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Partendo dalla folgorazione provocata dalla visione di "Ovunque proteggimi", incontriamo Bonifacio Angius, il regista sardo che continua a raccogliere applausi in giro per l'Italia. Un cinema fuori dal tempo il suo, fatto di personaggi e di storie da raccontare

Raccontare storie: è un mestiere facile soltanto a dirlo. Lo sa bene Bonifacio Angius, che ha trovato nel cinema il mezzo più efficace per raccontare le sue storie, le storie dei mondi che conosce.

Sia in “Perfidia” sia nel tuo ultimo film ancora in sala, “Ovunque proteggimi”, i protagonisti sono delle persone ai limiti, ai margini del mondo.
Da Charlot di Chaplin fino a “Taxi Driver” di Martin Scorsese, passando per il “Ludwig” di Luchino Visconti, i grandi film drammatici hanno sempre messo in scena dei personaggi ai limiti, ai margini. E il fatto che il grande cinema racconti soprattutto le storie di personaggi emarginati, mi fa pensare che questi personaggi non siano davvero ai margini, ma che al contrario siano al centro del mondo; e che, da questa nuova prospettiva, siano invece i borghesucci che osservano il mondo dal proprio salotto ad essere ai margini del mondo stesso e che soltanto chi ne percorre le strade affrontando la gioia, il dolore, le sofferenze che di volta in volta ostacolano il cammino arriva a conoscerlo fino in fondo. Chi si riduce a vivere nella propria campana di vetro e pensa di avere la verità in tasca non sa niente del mondo ed è profondamente ignorante, di un'ignoranza ben più profonda di quella nozionistica. “Io so di non sapere”: è questo l’unico possibile punto di partenza per ogni forma di conoscenza. E lo diceva Socrate qualche anno fa, non ci stiamo inventando niente...

Come del resto non si inventa mai niente, nel cinema come nell’arte in generale…
Il mondo dell’arte è un continuo rubare l’uno dall’altro e io sono assolutamente contrario alla novità fine a se stessa, nell’arte come nella vita. Che le cose nuove siano migliori di quelle vecchie è un paradigma del mondo occidentale che io rifiuto categoricamente. Fino a qualche tempo fa si pensava che il mondo andasse sempre migliorando, ma io sono dell’idea contraria, e cioè che stiamo tornando indietro. Il problema fondamentale è l’eccesso di sintesi, un’operazione ormai ineludibile che soffoca il libero arbitrio entro regole stringenti privando ogni possibile sviluppo della sua carica originaria, e direi sovversiva...non sto dicendo che non debbano esistere delle regole, ma che tutti i grandi eventi della storia dell’umanità sono avvenuti contro le regole e contro la legalità. E quel che è peggio è che guardandomi attorno non c’è traccia di questo spirito rivoluzionario, a meno di intravederlo in chi imperversa nella attuale scena politica fingendo di essere un ribelle e che in realtà è il più allineato di tutti.

Bonifacio, devo dirtelo, guardando i tuoi film non pensavo avessi una visione così amara del presente e così pessimistica del futuro...
Guardati attorno, le persone credono che l’Italia sia vittima di un’invasione perché lo leggono su Facebook, quando basterebbe spegnere il computer e mettere il naso fuori di casa per rendersi conto che non c’è nessuna invasione in atto. Ci tengo comunque a precisare di non avere la sfera di cristallo, né la pretesa di dire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato e infatti nei miei film non si trovano mai messaggi di questo tipo.

L’intenzione alla base dei tuoi film è in effetti molto chiara: mettere in scena dei personaggi e il modo in cui questi, in base al loro carattere, reagiscono alla vita e alle difficoltà che questa mette loro di fronte.
Esatto! E insieme al carattere del personaggio cambia anche il metodo del racconto: “Perfidia” è tutto basato sull'ambiguità del suo protagonista: Angelino è passivo e remissivo e guardandolo negli occhi lo spettatore non sa mai che cosa gli stia passando per la mente. “Ovunque proteggimi” gioca su tutto un altro campo, quello dell’impulsività dei suoi due protagonisti, Alessandro e Francesca: i loro gesti, le loro parole, le loro espressioni rendono subito evidente ciò che gli si muove dentro. Da un racconto cupo (“Perfidia”) a un racconto cristallino (“Ovunque proteggimi”), e forse per questo più vicino alla comprensione da parte di un pubblico più ampio...ma questo, sia chiaro, non per mia volontà: non sei tu a scegliere le storie, ma sono loro a sceglierti.

E una volta chiuso il capitolo “Perfidia”, come ti ha scelto la storia alla base di “Ovunque proteggimi”?
Un po’ per caso, un po’ da lontano, un po’ in fondo da me stesso: io posso essere sia molto timido sia molto impulsivo e portando all’estremo queste mie caratteristiche comincio a costruire i personaggi. Da questa fase iniziale si passa poi al classico punto di non ritorno, quello in cui sei talmente tanto affezionato ai personaggi che non puoi più abbandonarli e ti lanci quindi in una vera e propria missione bellica per cercare di portare a casa il film!

