Ondacinema

Le delusioni del 2015 - 10 film

Dopo la classifica dei migliori film dell'anno e i premi per ogni categoria agli artisti più bravi, chiudiamo la nostra analisi sull'anno ormai concluso con una carrellata dei dieci film che più ci hanno deluso: titoli su cui era lecito nutrire aspettative alte, in tutto o in parte tradite

Ormai il 2015 è alle spalle e lo abbiamo sufficientemente metabolizzato. Abbiamo pubblicato il nostro consueto speciale sui migliori film dell'anno, abbiamo deciso anche di premiare i migliori nelle loro specifiche categorie, abbiamo ricevuto e pubblicato anche le preferenze dei nostri lettori.
Ma quest'anno, per congedarci definitivamente dall'anno solare cinematografico appena trascorso, abbiamo anche deciso di scegliere in redazione i dieci film che più abbiamo trovato deludenti, occasioni mancate, pellicole con determinate aspettative, legittimate dall'autore o dalla storia produttiva, poi tradite in tutto o in parte. Sono i dieci titoli che avrebbero potuto concorrere nella classifica vera, ma che invece, a visione ultimata, ci hanno lasciato con l'amaro in bocca. A ogni film viene accompagnata una pillola di alcuni redattori che vi spiegano che cosa è andato storto in queste opere.
Piccola, ma importante precisazione: come in ogni redazione democratica, anche in Ondacinema ci sono differenti punti di vista. Vi basterà scorrere il tabellone dei voti del 2015 per accorgervi che anche queste dieci opere hanno trovato i loro estimatori in redazione. La scelta è chiaramente fatta a maggioranza.


AMERICAN SNIPER di Clint Eastwood

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Quando il patriottismo è fine a se stesso
Lo spirito sciovinista del repubblicano Clint Eastwood raggiunge le sue vette in questo "American Sniper": una esaltazione fine a se stessa degli eroici nipoti dello zio Sam, che sfocia in un facile manicheismo, dove i protagonisti sono buoni e giusti, mentre i nemici sono malvagi e incivili: tertium non datur. Se la storia piacque all'Academy (tanto che la pellicola venne candidata in sei categorie alla scorsa edizione degli Oscar) ciò fu dovuto probabilmente soltanto a questa sua carica patriottica dato che, per il resto, tra gli ultimi lavori del regista statunitense questo è sicuramente uno dei risultati più bassi. Se la trama è semplicistica e banale, l'introspezione poi manca totalmente: non c'è una caratterizzazione dei personaggi (eccetto per il protagonista) e il conflitto morale del soldato: l'alienazione a cui porta la visione della guerra, è appena accennato e facilmente risolto. Insomma "American Sniper" non è null'altro se non l'ennesima dimostrazione della cecità di una tradizione cinematografica incapace di affrontare il problema dell'altro senza snaturarlo e tradurlo in un'ottica occidentalizzata. Peccato, perché Eastwood ha dato prova di saper fare molto meglio.
E.R.

"Ero morto. E adesso sono cieco"
L'avevamo lasciato nella bara di "Gran Torino" e quel gesto definitivo ci rese più indulgenti verso un film almeno discutibile. American Sniper è piaciuto a pochissimi, tanto che è oramai un oggetto rimosso della filmografia clintiana. È stata poco gradita la sua totale ambientazione diurna, al netto delle ombre e degli orrori di una guerra che il grande attore-regista americano vuole solo considerare giusta, senza se e senza ma. Ancor meno gli si perdona il crossover tra la realtà (il pretesto biografico di un infallibile cecchino americano), gli elementi di fiction (la sua gara contro un altrettanto implacabile cecchino, siriano) e il messaggio di fondo che sottende "lo scontro di civiltà", in questo film stucchevolmente rappresentato da una popolazione semita piagnucolosa ma infida, dall'immancabile bambino amico dei marines, da un sole sempre cocente che vuol sembrare la Cultura prima dell'arrivo della Cultura. Brutto colpo, soldato Jonathan.
P.C.

