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Far East Film Festival 14, l'Estremo Oriente più vicino

Ricognizione e bilancio del festival completamente dedicato al cinema asiatico, che si svolge da ormai tre lustri a Udine. In questo 2012 il FEFF ha affrontato con coraggio un'edizione difficile, riuscendo a conseguire un ottimo risultato sia dal punto di vista qualitativo che sotto l'aspetto puramente "numerico"

Il Far East Film Festival compie quattordici anni e non ha più bisogno di presentazioni. Si tratta di quel piccolo festival che si svolge nel capoluogo friulano e che da tre lustri prova (riuscendoci) a diffondere il grande cinema asiatico popolare entro i confini europei. Dal FEFF è partita infatti la scoperta di molti dei nomi di punta del cinema asiatico contemporaneo, come Johnnie To, Park Chan-wook, Pang Ho-Cheung e altri ancora sono stati conosciuti in Italia, quando erano ancora in pochi a parlarne - si prendano ad esempio nomi "cult" come Takashi Miike, Kim Ki-duk e Bong Joon-ho.  

Se sono indubbi i meriti del festival organizzato dal Centro Espressioni Cinematografiche di Udine, dubbi vi sono sulla continuità di una compagine vitale e importante della cultura cinematografica italiana che, pur non contando sui mezzi economici dei grandi festival europei, si è imposta come una realtà solida e rinomata, come uno degli eventi specialisti più importanti del continente. A incorniciare il momento critico ci sono le amare parole della presidente Sabrina Baracetti, durante la opening night: «Se Far East Film, nell'arco di quattordici anni, non ha contribuito a promuovere la parola cultura, se non ha concretamente fatto cultura, mettendo in comunicazione l'Europa e l'Oriente, allora ha fallito ed è giusto che interrompa il proprio cammino. Ma se, invece, ha seminato bene, restituendo frutti alla città, alla Regione e anche al Paese in cui opera, allora non ha senso che si fermi, perché le crisi non si risolvono chiudendosi in casa e sbarrando le finestre». La crisi, infatti, ha colpito duramente le espressioni culturali di questo paese, e il FEFF ha visto ridurre drasticamente il suo programma: coi 57 film del cartellone di quest'edizione, sono quasi 30 le proiezioni in meno rispetto al 2011 (e si è fatto a meno anche del supporto di Cinema Visionario).
47 titoli (più 5 cortometraggi) provenienti da Cina (6), Hong Kong (10), Giappone (10), Corea del Sud (10), Taiwan (3), Malesia (2), Filippine (2), Indonesia (2), Singapore (1), Tailandia (1), un programma "tagliato" che ha fortemente penalizzato le cinematografie del sudest asiatico, gioco forza, schiacciate dalle super-potenze Giappone-Corea-Cina/Hong Kong. A questi titoli  vanno aggiunti i 10 titoli che componevano "Il decennio oscuro: i registi coreani negli anni ‘70", interessante retrospettiva firmata da Darcy Paquet sul cinema sudcoreano di quegli anni, quando i registi si trovarono a lavorare sotto la pesante censura della dittatura militare.   

OndaCinema è stata presente nello storico Teatro Nuovo "Giovanni da Udine" per voi, così da poter fare una sommatoria di quella che è stata la quattordicesima edizione del Far East Film!
Per i premi e i risultati del Far East Film si rimanda alle news pubblicate a ridosso del festival.



Therme Romae
di Takeuchi Hideki, Giappone, 2012

L'architetto Lucius Modestus vuole diventare famoso  e propone progetti che nessuno finanzia mai. Un giorno, mentre si rilassa ai bagni con un amico, viene risucchiato dentro i condotti e finisce per viaggiare nel tempo fino ad arrivare nel Giappone di oggi. Qui l'architetto romano rimane sorpreso dall'avanzato grado di civiltà raggiunto da questo clan ("dalle facce piatte"), che crede inizialmente schiavi, nella costruzione dei bagni pubblici. Nonostante la scottante umiliazione, Lucius avrà così nuove e felici intuizioni che lo porteranno al cospetto dell'imperatore Adriano e dentro le trame politiche di Roma.
"Thermae Romae" è un film la cui idea di partenza, tanto folle quanto originale, non viene affatto sprecata ma usata in maniera intelligente, ponendo un divertente e sottile scambio interculturale ed etico tra i nostri antenati latini e i giapponesi contemporanei. La commedia firmata da Hideki non nasconde la sua provenienza manga e, anzi, l'adattamento dello specialista Shogo Muto potenzia quest'aspetto attraverso gag esilaranti.
Girato a Cinecittà e in odore di distribuzione, potrebbe far conoscere al nostro pubblico il poliedrico talento attoriale del grande Hiroshi Abe.