Paolo Sorrentino, in un'intervista, interrogato a proposito del significato di una scena della serie tv “The Young Pope” ha detto: “Non lo so, a volte mi vengono in mente queste immagini, le trovo potenti, intense, e decido di metterle, con disinvoltura, perché nascono da un'intuizione istintiva; poi affiora il collegamento con la storia, una plausibilità”. E’ questo un modo di costruire l’immagine che senti vicino o nel tuo cinema l’immagine è sempre funzionale al racconto?
Il mio è un cinema prettamente narrativo e la costruzione dell’immagine è quindi sempre guidata dall’esigenza di creare tensione narrativa e interesse ed emozione nei personaggi. Poi ognuno ha il proprio modo di fare cinema e quello di Sorrentino è assolutamente rispettabile. Tra l’altro, trovo a dir poco esagerate le aggressioni di certa critica cinematografica nei confronti di Sorrentino, che è un regista molto bravo. Critiche che andrebbero rivolte ai film davvero inadeguati e ai registi davvero mediocri che infestano il cinema italiano, anche perché spinti e protetti da chi può garantire sostegno e protezione. Ma stai certo che certi film sono destinati a scomparire nel giro di pochi anni. Nei miei corsi di cinema per ragazzi la prima cosa che faccio è proiettare “Il monello” di Charlie Chaplin e quasi tutti alla fine del film piangono: è un capolavoro senza tempo. L’unico metro di giudizio per un film e in generale per un’opera d’arte è il tempo.

E il pubblico?
Prima di tutto bisogna dire che il pubblico siamo tutti, sono io, sei tu, è il salumiere sotto casa, ognuno ha la propria sensibilità e tutti hanno il sacrosanto diritto di esprimere la propria opinione su tutti i film che passano in sala. Non mi appartiene l’atteggiamento di chi giustifica lo scarso apprezzamento del proprio film da parte del pubblico accusando il pubblico stesso di non capire niente. Come già detto, credo che “Ovunque proteggimi” abbia avuto un ottimo riscontro di pubblico proprio perché immediato e cristallino; magari un giorno deciderò di fare un film più cupo e il pubblico lo stroncherà, ma questo non dirà niente sul valore del film. Il cinema, anche e soprattutto il cinema popolare, ha sempre diviso il pubblico: Federico Fellini faceva litigare le persone dopo la visione dei suoi film. Ma bisogna litigare sul cinema, perché il cinema è anche questo, è discussione, è dialettica, tutte cose che adesso vengono fatte passare per rissa, per violenza, e così da anni non esiste più in Italia un dibattito sul cinema che porti il pubblico in sala.

Un elemento centrale sia in “Perfidia” sia in “Ovunque proteggimi” è la famiglia, attorno cui ruota la vita dei personaggi e che assume per ciascuno un significato particolare: il padre di Angelino, il protagonista di “Perfidia”, è l’unica persona che prova a smuovere il figlio dall’inerzia cui sembra condannato, fino all’estremo gesto finale di rottura del legame parentale; in “Ovunque proteggimi”, Alessandro vede nella prospettiva di una famiglia con Francesca una possibilità di salvezza e di riscatto, mentre Francesca è completamente rifiutata dalla famiglia di origine.
La famiglia è un elemento assolutamente centrale in questi due film e lo sarà anche nel terzo, un progetto ancora più ambizioso dei primi due e in cui parlerò ancora una volta di famiglia, anche se in maniera diversa da “Perfidia” e “Ovunque proteggimi”.

Un altro elemento fondamentale è quello religioso. Ho ancora in mente gli appelli di Angelino a Gesù e in “Ovunque proteggimi” il titolo è emblematico.
Credo che in ogni uomo alberghi un sentimento religioso. Io personalmente non credo tanto nella Chiesa, quanto piuttosto nella parola di Cristo, che considero il messaggio più prezioso e illuminante che ci sia mai stato donato. E come tutti i grandi poeti, perché io reputo Cristo il più grande poeta della storia dell’umanità, è rimasto inascoltato. Come Pier Paolo Pasolini, o come Fabrizio De Andrè, che ha passato una vita a scrivere canzoni contro i pregiudizi e le ingiustizie, è stato ed è tuttora osannato dal novanta per cento degli italiani, ma nessuno lo ascolta davvero. È, ripeto, il destino di tutti i grandi poeti e allora forse bisogna cominciare a distinguere tra uomo e poeta.

Un regista che hai spesso indicato come punto di riferimento è John Cassavetes.
Credo che Cassavetes sia uno dei più grandi registi della storia del cinema, ma soprattutto un mago degli attori: anche lui partiva da personaggi e caratteri che conosceva benissimo e li faceva rivivere usando come attori le persone che lo circondavano: la moglie, i figli, gli amici. È un modo di fare cinema che sento molto vicino. Cassavetes diceva: “Se hai un personaggio hai un film, se non hai un personaggio non hai un film”, e credo che qui stia tutto il mio cinema. E mi sento molto lontano da un altro modo di fare cinema, molto in voga negli ultimi anni, quello dei film a tema, in cui si cavalca l’onda di un tema caldo costruendoci un film ad hoc per attirare la gente in sala. È un cinema che non so fare e che non voglio fare, anche perché in gran parte di queste operazioni intravedo finzione e cialtroneria e questo non può farmi piacere.

E quando questo tipo di operazione è ben realizzata e appare sincera? Penso ad esempio a “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi.
Finché c’è sincerità per me non c’è alcun problema e io infatti faccio film su mondi che conosco, non ho la presunzione di raccontare storie di altri. Se volessi parlare di immigrazione, non sarei io a parlarne, ma darei le macchine da presa direttamente ai migranti per raccontarsi loro stessi: sarebbe sicuramente un film più bello.





Bonifacio Angius, per un cinema di personaggi e storie