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La serie prodotta da Amazon Studios si chiude con la quarta e ultima stagione. La vicenda si costruisce intorno al dispositivo narrativo del mondo ucronico immaginato da Philip K. Dick: cosa sarebbe successo se la Germania e il Giappone avessero vinto la Seconda guerra mondiale? Proviamo a confrontare, in un gioco di riflessi incrociati, l’universo televisivo creato in “The Man in the High Castle” con le pagine del visionario autore californiano

 

Prima stagione


Brave New World

"Se lei ha la mente altrove, sempre, allora è come se non vivesse mai per davvero.
Nulla è mai reale."
 
Il cielo sopra Washington, buio come una sala cinematografica, il rullo di una pellicola dalle immagini sgranate, una chitarra appena accennata: si presenta così "L'uomo nell'alto castello", con l'attacco di paracadutisti e bombardieri sul suolo americano. I volti dei presidenti statunitensi scolpiti sul monte Rushmore ascoltano impassibili il soffio di una dolce melodia che arriva al di là delle nuvole per mettere in scacco gli USA: alla canzone "Edelweiss", spacciata per folklore delle Alpi e nostalgia della patria lontana (o perduta), è affidato il compito di introdurre lo spettatore in un gigantesco incastro di universi paralleli.
Dopo l'assalto a Pearl Harbour, il timore di un'invasione era diventata per gli americani una vera e propria fobia. L'avrebbe raccontata, anni dopo, anche un giovane Steven Spielberg con "1941: Allarme a Hollywood", demistificandone l'ossessione per mezzo di una squillante e grottesca commedia. Qui, invece, le tonalità in chiaroscuro avvertono che l'incubo si è già materializzato.
 
1962. La Seconda guerra mondiale è finita da qualche anno e le potenze dell'Asse hanno trionfato. Gli Stati Uniti non esistono più: la West Coast è diventata una colonia di Tokyo, mentre a Est ci sono i tedeschi; in mezzo, una zona neutrale fa da cuscinetto tra le due superpotenze. 
“Blade Runner”, “Un oscuro scrutare”, “Minority Report” e molti altri: non si contano le opere cinematografiche tratte dai romanzi di Philip K. Dick. Per gli autori della serie, tra cui spicca il nome di Ridley Scott come produttore esecutivo, riproporre sullo schermo il nuovo ordine mondiale immaginato dallo scrittore di Berkeley, una delle distopie più famose del Novecento, significava, in primo luogo, ricreare con credibilità un’America sotto occupazione negli anni ‘60.
La prima stagione si suomoaltocastello_new1_01volge negli Stati giapponesi del Pacifico, a San Francisco: il volto oppiaceo e decaduto della metropoli è segnato dall'onnipresenza nipponica, che l'ha trasformata in una città dalla violenza diffusa, di anime impaurite e sottomesse, simile a un formicaio del sud-est asiatico. Anche gli interni sono lividi, brulicanti sotto il livello della strada, come l'interrato dove vive una coppia di giovani americani: Frank (Rupert Evans di "Hellboy"), di origine ebrea, lavora come operaio e coltiva di nascosto il sogno di diventare disegnatore; la fidanzata Juliana (Alexa Davalos, "Defliance"), è una bella ragazza appassionata di aikido. Trudy, sua sorella minore scomparsa da giorni, si rifà viva e le consegna un film clandestino dal titolo biblico "La cavalletta non s'alzerà più", prima di finire assassinata dalla Kempeitai, la polizia giapponese dell'inflessibile ispettore Kido (Joel de la Fuente), che ha in mano il controllo della città.
Oltre ai servizi segreti, nella baia di Frisco si avverte la presenza dominante della Yakuza (inventata di sana pianta dagli sceneggiatori) che sostituisce nel controllo del territorio e nel nostro immaginario cinematografico la mafia italoamericana; non mancano i sordidi bordelli (le cui prostitute sono rigorosamente bianche), né la repressione feroce a cui i cittadini sono sottoposti. C'è chi abbozza, come l'ossequioso antiquario Robert Childan (Brennan Brown, "Detachment"), e c'è chi denigra i giap, come la madre di Juliana, pur appassionandosi alle lotte di sumo trasmesse nei programmi televisivi del pomeriggio.
È interessante notare che questa rappresentazione coincide solo in parte con l'America made in Japan immaginata da Philip K. Dick in "La svastica sul sole" (titolo con il quale è conosciuto in Italia il suo romanzo "The Man in the High Castle"). Nel libro, i nipponici avevano instaurato un'occupazione tollerante, benevolmente rispettosa degli eredi di George Washington e Lincoln, così interessati alla Storia americana da comprarne a suon di migliaia di yen persino la paccottiglia, stimando come veri manufatti artistici gli orologi di Topolino degli anni Trenta e le vecchie pistole Colt della guerra di Secessione. L'imperialismo di Tokyo veniva descritto come una dittatura morbida, ricca e mercantile, mentre le divisioni tra giapponesi, bianchi, cinesi e afroamericani vivevano come un fuoco sotto la cenere postbellica, alimentato dall'odio razziale più che dalla ferocia degli occupanti. Un mondo più simile, dunque, al capitalismo trionfante e ipocrita in cui Dick, che scrive all'inizio dei ‘60, era immerso.
 