Voto: 7

Nightfall
di Roy Chow, Hong Kong, 2012

Eugene esce dopo vent'anni di galera, muto e sfregiato. Incontra Zoe, figlia di un noto tenore e sembra rivivere le esperienze che l'hanno portato in carcere. Quando il padre della ragazza viene trovato assassinato, le indagini si dirigono presto su di lui...
Le due star del film, Simon Yam e Nick Cheung, sono volti a cui gli appassionati del cinema di Hong Kong sono affezionati: la loro sfida a distanza nel film di Roy Chow è però scontata e telecomandata. Poliziesco d'azione scritto malissimo, diretto entro gli standard produttivi hongkonghesi, "Nightfall" non crea la minima tensione e finisce per diventare presto ridondante e didascalico nelle spiegazioni di ogni dettaglio del mistero che si cela dietro la maschera muta di Eugene. Registicamente Chow si gioca anche la cartuccia di un corpo a corpo nella cabina di una funivia ma fallisce clamorosamente, facendo dissolvere qualsiasi traccia di suspense. Sprecato l'incipit dove Nick Cheung si batte nei bagni del carcere con altri galeotti che volevano fargli la pelle: pochi minuti di violenza stilizzata e ultra-grafica che rimangono isolati (ci si dimentichi di qualsiasi possibile paragone con la sequenza di "Eastern Promises").

Voto: 4.5

Bunohan: Return to Murder
di Dain Iskandar Said, Malesia, 2012

Adil scappa da un incontro mortale di kickboxing e cerca rifugio nella sua città natale, Bunohan (che dovrebbe significare "Murder"). Qui ritrova l'anziano padre (un cantastorie tradizionale) e il fratello maggiore, tornato nel paese per convincere il genitore a vendere il suo terreno; frattanto deve guardarsi le spalle da uno spietato sicario, che si rivelerà anch'egli un fratellastro.
Da una proiezione di mezzanotte che ha nella trama personaggi che praticano la kickboxing ci si aspettava un film fatto soprattutto di botte da orbi e incontri letali. Per questo è stato spiazzante ritrovarsi davanti quest'opera, straniante nell'incedere narrativo e suggestivo nell'impaginazione di curatissime immagini che ritraggono desolati paesaggi malesi. Tra lotte all'arma bianca e nostalgici campi lunghi, la storia a metà tra misticismo panico (si potrebbero scorgere gli influssi di Apichatpong) e una rabbiosa violenza che va dritto verso l'autodistruzione, "Bunohan" traccia il pessimista racconto di piccolo mondo antico che  soccombe per il sopraggiungere di una nuova generazione capitalista e senza scrupoli.

Voto: 7

Rent-a-cat
di Ogigami Naoko, Giappone, 2012

Sayoko vive nella casa dell'adorata  nonna, scomparsa da poco, con l'unica ma numerosa compagnia dei gatti che raccoglie per strada. Quest'originale "gattara" si inventa il mestiere di affittare i mici a chi ne ha più bisogno (anche se per soli 1000 yen): come urla al megafono per pubblicizzare il suo "rent a neko" ("affitta un gatto" in giapponese), i gatti possono riempire quel buco presente nei cuori solitari.
Il film della Ogigami si muove sul filo di un umorismo leggero e surreale, con una tessitura narrativa volutamente ripetitiva nel seguire un rigido schema che rivela la solitudine della stessa Sayoko. Seguiamo infatti la protagonista alternarsi con diversi personaggi a cui affitta temporaneamente un gatto e le vicende sembrano ripetersi (quasi) uguali all'infinito: in quest'atmosfera sospesa si inserisce una bellissima doppia scena, una onirica e l'altra reale, dove Sayoko si trova prima in un professionale "Rent-a-cat" che, nella realtà, si reifica in un più consueto "Rent-a-Car"; la ragazza ha una personalità lunatica e originale, e preferisce una sorta di emarginazione, detestando quelle gerarchie di qualità che reggono la società. Nonostante le persone aiutate, nonostante il personaggio di un amico di infanzia che richiama dèja-vu circolari, ma che scomparirà così com'era apparso, rimarrà sola coi suoi amati gatti. Il proposito per l'anno nuovo - sposarsi - affisso al muro di casa sua, alla fine cederà cadendo sul parquet.