E Clint prese il fucile
La retorica del cane pastore (o dello sceriffo bianco, si potrebbe dire) non è certo nuova al cinema di Clint Eastwood. In "American Sniper", però, l'autore si spinge all'estremo, realizzando un film mai così fastidiosamente ideologico, semplicistico e manicheo. Da una parte ci sono gli iracheni, definiti letteralmente più volte "animali", pronti a sacrificare persino i propri bambini per portare a termine un attentato kamikaze. Dall'altra i soldati statunitensi, eroi senza macchia che si immolano stoicamente per la causa a stelle e strisce (già, ma quale causa?). La guerra in Iraq ha ispirato alcune delle pagine più interessanti, sfaccettate e complesse del cinema hollywoodiano odierno, basti pensare a "The Hurt Locker" o "Nella valle di Elah". Qui invece Eastwood riduce tutto a una manifestazione di fierezza patriottica tanto tronfia quanto cieca, senza ombre né autocritiche. E nel finale costringe pure lo spettatore a partecipare al (vero!) funerale celebrativo del "più grande cecchino della storia militare USA". Intollerabile.
S.G.R.


AVENGERS: AGE OF ULTRON di Joss Whedon

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We Don't Need Another Hero...
Da quando ha deciso di mettersi in proprio, realizzando in prima persona i film ricavati dai suoi comics, la Marvel ha indirizzato la produzione verso due direzioni. La prima è andata incontro all'esigenza di moltiplicare le aspettative del pubblico, enfatizzando le sinergie all'interno del suo universo narrativo; la seconda invece, di tipo più mercantile, si è premurata di smussare qualsiasi elemento, psicologico, discorsivo e persino iconografico che potesse ostacolare la fruibilità del prodotto. Il risultato è un film come "Avengers - Age of Utron" che, nell'intento di mantenere inalterato l'appeal del suo franchising ha alzato una cortina fumogena sulla psicologia dei personaggi, costretti per questo motivo a intensificare l'utilizzo dei loro super poteri. Privato di ogni altra alternativa, "Avengers" si riduce all'ennesima immersione sensoriale, alimentata dalla dilatazione degli inserti dedicati alla battaglia e allo scontro fisico. Josh Whedon che studia per diventare il nuovo Michael Bay dirige in maniera diligente ma senza guizzi, preoccupandosi di assicurare la riconoscibilità del brand. Gli incassi, esorbitanti, risultano inversamente proporzionali alla meraviglia e alle sorpresa.
C.C.

L'importante è vendere giocattoli - capitolo primo
Non voglio neanche parlare di Vedova Nera che comunica via radio dalla prigione. O del bagnetto di Thor. No, non lo farò, il mio punto è un altro. Il primo Avengers finiva con New York distrutta e neanche del sangue dal naso o un ginocchio sbucciato. Pure gli alieni non morivano, si spegnevano. Ora, come insegna Cronenberg in History of Violence, non esiste cinema più violento di quello che mostra la violenza senza conseguenze, come un bel missile sparato da un drone da una base in Arizona. Nel secondo capitolo degli Avengers, idem. Tutti i combattimenti sono contro centomila nemici plebei anonimi non umani (altra cosa profondamente reazionaria). Perché tutto ciò, e perché non ci sono cattivi degni di nota a parte Loki in nessun film Marvel/Disney? Perché non si deve inquietare i bambini. Alla Disney la linea è chiara: hanno la Pixar, che fa film da adulti ma li riempie di pupazzi da mettere nell'Happy Meal, e poi la Marvel che prende storie da adolescenti e le rende da bambini per farne pupazzi da mettere nell'Happy Meal. E' stato troppo anche per Whedon, che non a caso ha mollato. Meno male che esistono ancora i George Miller...
A.M.


BIG EYES di Tim Burton

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Grandi occhi miopi
Dopo alcune prove incolore o, addirittura, da dimenticare (come nel caso di "Alice in Wonderland"), c'era molta aspettativa per "Big Eyes". Sarà stata, chissà, l'assonanza con un altro "Big" come il capolavoro "Big Fish". Purtroppo, anche questa volta, è mancato il grande tocco di Tim Burton e ne è venuto fuori un film medio buono ma non all'altezza dei capolavori visionari d'un tempo. Burton si affida ad un Christoph Waltz fuori parte e perennemente sopra le righe e ad una Amy Adams molto trattenuta. Il film fila in modo prevedibile, senza lasciare mai un segno tangibile. E il personaggio di Margaret Keane è debole e non viene fuori il senso di riscatto femminista. Solo una scena da ricordare: Margaret Keane invita a casa la prima volta il futuro marito e nella immagine d’apertura li vediamo avvicinarsi alla casa, fotografata come un quadro del marito: è l’ingresso nella trappola. Solo un unico guizzo visionario, troppo poco.
A.C.