Mutamenti

Il muro cade nel fossato.
Adesso non adoperare eserciti.
Annuncia i tuoi comandi
Nella tua città.
La perseveranza porta
Umiliazione.
(I Ching)

Compito altrettanto arduo è la trattazione della materia narrativa del romanzo di Dick che, lungi dall'essere un manuale di fantapolitica, si presenta come una sfaccettata analisi psicologico-culturale di personaggi di diversa estrazione: giapponesi, americani, tedeschi, costretti a vivere in un Paese dilaniato, rappresentazione in larga scala della loro stessa anima. Tutti, nel libro di Dick, si sentono colpevoli, parte di un mondo che non sentono proprio e non riescono ad accettare, e che mette continuamente in crisi la propria identità. La scelta degli sceneggiatori della serie di trasformare il plot in una tipica spy story di guerra (pur presente nel libro, ma molto differente), condita qua e là da elementi di soprannaturale, è parsa inevitabile per rinfocolarne la trama con eventi, ambienti e personaggi inediti rispetto all'originale, che certo non abbondava di scene d'azione. È un modo in cui si è riusciti, seppure in forma convenzionale, a rendere plastica la doppiezza esistenziale dei personaggi nati dalla penna di Dick, giocata sull'impossibilità di fidarsi l'uno dell'altro: tutti aspirano a un altrove che non conoscono, ma di cui hanno sentore. Arriviamo al film clandestino "La cavalletta non s'alzerà più", visionato da Juliana e Frank e da altri durante la serie: sono i cinegiornali del bizzarro produttore Hawthorne Abendsen, apparentemente rifugiatosi in una fortezza per sfuggire ai nazisti (è lui, dunque, l'uomo nell'alto castello). Le immagini mostrano la guerra con un finale diverso: gli Stati Uniti e gli Alleati hanno vinto, la Germania e il Giappone sono ridotti in macerie; la Storia coincide con quello che noi, i "veri" spettatori, conosciamo. Dunque, la potenza di quelle riprese è così grande da trarre Juliana fuori dal "suo" mondo, quando si renderà conto che la pellicola vietata, forse, non è finzione.
 
