmosfere che non invidiano le premesse della stagione uno. Gli episodi successivi tentano di mettersi in scia, però divergono l'uno dall'altro nel taglio adottato e a tratti sono gestiti con approssimazione. Il che non li rende certo inguardabili o privi di qualità ma semplicemente, classicamente televisivi.
"True Detective 2" è ascrivibile quindi a un canone, rientra nei ranghi di una narrazione lineare e, in maniera del tutto accettabile, derivativa, restando comunque sopra la media del filone crime contemporaneo. Trova ideale collocazione fra Michael Mann e "Chinatown", con sentori di Friedkin, Ferrara e "Twin Peaks"; ovvero, suo malgrado emergono prima le parentele anziché una personalità individuale nitida, complice anche la sceneggiatura (sempre di Nic Pizzolatto, ideatore dell'intera serie) solida ma poco coraggiosa.

L'ambiente piagato dalla corruzione totale è squallido e tetro come dovrebbe essere, fitto di legami occulti fra polizia, malavita, imprenditori, istituzioni politiche; i personaggi sono sofferenti e malandati come dovrebbero essere, arroccati in se stessi per proteggersi da un incontrollabile male esogeno, oppure, al contrario, per cullare il proprio solipsismo, salvo esporsi in cerca di imprendibili redenzioni, adescati da bagliori di speranza; l'intreccio è preciso come dovrebbe essere, fa combaciare i tasselli utilizzando un rodato sistema di contrappesi, azione e suspense, quesiti e risposte, misteri e sparatorie, whisky, disonestà, vendette, giochi di potere, inferni privati. Tutto in effetti è come dovrebbe essere, e se da un lato l'adesione alle norme di genere alimenta una certa intensità emotiva, dall'altro rappresenta un grosso limite nella prevedibilità di molte svolte. A ogni modo è abbastanza chiaro che, giusta o sbagliata, la scelta di tralasciare elementi di rottura e fare leva su una selezione di stereotipi per amplificare il fattore drammatico è deliberata.
Una scelta che influisce anche sui personaggi. I quali, rispetto a Cohle e Hart, sono contestualmente banali. McConaughey e Harrelson realizzarono un capolavoro nel cogliere un aspetto cruciale dei propri ruoli: il fatto che non richiedessero benevolenza.  Al di là delle teorie ligottiane di Cohle e delle contraddizioni di Hart, della loro relazione con la violenza, con il dolore, con la giustizia, l'epicentro del loro fascino era frutto della tensione generata da un qualche indefinito arbitrio empatico. Cohle e Hart costringevano a una visione ambigua, in una posizione scomoda. All'opposto, i protagonisti della seconda stagione sono consapevoli di avere bisogno del trasporto dello spettatore, lo esigono e se ne appropriano, sebbene conformi al Manuale Dei Personaggi Noir. Non è artefatta la  partecipazione all'amore paterno di Velcoro, al tormento identitario di Woodrugh e al desiderio di cambiamento del malavitoso Frank, i tre maschi del gruppo, le cui crisi interiori sono esplicite fin dall'inizio; al contempo non è un caso che su di loro si elevi la Antigone Bezzerides della brava e bella Rachel McAdams, più insondabile, reticente, e perciò più interessante.

In continuità con la prima stagione, dove scorreva sotterraneo il tema della virilità, anche "True Detective 2" affronta un argomento comportamentale, ma da sotterraneo lo rende palese e gli fa attraversare non solo i personaggi bensì tutta la vicenda: la genitorialità, o meglio il rapporto fra genitore e genito. Fattualmente, l'iniquo assassinio di due genitori è il primo anello della catena causa-effetto della fabula; inoltre, dalla loro angolazione Bezzerides e Frank concepiscono la propria esistenza come una biblica eredità di errori paterni, e Velcoro e Woodrugh scorgono nella propria paternità (presente per Velcoro, futura per Woodrugh) l'orizzonte di una egoistica catarsi. La genitorialità come delitto e la genitura come espiazione. La sceneggiatura non mostra se con l'evolvere della storia questa specie di dogma venga contestato o elaborato, malgrado nel finale le qualifiche sembrino addirittura invertite; senza dubbio lo sfrutta per impostare il carattere dei personaggi su una solitudine vissuta a prescindere, in bilico fra senso di impotenza e senso di colpa. Nella scissione tra agire e subire, nel conflitto tra responsabilità personale e fondamenti ontologici, risalta e soprattutto assume un'ambivalenza necessaria la battuta di Velcoro, riciclata come tagline della stagione: "Abbiamo il mondo che meritiamo".