Crosta d'autore
Quando vinse il Golden Globe come migliore attrice brillante, Amy Adams, interprete di razza, si dichiarò genuinamente sorpresa. Non c’è da darle torto, perché nel burtoniano "Big Eyes" dà vita a una delle performance peggiori della sua carriera: opaca, lagnosa, monocorde. Uno spreco, soprattutto se si pensa al talento cangiante che aveva dimostrato appena dodici mesi prima in "American Hustle". La colpa è quasi esclusivamente del regista Tim Burton che, ispirandosi alla storia vera e incredibile della pittrice Margaret Keane, realizza un film in bilico tra biopic e favola (o incubo?) che vorrebbe ergersi a metafora del processo di liberazione femminile. L'autore però sembra più interessato al décor, alle allucinazioni immaginifiche e alle atmosfere della California di plastica degli anni 50, e finisce così per appiattire l’epopea della sua eroina in una sorta di delirio kitsch fine a se stesso, che gira a vuoto e sfida più volte il senso del ridicolo.
S.G.R.


BLACK MASS - L'ULTIMO GANGSTER di Scott Cooper

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Masquerade
Dal momento in cui è diventato un attore di fama mondiale, Johnny Depp ha cercato in ogni modo di scrollarsi di dosso l'effige del divo hollywoodiano, utilizzando il cinema come laboratorio in cui dare seguito alla spersonalizzazione della propria immagine. "Black Mass" ne è esempio lampante, perché la volontà di nascondersi dietro una maschera che ne stravolge la fisionomia prevale sulla necessità di dare anima alla psicologia del suo personaggio. Che, essendo un killer dalla personalità multiforme, capace per un nonnulla di uccidere un uomo e subito dopo di aiutare una vecchietta con le buste della spesa, avrebbe avuto bisogno di qualche variante all'espressione monocorde e robotica con cui Deep manifesta il dark side di uno dei gangster più spietati della storia americana. In mancanza d'alternative che non siano quelle fornite dal camaleontismo della sua star, "Black Mass" si arrangia come può, accontentandosi di una narrazione scorrevole ma piatta. Presentato in pompa magna all'ultima Mostra di Venezia, cui ha partecipato fuori concorso, il film di Scott Cooper è passato nelle sale senza lasciare alcuna traccia.
C.C.

A Depp Fall
Certi film nascono per un'esigenza autoriale, come il burtoniano doc "Edward mani forbice". Altri per chiare strategie produttive, come le molteplici avventure del pirata Jack Sparrow. Altri ancora nascono per essere interpretati. Che "Black Mass" sia cucito su misura per la stella decadente (in cerca di rinascita) Johnny Depp non è poi una discriminante, né tantomeno uno scandalo. Ci mancherebbe. In fondo non esisterebbe Indiana Jones senza Harrison Ford così come Mission Impossible senza Tom Cruise, per fare due banalissimi esempi. La ricostruzione de "L'ultimo gangster" James 'Whitey' Bulger, criminale statunitense incarnato da un incipriato Depp e presentato fuori concorso allo scorso Festival di Venezia, attraversa i generi cinematografici più disparati, dal biografico al thriller, dal drammatico all'azione, risultando un'ottima potenziale occasione di riscatto per la stella del Kentucky. Neanche una scrittura davvero bruttina e una regia sorprendentemente piatta (il promettente Scott Cooper si era destreggiato discretamente col precedente "Il fuoco della vendetta") riescono a mettere in primo piano il faccione da delinquente del protagonista, che continua così la sua rovinosa e interminabile caduta.
M.D.S.


EXODUS - DEI E RE di Ridley Scott

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Il manuale del film inutile
"Ci stanno le piaghe. E poi pure il mare che si apre in due. E tanti asini carichi di roba da portare in Israele. Brad Pitt no, troppo biondo, Fassbender batte più sul castano quindi un tentativo facciamolo. Alla peggio prendiamo Batman". Alle volte per girare un film basta poco: una storia nota e già strutturata, gli effetti speciali sempre più spettacolari e una star che dovrebbe farsi carico di una serie di eventi di cui sappiamo già tutto fin dai tempi di Cecil B. De Mille. Non necessariamente un film storico è brutto per definizione ma questo lo è e, come aggravante, la produzione non ha avuto il coraggio di farne un film comico, come suggeriscono un paio di scene esilaranti con protagonisti il Faraone e i suoi scienziati che non sono in grado di spiegare cosa stia succedendo. Ah, il regista è niente meno che Ridley Scott. Go Down, Moses.
P.C.