uomoaltocastello_new3Coerentemente con il medium adottato, nella serie i personaggi si fanno loro stessi spettatori di un film, che assume tutte le caratteristiche di un metatesto. Ciò accadeva anche nel libro di Dick, dove Juliana, Frank e altri si trasformavano in lettori di un romanzo underground messo all'indice dai tedeschi, vietato ma tollerato anche in Giappone (anche se Dick usava un meccanismo più sofisticato, costruendo una "ucronia nell'ucronia" per spiazzare ulteriormente i "suoi" lettori). Abbondonata l'opprimente San Francisco, Juliana scaverà nel passato della sorella giungendo a Canon City, la malfamata capitale della zona neutrale, dove arriva anche la spia nazista Joe Blake (Luke Kleintank).  Qui è azzeccata l'ambientazione da western di frontiera, con i fast food al posto dei saloon; un'America residuale abitata da sceriffi, cacciatori di taglie, reietti e fuorilegge, pericolosamente scivolata indietro di cent'anni, meta di immigrati clandestini senza più patria.
Isolati come indiani in una riserva, a Canon City è attiva una cellula di combattenti della Resistenza americana, che cerca di destabilizzare l'occupazione straniera. Però Juliana deciderà di non farne mai veramente parte: per lei è evidente che il sogno di sovvertire l'ordine costituito non può e non deve passare per una rivoluzione violenta, tra l'altro del tutto impari considerate le forze in campo, e nemmeno per una nuova guerra, proprio in virtù del contenuto dei film. Il conflitto è già stato combattuto e vinto, e a conferma di questo, la visione di un secondo filmato e la paura di un attacco nucleare, mostrerà che la via d'uscita va cercata da un'altra parte.
Siamo in uno specchio deformato, provvisto di un vetro rigorosamente doppio e dagli spigoli indefiniti: così si pone il Libro dei Mutamenti, l'oracolo millenario cinese I Ching. Ulteriore libro nel libro, nel romanzo di Dick è consultato a più riprese dai personaggi per conoscere gli indizi del reale, scorgervi il futuro, intravedere, al di là della cornice, la via da seguire. Ma il Libro è solo uno strumento in mano agli uomini, che dovranno autonomamente decidere quale curvatura vogliono imprimere al loro mondo: una divinazione che non fa altro che confermare il carattere squisitamente antropocentrico dell'opera dickiana. Nella serie, sarà il personaggio di Tagomi, il ministro giapponese del Commercio, a raccogliere queste pulsazioni mistiche e, grazie al particolare rapporto che avrà con Juliana, visiterà per davvero un altro mondo, stavolta pacificato. Ma per quanto ancora? Se l'ossessione anni '40 di un dominio nazi-giapponese è sostituita, dopo la guerra, dalla paura della bomba all'idrogeno usata come deterrente nella cold war tra statunitensi e sovietici (curioso che Kubrick proporrà su questi temi una commedia surreale come "Il dottor Stranamore"), per i mille corsi e ricorsi storici anche lo spettatore contemporaneo andrà con la mente alla recente attualità politica dei test nucleari nordcoreani e alla minaccia di un nuovo conflitto atomico.
 
 
 
Seconda stagione
 

Una tranquilla società nazista 
 
"La verità è terribile come la morte, ma più difficile da trovare"

Per tutta la seconda stagione, il respiro di "L'uomo nell'alto castello" si allarga ulteriormente, mostrandoci la vita degli americani sotto il nazismo. Siamo sulla costa occidentale, a New York: le luci cambiano, si entra in un mondo laccato e fittizio, colorato come un set televisivo e sterilizzato quanto una sala operatoria. Un posto pulito, illuminato bene, avrebbe detto Hemingway; una grande, operosa società purificata, dove il brand messo in mostra in tutte le salse è uno solo: la Svastica. Griffata sulle spille, attaccata alle pareti dei college, trasfigurata nella bandiera americana, nei bouquet di fiori, lungo le vetrate delle chiese, sui telefoni; è un'orgia di croci uncinate quella che vediamo, che volutamente scade nell'effetto parodia, come una melliflua dichiarazione d'amore e morte, un'overdose da confetti. 