Voto: 6.5

You are the apple of my eye
di Giddens, Taiwan, 2011

Grande successo in patria per quest'opera di Giddens, scrittore famosissimo tra i giovani taiwanesi, che ha girato "You are the apple of my eye" a partire da un suo romanzo (semi)autobiografico. La storia è quella universale del  primo amore adolescenziale, nato tra i banchi di scuola tra due riottosi (e opposti) compagni: lo scapestrato Ching-teng (alter ego di Giddens) e la bella e studentessa modello Chia-yi. Questo sentimento che rimane sospeso e platonico per anni, finisce per trasformarsi in amicizia, mentre tutto il gruppo di amici cresce e va avanti nella vita.
Una sorta di "tempo delle mele" fuori tempo massimo che, dopo un'ora di frizzante ironia sui cliché adolescenziali, finisce narrativamente in un vicolo cieco fatto di un insostenibile ripetizione delle medesime situazioni, fino a un'inspiegabile sequenza a montaggio dove rivediamo le "scene più belle" dell'intero film (sic!). Quando il narcisismo finisce nell'autoreferenzialità.

Voto: 5.5

Moby Dick
di Park In-jae, Corea del Sud, 2012

Una task force guidata dal reporter Bang-woo indaga su un'autobomba esplosa a Seul, basandosi sull'istinto e sui documenti top secret forniti da un misterioso amico del giornalista. Il ragazzo, datosi alla macchia, apparteneva all'organizzazione che ha in segreto ordito l'attentato e creato una situazione favorevole a un nuovo colpo di mano. "Moby Dick" è un film che miscela investigazione giornalistica a un intreccio da spy-story, e sfrutta il passaggio storico della democratizzazione della Corea del Sud (il set temporale è il 1994) per giocare su una possibile e segreta strategia della tensione.
Sfruttando una solida sceneggiatura, Park In-jae imbastisce un thriller-drama realizzato con artigianale perizia e confeziona un buon prodotto popolare, senza reali pretese politiche.

Voto: 6.5

Romancing in thin air
di Johnnie To, Hong Kong, 2012

Intervistato, Johnnie To aveva dichiarato sinceramente che "Romancin in thin air" era un'opera commerciale, uno di quei prodotti che deve realizzare per far guadagnare la Milkyway ltd. e dove l'unico interesse è quello di intrattenere il pubblico. Pubblicizzata come commedia romantica, questo "Romancing in thin air" è invece un melodramma ad alta quota, ambientato in un isolato residence dello Yunnan, dove il divo Michael Lau (Louis Koo) si nasconde dai media, dopo essere stato lasciato all'altare da una collega-attrice e aver preso la fatale abitudine di bere troppo. Qui incontra una piccola comunità che lo aiuta e lontano dal "gran mondo" ritrova l'armonia perduta, innamorandosi della triste proprietaria che attende ancora il ritorno del marito, scomparso nei boschi molti anni prima.
Le sceneggiature di Wai Ka-fai ci hanno abituati a intrecci esagerati nel giocare con gli incroci del destino, ma è proprio la fantasia a latitare nell'ultima pellicola della premiata ditta hongkonghese. Un film sentimentale che non riesce a risollevarsi grazie alla classe registica di Johnnie To che, imbrigliato da un plot dal mordente modesto, finisce per svolgere soltanto il "compitino". Non bastano i suggestivi scenari dello Yunnan né il colpo di coda metafilmico, dove Wai e To sperano di guidare la commozione del pubblico, per risollevare un film nato per essere definito un'opera minore.

Voto: 5

The Front Line
di Jang Hun, Corea del Sud, 2011

Il tenente Gang Eun-pyo viene inviato dal CIC presso la linea del fronte sulla collina Areok per indagare intorno alla morte sospetta di un comandante, ucciso in battaglia ma da un'arma appartenente agli ufficiali dell'esercito sud-coreano in lotta ormai da tre anni con i coreani del nord. Il compito è delicato perché il tenente viene spedito tra gli appartenenti alla divisione dei cosiddetti "alligatori", nelle cui fila Eun-pyo ritrova uno dei suoi più cari amici, che credeva morto all'inizio della guerra. Gli alligatori sono composti da ragazzi che fanno carriera in fretta o da veterani duri, una parte dell'esercito sospesa in un limbo fatto di cameratismo, disincanto e rassegnazione di fronte alla morte. Dramma bellico che coniuga spettacolarità a un intelligente ordito di rimandi intertestuali che connette "The Front Line" al grande cinema anti-militarista: si pensi ai kubrickiani "Orizzonti di gloria" e "Full metal jacket", ad "Hamburger Hill" o al dittico eastwoodiano su Iwo Jima. Jang Hun sembra aver voluto collegare così uno dei più grandi scempi rimossi del Novecento (causa di una cicatrice, quel confine al 38° parallelo, ancora sanguinante) alle altre guerre che hanno segnato l'immaginario cinematografico. Missione compiuta.