Il cast esprime il diffuso stato di precarietà morale tramite una recitazione spoglia, un po' monocorde, sulla cui superficie affiorano le scosse dei nervi, che a volte esplodono di frustrazione e furia quando la situazione conduce soltanto a vicoli ciechi. Dapprincipio Vince Vaughn è spaesato, poi il suo Frank Semyon acquista una particolare consistenza, magari proprio grazie all'anomala presenza dell'attore; Taylor Kitsch e Colin Farrell hanno sempre la faccia di qualcuno che ha una lama di coltello piantata fra le costole, e va bene così; e quando Rachel McAdams dà corpo alle fragilità di Bezzerides la commozione è dietro l'angolo. Però dove la sinergia fra Cohle e Hart si basava sull'antitesi, la somiglianza tra Velcoro, Woodrugh, Bezzerides e Semyon è enorme, e suscita una sensazione di mancanza più che di unità, oltre a complicare la stima del peso da attribuire ad alcune forzature sentimentali e all'impiego, per fortuna moderato, di inutili espedienti retorici.

Insomma, il discrimine fra prima e seconda stagione è ampio. A tenerle in contatto sono segni determinanti nella fisionomia di entrambe: la colonna sonora di T Bone Burnett, la fotografia livida, le ricorrenti panoramiche aeree (campi e paludi desolate in Louisiana, ballardiani reticoli autostradali in California). E ovviamente la scrittura di Pizzolatto, curva sugli abissi dell'umano, gravida di ossimori e di figure impegnate in una battaglia senza fine e senza vincitori con John Donne e il suo "Nessun uomo è un'isola". Ciò detto, pur condividendo l'imprinting, "True Detective" 1 e 2 avevano propositi diversi e hanno raggiunto traguardi diversi, e spacciare la seconda stagione come opera ineccepibile e sconvolgente sarebbe farle torto. Ma lo sarebbe altrettanto non renderle il titolo di prodotto compiuto e lasciarla lì, nel cestino dei mezzi fallimenti, negandole singole valutazioni o rivalutazioni indulgenti, ignorando che in questo caso il sacrificio dell'originalità è valso la concentrazione di un'incredibile potenza.


La terza stagione: l'insoddisfazione del Detective

Le precedenti stagioni della serie di Nic Pizzolato avevano già abituato lo spettatore alla figura del detective spericolato, sempre più avido di conoscenza quanto più la quête mette a rischio il suo precario equilibrio esistenziale, come tropo dell’incerta condizione umana. Se infatti il celebrato personaggio di Rust Cohle non esitava a contrappuntare l’indagine sui misteriosi assassinî della Louisiana con esagerate riflessioni marcatamente pessimiste riguardanti la disgraziata comparsa della coscienza nell’universo, la vicenda di Ray Velcoro, più vicina ai topoi della letteratura noir, ha ricordato come, accanto a quelli naturali, vi siano altri demonî infernali intenti a cospirare contro la felicità di noi inquilini in affitto sulla terra: "gli altri", o quella insaziabile sete di potere che assume la forma, tradizionale per il genere, di cervellotici complotti politici e di indistricabili insabbiamenti giudiziari. Già dalle prime puntate, si intuisce come a "True Detective 3" sia affidato il difficile cómpito di sintetizzare tra le istanze dell’animo turbolento e dell’oppressione burocratica: da un lato vi è il ritorno alla narrazione diegetica, abilmente sfasata su più piani temporali, in modo che, lasciando che siano le parole dello stesso protagonista a ricostruire la storia, sia concesso lo spazio necessario agli approfondimenti introspettivi (il non detto diventa importante quanto il detto, i lapsus, le dimenticanze e i silenzi risaltano come i fari accecanti dell’automobile scura appostata sullo sfondo nero della notte); dall’altro, per la coppia Hays-West, il corpo a corpo con superiori di grado, governatori e ricchi proprietari è di volta in volta tesissimo e a tratti addirittura insostenibile.