uomoaltocastello_new2Si continua così a vivere di riflessi: l'America del Reich sembra meno feroce di quella giapponese; non è sordida ma invisibilmente alterata, perché persino le casalinghe fanno uso di stupefacenti sotto forma di pillole d'uso domestico. Se nel Pacifico gli stridenti contrasti razziali rendono arduo il quieto vivere tra occupanti con occhi a mandorla e americani bianchi, sulla costa orientale la comune matrice anglosassone ha appiattito ogni divergenza tra americani e tedeschi. Un po' come accadde nella nostra realtà storica alla Germania federale e al resto dell'Europa occidentale dopo la guerra, con la ricostruzione e il conseguente boom economico favoriti dal Piano Marshall, che portarono dritti al consumismo di massa e all'americanizzazione dei costumi. Qui lo scenario ruota di nuovo di centottanta gradi: il trionfo nazista ha reso la germanizzazione dell'America sponda Atlantico una conseguenza inevitabile ma accettata. Certo, avrà giocato un ruolo anche la "soluzione finale": il gioco delle distopie hitleriane è un puzzle infinito (ci aveva preso gusto anche Tarantino) e accade quindi che persino Reinhard Heydrich, il tremendo generale della Wehrmacht che collaborò allo sterminio degli ebrei, ucciso in un attentato a Praga nel 1942, sia invece più vivo che mai e sbarchi sul suolo americano per guidare una cospirazione transcontinentale. La sua presenza è in linea con la fama da "macellaio" che il gerarca si porta dietro, tanto da spingere persino gli americani nazisti a tenere i propri bambini lontano dalla sua uniforme. E torniamo ancora dalle parti di Dick: lo scrittore aveva insistito a più riprese sul carattere ferocemente psicopatico della forma mentis nazista. 
Passata apparentemente dall'altra parte, Juliana otterrà rifugio politico nel Grande Reich, a New York, dove opera il capo delle SS in America, l'Obergrupperführer John Smith (Rufus Sewell, "The Illusionist"). Un'altra anima a metà: ex ufficiale americano che ha visto con i propri occhi la prima bomba atomica tedesca radere al suolo Washington, Smith si è trasformato in cieco esecutore dei nuovi ideali; eppure, una tragedia familiare gli porterà dentro casa la bieca perversione di regole disumane, insegnando anche a lui che "un altro mondo è possibile". Giungeremo così nella Welthauptstadt Germania, la nuova Berlino, capitale del Reich millenario; la cupola della Volkshalle, la Sala del Popolo progettata da Albert Speer, grande sedici volte quella di san Pietro, è la rappresentazione monumentale di come la nazione hitleriana immaginava sé stessa a guerra conclusa: opulenta, tecnologica, efficiente fino al parossismo. Invece i ragazzi berlinesi, drogati quasi quanto quelli del famoso Zoo, come Nicole Dörmer (Bella Heathcote, "Pride and Prejudice and Zombies") e i suoi amici, sognano un futuro diverso, dove ai trionfanti e inamovibili gerarchi nazisti si sostituirà un'umanità meno guerrafondaia, più intenta a godersi la propria vita che a pianificare la distruzione di quella altrui. Persino il vecchio Adolf l'ha capito: alle nuove mire espansionistiche dell'alto comando preferisce che si mantenga lo status quo; ma il Führer è malato e la corsa alla successione impazza. Gli scaltri pretendenti alla guida suprema del Terzo Reich vogliono condurre la Germania di nuovo in prima linea. Il piano dell'operazione "Dente di Leone" è spaventosamente semplice: rovesciare una tempesta di bombe atomiche sul Giappone, spazzandolo via; dominare il mondo, finalmente da soli, prima di avventurarsi nella conquista dello spazio e di altri universi. Anche questa, come si dice, è un'altra Storia: Dick l'aveva tratteggiata nei suoi appunti, senza mai scriverla; la terza stagione di "The Man in the High Castle", invece, ce la racconterà.

 

Terza stagione


Simulacri


             “Ti hanno tolto i tuoi idoli uno a uno, e adesso non sai più a chi dare il tuo amore”


Quello di costruire una traccia sci-fiction all’interno della scatola narrativa di “The Man in the High Castle” era l’obiettivo della serie fin dai primi episodi: la terza stagione si propone di perseguire compiutamente questo proposito, accogliendo in mezzo a svastiche, crudeltà nipponiche e resistenza americana un canovaccio con smaccate caratteristiche fantascientifiche, realizzando così un’opera al cento per cento dickiana. Già nel finale del romanzo “La svastica nel sole”, lo scrittore americano ammetteva la possibilità di una torsione del racconto in questo senso (e i suoi stessi appunti prefiguravano un sequel di questo tipo); ma soprattutto, il centro creativo della nuova stagione fa suo uno dei concetti cardini dell’opera omnia del romanziere di Berkeley: il simulacro. Cos’è, infatti, un’ucronia, se non la fallace raffigurazione di un mondo parallelo?