Allucinazioni
Tra gli interessanti "The Counselor" e l'ultimo "The Martian", il prolifico Ridley Scott che oramai viaggia sulle lunghezze d'onda di un film all'anno (dall'esordio del 77 a oggi, tre quarti della sua filmografia è del nuovo millennio), si incunea in questo fastoso e trashissimo kolossal biblico dove alcune maestose sequenze tratte dal Libro dell'Esodo nascondono il vuoto di una sceneggiatura scritta, per giunta, a otto mani. Nello sfarzo della visione mistica hollywoodiana, alcuni attori sembrano essere capitati sul set per caso come Sigourney Weaver e John Turturro. Scott ammaliato dalle allucinazioni mistiche di Mosè, interpretato da Christian Bale, l'unico a salvarsi della carovana, perde il controllo della situazione (e della Storia) e lascia che siano gli spettacolari (e ultramilionari) effetti visivi e speciali a dettare ritmo al film. È davvero troppo anche per un blockbuster. O troppo poco. Dipende dai punti di vista.
M.D.S.


HUMANDROID di Neill Blomkamp

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Esplosioni di kitsch incontrollate
Il regista sudafricano sembra che dopo il notevole e originale "District 9" raggiunga il punto più basso del suo cinema dopo il già poco riuscito e presuntuoso "Elysium". Creazione di intelligenza artificiale, educazione alla violenza della nuova creatura, trasferimento di personalità con commistione tra creatore-creatura, competizione tra scienza progressista e guerriera, sono solo alcuni dei temi che Neil Blomkamp mette in scena. Fin troppa carne al fuoco, male cucinata e assortita in modo disordinato. Ci aggiungiamo poi rapper locali che provano a fare gli attori e un Hugh Jackman nella parte di un villain fuori misura e fin troppo esagerato da rasentare il ridicolo, immersi in un mondo che ripete (male) temi già affrontati nei film precedenti. Il regista vorrebbe giocare con il camp e il kitsch, ma invece crea un guazzabuglio senza capo né coda.
A.P.

Neill e un grande futuro alle spalle
A volte certi abbagli sono davvero difficili da digerire. Come quello che ci provoca Neill Blomkamp, giovane cineasta sudafricano che, con il suo esordio cinematografico "District 9" ci aveva troppo velocemente fatto urlare al miracolo. Quella sua fantascienza da incubo, eppure così profondamente umanista, messa in scena con lo stile western di un novello John Carpenter, apparteneva a un immaginario creativo che credevamo ormai irrimediabilmente estinto. Purtroppo "District 9" resta un caso isolato. Meno disastroso del precedente "Elysium", "Humandroid" (il grottesco titolo è opera dei traduttori italiani) è uno sci-fi senza mordente, senza spina dorsale: una sommatoria di stereotipi, di ossessioni da fan. Ma oltre a una certa fascinazione visiva, resta ben poco: il racconto è pasticciato, i personaggi sono insulsi, il futuro distopico immaginato è di cartapesta. E così Chappie svanisce in confronto al Numero 5 di "Corto circuito".
G.U.


MARAVIGLIOSO BOCCACCIO
di Paolo e Vittorio Taviani

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Un Boccaccio poco meraviglioso
I fratelli Taviani tornano alla loro terra e alle origini della letteratura italiana dopo l'incursione nel metafisico(forico) "Cesare deve morire". E scelgono di mettere in scena alcune novelle del grande novelliere. Peccato però che la pellicola non riesce minimamente a replicare la magia della messa in scena di opere come ad esempio "La notte di San Lorenzo" (dove la stessa campagna era più fiabesca e terribile). La coppia di registi si accontenta di dare un taglio quasi televisivo e più che un film in costume sembra un semplice ballo in maschera, dove la modernità di plastica s'intravede in ogni sequenza. Le novelle poi scelte sembrano slegate una dall'altra con un'ondivaga riuscita drammaturgica. Insomma, lontani mille miglia anche solo da un "Decameron" di Pier Paolo Pasolini.
A.P.