Se questo racconto di rapimenti, corruzione e omicidi di certo non potrà raggiungere (dal momento che sin dai primi minuti Mahershala Ali ci viene mostrato, vistosamente invecchiato dal trucco, nel ruolo di un Hays del 2015 alle prese con patologici vuoti di memoria) l’obiettivo che, a parere di un illustre esponente della categoria, è l’ambizione nascosta di ogni scrittore, ossia quella di ideare un personaggio che, se "all’ultima pagina dovesse morire o quantomeno ammalarsi di Parkinson", facesse sì che l’autore venisse ricoperto di "lettere anonime e ingiuriose", tuttavia "True Detective 3" rivela, in taluni momenti, di custodire altri e differenti pregi: se si ha la pazienza di seguire questo moderno e atipico feuilleton per tutte le ampie vallate di inconcludenti interrogatori e ripetitive liti coniugali, che si alternano a brevi e rare salite e discese di suspance e d’azione, si può notare come molti episodi nascondano dettagli illuminanti da non sottovalutare, perle scaramazze che lo sguardo distratto o disincantato rischierebbe di disprezzare per l’irregolarità esibita o di accantonare perché, in fondo, nient’altro che mere concrezioni di impurità. Al fruitore è richiesto, insomma, di munirsi di impermeabile e berretto da caccia, novello investigatore, e di passare sotto la lente di ingrandimento le minuzie e i particolari delle scene, i volti e gli sguardi degli attori, prima di poter svelare parte degli ingranaggi di questa sorprendente macchina affabulatoria che è la terza stagione di "True Detective".

Il meccanismo complessivo, alla prova definitiva del vero e proprio lungometraggio intitolato Now Am Found, funziona ottimamente. I fili si sbrogliano con facilità. Giunti alla tappa finale di questo viaggio in otto parti, si è ormai familiarizzato con il procedimento scelto da Pizzolato per dipanare l’intreccio: man mano che i ricordi affiorano alla mente del nostro detective, ricostruiamo, tassello dopo tassello, le indagini su due bambini scomparsi nel 1970. Indagini protrattesi fino al 1980, fra depistaggi, interruzioni e false soluzioni, e mai conclusesi del tutto, tant’è che ancora nel 2015 una giovane giornalista cerca di far luce sui misteri accaduti quarantacinque anni prima, intervistando il buon Purple Hays, ormai vedovo e, come si è detto, alle prese con una senilità non particolarmente clemente con la sua memoria. I frequentissimi stacchi tra un piano temporale e l’altro sono spesso l’occasione per ricercatezze registiche (apparizione di spettrali Vietcong in un pacifico studiolo domestico, analessi trentennali nel mentre che un movimento di camera di 180° o uno zoom ci preclude la visuale con ostacoli architettonici…): espedienti poco originali, forse, ma che contribuiscono a scandire un ritmo che non è scattante, nervoso, bensì calmo, fluente.

Ma a muovere il lento incedere dell’orologio di "True Detective 3" vi è, nascosto dalla cassa, il forsennato e impercettibile ticchettio della molla di carica: e allora si deve riconoscere come il motore della serie sia multifocale, più ricco di quanto non sembri. A Hays devono aggiungersi altri due detective: il compagno tenente West e la moglie scrittrice Amelia. Ognuno procede nell’indagine senza armonia con gli altri, ciascuno con le sue inclinazioni e le sue priorità. Che tutti e tre si occupino dello stesso caso, ciò non li avvicina di un passo; semmai, li allontana. Tra le linee tematiche che guidano questa terza stagione vi è lo smascheramento dell’illusione che basti che l’oggetto della ricerca sia comune, per conferire di riflesso una qualche unità teleologica anche ai ricercatori. Ricercatori che invece rimangono atomi irrelati, proprio come i cittadini di un paese di provincia (provincia rappresentata preferibilmente a tinte cupe e fuligginose, tra gli edifici abrupti e il sentimento aleggiante di una tragedia annunciata) dell’Arkansas.