Scongiurata l’ennesima guerra totale in favore di una successione morbida al supremo potere del Reich, a cui giunge il gerarca Heinrich Himmler (in una versione più machiavellica che cruenta di quella che ci hanno tramandato i libri di Storia), il plot centrale di “L’uomo nell’alto castello” diventa il tentativo nazista di costruire una macchina che permetta il passaggio verso i mondi che hanno originato i film clandestini, cioè le versioni alternative della Storia dove la Germania ha perduto la guerra, per permettere così al Führer e soci di trionfare in tutti gli altri universi conosciuti.

Eppure, esiste apparentemente la possibilità di oltrepassare la soglia tra un mondo e l’altro senza servirsi di alcunché, come è capitato a Trudy, la sorella di Juliana; la ragazza, uccisa dalla Kempetai, torna viva e vegeta nell’America dominata dai giapponesi poiché la sua “versione alternativa” è riuscita ad attraversare gli universi paralleli: un vero e proprio simulacro umano, uno dei topoi della poetica letteraria di Dick, tra l’altro titolo di uno dei suoi romanzi (“The Simulacra”, appunto) dove al posto del presidente degli USA era stato posto un androide e il potere era detenuto dalla first lady.
La realizzazione visiva di questa deformazione è proposta attraverso una gestione più oculata del ritmo e dei colpi di scena rispetto alle prime due stagioni, affiancata da una qualità produttiva salita di livello e dal cambio di showreel; si è voluto, pertanto, enfatizzare una diversificazione cromatica e di set tra mondo nazista, diventato algido e futuristico in linea coi nuovi obiettivi dei tedeschi (e della serie), e il Sol Levante, la cui saturazione rossastra è più coerente con la raffigurazione cinematografica degli anni Sessanta. Centrale continua a essere il personaggio di Juliana, che ha ormai sciolto ogni dubbio ponendosi come unico obiettivo di mandare a monte i piani dei nazisti; ma è fuori discussione che le vicende politiche e famigliari di John Smith, elevato direttamente da Himmler a Reichmarschall del Nordamerica, rappresentino gli incastri narrativi più riusciti, grazie a Rufus Sewell, l’attore che interpreta il militare, dotato di un carisma che manca agli altri protagonisti.
Sul versante più propriamente storiografico, oltre al già citato Himmler, dentro l’universo fittizio di “The Man in the High Castle” continua il gioco delle immersioni di personaggi realmente esistiti: vedremo così le macchinazioni di George Lincoln Rockwell, nella realtà fondatore del partito nazista americano e qui principale avversario di Smith per la scalata al potere, accanto a quelle J. Edgar Hoover, il potente padre-padrone dell’FBI (diventato ovviamente una costola delle SS); fino ad arrivare al famigerato Doktor Mengele, che nonostante sia a capo del piano scientificamente più avanzato dei nazisti, per l’appunto il tentativo di varcare gli altri universi, non ha perso il vizio truculento di sperimentare su cavie umane.

Sottotraccia, ma comunque degno di interesse, è il progetto Jahr Null (Anno Zero), una campagna di propaganda mirata ad azzerare le tradizioni, monumenti compresi, della storia americana: una sorta di damnatio memoriae in salsa nazista, cucinata dalla giovane filmmaker Nicole Dörmer (era una delle modelle di "The Neon Demon"), nipotina nientemeno che di quel Goebbels che fu il famigerato megafono della comunicazione politica del Reich. Nonostante le difficoltà del progetto, sorte anche a causa della promiscuità sessuale della bella regista in una New York che punisce ogni stravaganza, fa un certo effetto vedere gli stessi cittadini della Grande Mela accanirsi sui simboli della loro cultura, primo fra tutti la Statua della Libertà; è una rivoluzione al contrario, che incita follemente il popolo a rimettere tutto in discussione. Qui, il messaggio di “The Man in the High Castle” si fa propriamente sociale e mira, chissà quanto consapevolmente, a dialogare con l’attualità americana e mondiale, un po’ come era accaduto con la questione nucleare.
Movimento uguale e contrario al progetto di far tabula rasa è la volontà, invece, di continuare a coltivare le proprie tradizioni, pur in un mondo che sta andando da tutt’altra parte: è la trattazione della questione ebraica, ridotta a un villaggio clandestino sorto nella zona neutrale, l’altra America, quel territorio apparentemente libero da giapponesi e nazisti ma ridotto a terra selvaggia dove vige la legge del taglione; qui, sorge una comunità religiosa che mantiene nell’ombra il legame con l’ebraismo. È il luogo dove si è rifugiato anche Frank, miracolosamente vivo dopo l’attentato kamikaze eseguito nella seconda stagione; per l’ebreo, la quiete della piccola comunità sarà l’occasione di continuare a combattere gli oppressori, seppure sottoforma di opere d’arte che mirano a scuotere gli animi della popolazione americana. 