La brutta bella calligrafia
Senza rinunciare a una calligrafia come al solito bellissima e compiaciuta, i fratelli Taviani insistono con il teatro al cinema ma, dopo il bel "Cesare deve morire", nel confrontarsi con Boccaccio e il Decameron, perdono clamorosamente. Le novelle messe in scena dai fratelli toscani sono completamente svuotate di senso: non c'è vitalità, non c'è sensualità, di erotismo neanche l'ombra. Una scelta didascalica incomprensibile, quella di concentrarsi non sulle storie, appunto, ma sulla premessa ad esse: i dieci giovani che scappano dalla peste e passano il tempo a raccontarsele. Una rincorsa del loro vecchio cinema (mai rimpianto): esaltazione dell'intellettualismo fine a se stesso, salvato, in parte, solo da un gusto per la composizione visiva che in Italia ha pochi eguali.
G.U.


STAR WARS: EPISODIO VII - IL RISVEGLIO DELLA FORZA di J.J. Abrams

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Una nuova speranza?
Molto è stato detto sulla somiglianza tra l'ultimo "Star Wars" made in Disney diretto da J.J. Abrams e il primo leggendario capitolo della saga creata da George Lucas. Alcuni aspetti dell'intreccio sono inoppugnabilmente identici, gli echi diventano richiami facili allo spettatore che conosce la saga e un aggancio oliato per chi invece non la conosce. L'usato sicuro però non funziona laddove il film, forte anche della scrittura di uno degli autori della prima trilogia (Lawrence Kasdan), vorrebbe ripetere quella magica alchimia tra epica postmoderna e mitopoiesi, avventura e ironia. Abrams costruisce in maniera certosina un calco di "Guerre stellari" adattato ai tempi, in cui non mancano reminiscenze altre come l'eroina simil-miyazakiana, ma che manca il bersaglio ultimo, cioè sfidare l'originale, dire qualcosa di nuovo (o semplicemente di diverso) sull'universo lucasiano. Sfida persa in partenza? Non lo sapremo mai, resta il fatto che là dove l'opera personalissima di Geroge Lucas era davvero una sfida al sistema produttivo (e ai generi) della fine degli anni Settanta, il film di Abrams è al contrario un prodotto perfettamente allineato: non un brutto film, "Star Wars - Il risveglio della forza" acceca per la sua superfluità (in attesa di vedere i sequel...). Insomma, l'impero dei blockbuster-anestetici colpisce ancora.
G.G.

L'importante è vendere giocattoli - capitolo secondo
Per un'oretta buona ci ho creduto. Certo, vedere Oscar Isaac ridotto a un tale ruolo ridicolo mi aveva fatto soffrire. Ma c'erano la diserzione, il deserto, i relitti, il megaporcello alieno che si abbeverava. Mi sono pure piaciuti i mostri dentuti nell'astronave. Poi giusto a metà c'è stata la spada laser che chiama dal sottoscala di una locanda, e una psicometria presa pari pari dal Signore degli Anelli. E dopo, come in un effetto a valanga, i nonsense sono arrivati così fitti che non facevo in tempo a reagire. Tutta la parte dell'infiltrazione della base è ceneggiata così male che è stata una sofferenza da guardare, come sentire le poesie scritte dal figlio di un parente. Oltretutto alternate in montaggio a una scena di astronavi contro base militare che mi sembra di aver già visto in un altro film, ora non vi saprei dire quale. Infine, che viene infilzato Han Solo, l'ho capito solo da quello che dicevano i personaggi, perché l'atto non si vede. Proprio non si vede. Perché depotenziare con una censura da oratorio la scena chiave del film? Due parole: Happy Meal. Grazie Disney.
A.M.


LA TEORIA DEL TUTTO di James Marsh

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La teoria dell’ovvio
Come le svariate pellicole biografiche, altrettanto mediocri, che l'hanno preceduta, "La teoria del tutto" riesce a depotenziare, fino a renderlo inerte, il racconto di una vita straordinaria, appianando ogni singolarità e frizione in nome del più scialbo e sonnolento oleografismo. Sulla base dell'autobiografia firmata dall'ex-moglie di Hawking, James Marsh costruisce un ritratto (quasi) esclusivamente privato dell'astrofisico inglese e ne banalizza ogni profilo, dalle passioni giovanili al rapporto con Dio, dalle relazioni affettive alle teorie scientifiche. Tutto è già visto, tutto è già sentito: lacrimosi quadri familiari, flashback in filtro seppia, stucchevoli scene madri, melodie minimaliste e interpretazioni metamorfiche acchiappa-Oscar. A svanire è proprio l'imponente caratura del protagonista, ridotto a figurina irrilevante.
V.L.