Il prospettivismo è al tal punto irrinunciabile, che di questa irriducibilità dei punti di vista ci rendiamo conto soprattutto nei momenti di scontro tra Hays e West, quando cioè il tranquillo scorrere delle cose fa difetto. Più nel dettaglio, qualche esempio. Anni ’80, pieno giorno, schiena appoggiata alla lamiera dell’auto, sigaretta tra le dita: West, che pure messo alle strette prediligerebbe il sarcasmo, si lascia andare a un raro moto di aggressività verbale: non hai capito niente, spiega al collega, del motivo per il quale ti ho richiamato a lavorare al caso. Di quale motivo parla? Della volontà di dare a Hays di nuovo la chance di una promozione in seno al corpo di polizia, di offrirgli l’alternativa di un riscatto dai monotoni uffici amministrativi. Hays si stupisce, è quasi sbalordito; taciturno, aspetta che West si allontani, prima di gettare anche lui il mozzicone, con un gesto pensieroso che ha del trasognante. Altri fantasmi animavano la sua mente: come poteva un esploratore solitario, un ricognitore dal talento cristallino, preoccuparsi tanto di una promozione? Proprio Hays di lì a breve non si sarebbe fatto scrupoli nel far leva sull’affetto, connotato eroticamente, di West per Tom, il padre dei bambini dispersi, per spingerlo controvoglia a compiere un interrogatorio dai metodi poco ortodossi e decisamente rudi, dimostrando più una diversa sensibilità che non una superficialità spregiudicata. Ancora: in una sequenza che si svolge sulla soglia dell’ufficio, come di sfuggita, West non riesce a esimersi dal chiedere, vincendo un certo imbarazzo o forse vinto da una necessità insopprimibile, “che ne sarà di noi?” al collega appena declassato e spedito, per insubordinazione, dietro a una macchina da scrivere; collega che, neanche a dirlo, a malapena comprende il senso della domanda e gli risponde, umiliandone la sincerità, con una banale e colloquiale frase di circostanza.

Hays riproporrà quotidianamente queste stesse dinamiche di fraintendimento nel matrimonio con Amelia, seppur sublimandole in uno scenario di più alta autenticità. A West questa strada resterà preclusa: il suo personaggio è metafora di una solitudine più profonda (condizione sottolineata, invero con una abbondante indulgenza nel sentimentalismo, dal saluto alle scene del tenente stesso, che incontriamo per un’ultima volta solo sul marciapiede, piangente, sanguinante e abbracciato a un cane randagio), profonda al punto che raramente, questa solitudine, grida di dolore o si esprime direttamente: si fa riconoscere piuttosto dagli attriti, gli scarti e le differenze con la ruvidezza del mondo, dai dialoghi ciechi e dalle speranze naufragate. Per chi non ha altro, una rissa da bar con degli sconosciuti è già qualcosa. Lo stesso tema si sviluppa ulteriormente a contatto con il reagente del nucleo familiare.

Le famiglie sono disegnate con un certo tocco manicheo, non del tutto privo di sfumature. Ombre e luci si sovrappongono, ma si lasciano distinguere senza difficoltà, in una rigorosa simmetria: da una parte, dunque, troviamo le famiglie come quella dalle cui ossessioni scaturiscono i crimini intorno ai quali ruota la serie, famiglie perse tra frustrazioni e risentimenti, cadute in abissi luttuosi e incapaci di rialzarsi, intrappolate tra simulacri del passato e morbosi labirinti; dall’altra, vediamo sciogliersi l’intreccio lungo la via di fuga dell’anonimato, il ritrarsi dagli affanni e il rifugio nel nido domestico, nido che è quasi un nascondiglio in cui far crescere quella verità dell’amore che altrove, in un’atmosfera irrespirabile, è destinata al soffocamento. In mezzo, la normalissima coppia con figli, station-wagon e villetta a schiera Amelia-Hays.