 

Quarta e ultima stagione

 

Strategie

 

"Per citare un santo dell'Occidente ben noto a tutti: che beneficio ricava un uomo se conquista il mondo intero, ma in questa impresa perde la propria anima?"

 

Difficile dimenticare il cliffhanger in chiusura della terza stagione: John Smith, Reichmarshall del Nordamerica nazista, estrae la pistola e fa fuoco contro Juliana, l'eroina schierata da parte della resistenza, proprio mentre la ragazza varca la soglia del mondo parallelo e scompare, beffando ancora una volta il gerarca a stelle e strisce. Da qui riprende la quarta e ultima stagione della serie, che col suo ritmo ossessivo dà il meglio nelle scene action, senza disdegnare momenti più intimi e malinconici.

Il gioco dei riflessi incrociati continua, anzi stavolta si moltiplica: ai salti "spaziali" tra il mondo ucronico immaginato da Philip K. Dick nel romanzo "La svastica sul sole", segnato dalla vittoria delle forze dell'Asse nel secondo conflitto mondiale, e la realtà opposta, si aggiungeranno i flashback postbellici di Smith, che ne tratteggiano l'anima ferita del soldato, sconfitto dai tedeschi ma deciso ormai a legarsi a quel "pezzo di stoffa", la svastica, sopra la divisa dell'esercito statunitense.

Continua così, insistente, la tematica di anima divisa del futuro comandante, che poi è specchio stesso della sua nazione, in balìa di giapponesi e tedeschi; un conflitto che Smith non può sottrarsi dall'affrontare, presente all'interno della sua stessa famiglia, con la moglie Helen tornata da un anno sabbatico nella zona neutrale - la parte centrale degli Stati Uniti che funge da cuscinetto tra le due superpotenze - il ricordo del figlio morto, un’altra figlia adolescente che non vuole saperne di antisemitismo e croci uncinate e le diffidenze sulla sua carica che crescono all'interno del regime, tanto che il nuovo Führer Himmler pensa di sostituirlo e gli altri generali hanno già affilato i coltelli. Eppure, il maresciallo del Reich ha la possibilità, tramite la porta costruita dai nazisti, di varcare la soglia dei mondi paralleli e sbirciare la sua vita nell'altra America degli anni Sessanta (il nostro mondo, in pratica), ritrovarsi tranquillo salesman di provincia e riabbracciare suo figlio. Lo sguardo sbalordito di Rufus Sewell - davvero encomiabile la sua prova - sembra il contraltare allucinato di Marty-Michael J. Fox di "Ritorno al futuro", tanto che per un momento pare di assistere a uno spin-off tragico, ambientato nella colorata Hill Valley costruita da Zemeckis.