YOUTH - LA GIOVINEZZA di Paolo Sorrentino

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Viva la gioventù, che fortunatamente passa, senza troppi problemi
Così canta Franco Battiato in "Quand’ero giovane", affermazione che Paolo Sorrentino potrebbe sottoscrivere. I protagonisti di "Youth", così come il Jep Gambardella de "La grande bellezza", sono giovani invecchiati, che ricordano un mondo o un’esistenza che non non c'è più e attendono – più o meno consapevolmente – la fine dei loro giorni. In un percorso di approssimazione felliniana, l’oscarizzato "La grande bellezza" guardava a "La dolce vita", nel tentativo di affrescare la crisi spirituale dei nostri tempi, mentre "Youth" può apparire un "8 e mezzo" di cui riemerge chiara la tematizzazione (la fine dell’ispirazione, il buon ritiro, le epifanie). Lo stile urlato e ridondante di Sorrentino però non cambia e asciugando, ove possibile, i fatidici dolly, inanella una estenuante serie di tableaux vivants che devono trasmettere i messaggi chiave del suo film, come la trasversalità della solitudine e la difficoltà di comunicazione, per non dire di dubbie immagini ad effetto che si affastellano durante il corso della pellicola. "Youth" flirta parecchio anche con l'umorismo di Wes Anderson (la squadra di sceneggiatori di Keitel portati in alta montagna a guardare il mondo o a festeggiare) senza averne la leggerezza e la compenetrazione perfetta con uno stile (surrealtà -> sguardo iper-geometrico). Sorrentino si conferma uno scrittore dalle capacità modeste: qui, dopo un film intero in cui si cimenta con la chiave della leggerezza ironica (pur ammantando il tutto di malinconia), indovinando una battuta su dieci, conclude tutto in un susseguirsi di tragedie, una scorciatoia gratuita per trovare conclusione a un film che dopo la prima mezz’ora iniziava già ad annaspare.
G.G.

Past – Il futuro
Dopo "La grande bellezza" le strade erano due: scendere o scendere. E invece Sorrentino é voluto salire fin sulle Alpi svizzere e oltre, in una specie di ovattato purgatorio a cinque stelle, dove grandi artisti riempiono i loro vuoti di nostalgia. Manca una storia e soprattutto manca il soggetto. Non si capisce quale sia il cuore dell'opera, l'idea che muove il film è sepolta sotto una serie di sfoggi e riprese vorticanti che a un certo punto fanno girare non solo la testa. Il primo della classe finisce per diventare odioso e anche ridicolo. Dov'è Titta e la sua profonda solitudine, dove sono i grandi falliti, le squallide meteore che vivono alla periferia. Caine e Keitel non fanno un Servillo perché sono senz'anima. Si salva solo il sosia di Maradona. Persino la musica diventa intrattenimento da vernissage, applausi ingombri di tartine. Inizialmente anziché "La giovinezza" doveva chiamarsi "Il futuro": riletto alla luce di questo titolo il film acquista maggior senso e lascia sperare in un prossimo ritorno al passato.
L.T.

Giovinezza, dove sei?
Se già da qualche tempo sembrava aver perso la voglia di sperimentare e rigenerare il proprio linguaggio, dopo la conquista dell’Oscar Paolo Sorrentino, (troppo) sicuro del proprio talento, non ne vuol proprio sapere di rimettersi in discussione. Questa volta però, nel ripetere se stesso, l’ingegnoso cineasta napoletano riesce a centrare e mettere in fila, uno dopo l’altro, vezzi e vizi del suo cinema, prestando clamorosamente il fianco alle sempre più nutrite (e tediose) schiere di detrattori. Della mortifera elegia senile del maestro Ballinger nell’ovattato microcosmo di un albergo tra le Alpi svizzere, purtroppo, non si salva nulla: gli enfatici ed evanescenti scambi di battute, inzeppati di massime rivelatrici sulla vita e sulla morte, ammantano di complessità contemplativa la banalità più sconcertante, mentre le trovate visionarie e le fascinose destrezze registiche di una volta sbiadiscono in ampollosi e vacui automatismi. Si spera, per Sorrentino, in un’altra giovinezza.
V.L.





Le delusioni del 2015 - 10 film