Ora, tra Amelia e Hays, accanto alle inevitabili incomprensioni già accennate (si pensi all’insensata gelosia del detective per le indagini portate avanti alla sua maniera dalla moglie, o alla staffilata in forma di confidenza di Amelia al marito: "avresti potuto fare bene qualsiasi altra cosa", dice) vi è qualcos'altro: l’amore segna un surplus valoriale inestimabile rispetto all’amicizia. Nel 2015, venuti apparentemente a conoscenza di come si sono svolti e conclusi realmente gli incresciosi avvenimenti del 1970, il tenente West chiede all’amico: "ma tu, ti senti soddisfatto?". Anche solo lo sguardo, vacuo e stralunato, dei due basterebbe per presagire un netto "no" come risposta. Da dove, però l’insoddisfazione?

Hays è deluso: solo nel suo studio, prende a rovistare, vecchia abitudine, tra le pagine del libro che Amelia ha scritto sul caso. A quest’altezza, non possono che riecheggiare quei versi di Robert Penn Warren, ascoltati a più riprese (anche troppe), che sono un po' il leitmotiv di "True Detective 3": "In this century, and moment, of mania | Tell me a story". Hays ha un momento, per così dire, di epifania: forse è possibile raccontare un’altra storia, una storia che ha scavato sottopassaggi e buche attraverso cui scappare dall’angoscia di una malvagità diffusa. Forse, a grandi distanze, si può ancora ammirare la luce delle stelle: "Make it a story of great distances and starlight". Le scene finali assumono quasi le caratteristiche di un bildungsroman della terza età. Dopotutto, se c’è una lezione che Pizzolato ha assimilato da Thomas Ligotti, questa ha a che fare con un uso dell’analogia attento e metafisico: come uno sguardo autoconsapevole e cosciente sull’abisso della vita non può che portare sofferenza, così Amelia avrebbe taciuto l’esito delle indagini, e allo stesso modo Hays contempla la conferma della soluzione ("Tell me a story of deep delight"), inserendosi volontariamente in una cornice di incomunicabilità. Hays, incurante della gioventù ormai alle spalle, ha imparato qualcosa: se per vivere (o per tener su il matrimonio) è richiesto un blocco della conoscenza (o smettere di occuparsi dei delitti), ciononostante quello di portare avanti la ricerca (singolarmente, clandestinamente, è certo) è un fardello ineludibile. Ma vi è comunque l’occasione di un contatto con l’altro: attraverso tracce e segni, con allusioni e riflessioni implicitamente rivolte al marito in un’opera non-fiction, come per Amelia, o con un indirizzo su un foglietto stropicciato da lasciare in eredità al figlio Henry, come fa Hays, che ai romanzi preferisce i fumetti di Silver Surfer. E Henry, perplesso davanti a questo enigmatico bloc notes (bloc notes che potenzialmente potrebbe dare l’abbrivio di nuovo a tutte le indagini, questa volta, per così dire, in senso di marcia invertito) sembra perdersi per un attimo la vista dell’idillico e raro spettacolo, proprio dietro di lui, oltre la finestra della cucina, di un uomo felice, sgravato finalmente dall’incombenza di una vita, che gioca spensieratamente con i nipoti. "And the name of the story will be time | But you must not pronounce its name": che questo divieto abbia qualcosa a che fare con una certa circolarità?

Nell’inquadrature finali, dopo un primissimo piano sugli occhi del protagonista, quasi a volerci guardare dentro, avviene il massimo flashback di tutta la serie: si va indietro fino al Vietnam, ma qui dobbiamo fermarci. Il segreto questa volta è inscalfibile; la solitudine di fronte alla morte, irrimediabile. E chi può dire se non sia stato proprio il tentativo di capire gli orrori della guerra, la ricerca che ha mosso nascostamente, sotterraneamente il detective Hays per tutto questo tempo? "And the name of the story will be time | But you must not pronounce its name": anche perché il tempo non è che un attimo, un battito di ciglia che permette appena di porsi un ultimo dubbio, prima che il blues levigato dei titoli di coda faccia calare il sipario anche su questa storia.

True Detective
Informazioni

titolo:
True Detective

titolo originale:
True Detective

canale originale:
Hbo

canale italiano:
Sky Atlantic

creatore:
Nic Pizzolatto

produttori esecutivi:
Nic Pizzolatto, Cary Joji Fukunaga, Scott Stephens, Woody Harrelson, Matthew McConaughey, Steve Golin, Richard Brown

anni:
2014-in corso