È proprio quello, il migliore dei mondi possibili? Forse no, se è vero che i venti di guerra continuano a soffiare (stavolta in Vietnam) e un'intera generazione di giovani americani è di nuovo pronta ad abbracciare le armi, subendo le conseguenze della propaganda patriottica contro il "pericolo rosso"; siamo ancora di fronte a una società fortemente ipocrita, vedasi anche il trattamento discriminatorio e razzista nei confronti degli stessi cittadini afroamericani. Almeno, è questa la presa di posizione degli showrunner di "L'uomo nell'alto castello", nei momenti in cui gli episodi riescono a dialogare con l'attualità, in modo forse non del tutto consapevole, ma straordinariamente efficace: la stretta col quale i marines trascinano via il figlio di Smith, il diciottenne Thomas, convinto a partire per il fronte in Indocina, è un movimento uguale e conforme a quello dei nazisti che imponevano al giovane malato l'eutanasia di Stato nell'universo parallelo. Dall'altra parte invece, nella distopica America sotto controllo giapponese, la resistenza americana ha ceduto il passo proprio alla frangia armata dei comunisti neri, uniti nel Black Communist Rebellion, un manipolo di uomini e donne che cercheranno attraverso attentati e accordi con la parte deviata delle forze nipponiche di cacciare l'occupante dalla baia di San Francisco. Toccherà a Kido, l’ispettore capo della Kempetai, già coinvolto in una lotta interna tra militari del Sol Levante, a dare filo da torcere ai combattenti, ma prima dovrà, in modo del tutto speculare a Smith, affrontare difficoltà familiari e gli angosciosi incubi di suo figlio, un reduce pluridecorato che non riesce a dimenticare le nefandezze della guerra, e trovare un compromesso tra affari pubblici e demoni privati.

E Juliana? Stavolta la bella insegnante di aikido è destinata a un'atmosfera più onirica, tenendosi quasi ai margini degli avvenimenti. Insieme a Wyatt, al quale si è ormai legata, continua ad avversare i piani dei tedeschi, mirando a quella che lei crede essere il fulcro che tiene in piedi il loro dominio: la base segreta nelle montagne Poconos, i tunnel presidiati da scienziati e militari che difendono l'accesso agli altri mondi. È la traccia sci-fiction, che era riuscita a partire dalla stagione precedente a dare forma al progetto narrativo in nuce nel romanzo di Dick, ma che non riesce però a decollare compiutamente, restando un mero escamotage per giustificare i suddetti salti tra un mondo e l’altro. Perfino al “vero” uomo nell’alto castello, cioè il regista Abendsen, relegato a una sorta di geniale profeta a cui perfino i nazisti si accodano per seguirne le intuizioni, non viene affidata una traccia narrativa autonoma; si percepisce, dunque, la volontà di procedere speditamente verso il finale, che però non si ascrive a risoluzione dei molteplici quesiti aperti, anzi, per stessa ammissione dei creatori della serie, lascia allo spettatore la libera interpretazione. L’altro limite della stagione, e probabilmente della serie tutta, è da cercarsi nell’esatto opposto, e cioè nella precipitosa e a tratti sciupatissima risoluzione di alcuni punti cruciali, vedasi su tutti il viaggio in Germania di Smith, a difesa dell’accusa di infedeltà verso il regime, che si conclude però in modo frettoloso e sanguinario nella war room berlinese, una scelta che rasenta non l’inverosimile (peccato veniale in una serie come questa) ma purtroppo la parodia involontaria. Meglio, molto meglio quando gli sceneggiatori restano coi piedi per terra e ci raccontano di “uomini normali in situazioni straordinarie”: oltre alle vicende personali già citate, è doveroso ricordare le affinità elettive tra l’antiquario Robert Childan e la sua appassionata collaboratrice giapponese, che è forse lo sviluppo più aderente al personaggio originario creato da Dick, soprattutto per la sua particolare situazione di “straniero residente”. È pur vero, comunque, che lo sforzo produttivo permette anche di assistere a movimentate scene d’azione, in particolare legate alle offensive dei ribelli, il cui ritmo notevole e le sequenze ben congegnate non permettono di tirare il fiato.



Stagione 1: 7
Stagione 2: 6,5
Stagione 3: 7,5

Stagione 4: 7

L'uomo nell'alto castello
Informazioni

titolo:
L'uomo nell'alto castello

titolo originale:
The Man in the High Castle

canale originale:
Amazon Prime

canale italiano:
Amazon Prime

creatore:
Frank Spotnitz

produttori esecutivi:
Ridley Scott, Frank Spotnitz, Christian Baute, Isa Dick Hackett, Stewart Mackinnon, Christopher Tricarico

cast:

Alexa Davalos, Rufus Sewell, Rupert Evans, Luke Kleintank

anni:
2015 - 2019