Voto: 7.5

The Great Magician
di Derek Yee, Hong Kong, 2012

L'arrivo in città di Chang Hsien, maestro illusionista dalle sopraffine capacità, porta una ventata di novità nella città dominata dal generale Bully, un uomo apparentemente pazzo che si dedica soprattutto al suo harem privato e a conquistare l'amore della "moglie numero 7", che lo respinge continuamente. Derek Yee firma questa gustosa commedia hongkonghese che condensa in due ore un certo gusto ironico e parodico tipico di un filone in voga qualche decennio fa; e aggiunge una riflessione sulle origini del cinema come prosieguo dell'arte magica che sembra correre sul binario parallelo (ma dalle ambizioni più modeste) di "Hugo Cabret". Spassosissimo e con un cast di grandi star, Yee passa dai funambolismi dei combattimenti wuxiapan a sketches demenziali, conditi da dialoghi surreali che palesano la volontà metalinguistica di commentare e scambiarsi pareri sui risvolti della narrazione. Come a voler trattenere intellettualmente immagini illusorie che possono svanire in un batter d'occhio.

Voto: 7

Song of Silence 
di Chen Zhuo, Cina, 2012

Jing è una bambina sordomuta che vive con il nonno e lo zio in un villaggio sul fiume. Un giorno la madre riesce a convincere l'ex-marito a prenderla per qualche tempo. Jing si trova a vivere con un padre che non la ama e con l'ostilità della sua giovane amante, la musicista Xiao Mei, con la quale, però, inizia un intenso e crescente rapporto che farà breccia nel muro di silenzio che la emarginava dal mondo. Apparentemente un "drammone" intimista, in realtà un delicato film sulla condizione in cui riversano gli stati più bassi della società, sulle inadempienze familiari e sullo sfascio morale della Cina contemporanea. Un film scritto e diretto da un regista, Chen Zhuo, prima artista visuale e qui al suo esordio dietro la macchina da presa. Se i "difetti da opera prima" si possono rintracciare in una trattazione tematica a tratti dispersiva, stilisticamente si tratta di un'opera asciutta e già matura. La camera a mano di Chen segue e fissa i personaggi, spesso in silenzio o lasciando i dialoghi fuori campo, come se l'afasia di Jing fosse sintomo di un'incomunicabilità generale, una pesante cortina da oltrepassare, fotograficamente resa da un'atmosfera sempre plumbea e uggiosa. "Song of silence" è un'opera prima imperfetta, anche per via di un'evidente produzione a basso costo, ma dalle grandi ambizioni e Chen Zhuo potrebbe essere un nome che tornerà a fare capolino nei festival europei.

Voto: 6.5

The Egoists
di Hiroki Ryuichi, Giappone, 2011

Un giovane yakuza, fortemente indebitato, convince la ballerina di lap dance di cui è innamorato a fuggire con lui verso i tranquilli lidi della sua città natale. Dopo un periodo di idillio, i problemi cominciano a tornare a galla. Melodramma yakuza che sottende una nuova parabola di amor fou, diretto da Hiroki Ryuichi con mano pesante e una scrittura dalle meccaniche imbarazzanti. 136' sono eccessivi per una pellicola che si esaurisce dopo mezz'ora sprofondando in un circolo di azioni-reazioni ripetitive e scontate e va incontro a un finale di demenziale drammaticità.

Voto: 4

It gets better
di Tanwarin Sukkhapisit, Tailandia, 2011

Saitarn, una transgender sulla cinquantina, parte per un viaggio nel nord della Thailandia, dove si aggira attorno alla bottega di un uomo anziano e si innamora del ragazzo della porta accanto; un ragazzo sui vent'anni torna dagli Stati Uniti a ricevere l'eredità paterna: questa si rivela essere un locale di spettacoli per travestiti, cosicché finalmente il giovane scopre il segreto del padre; un ragazzo viene destinato dal padre a diventare monaco, per timore delle sue tendenze sessuali. "It gets better" è il triplo viaggio verso un'agnizione: quella di padre e figli lontani spazialmente e temporalmente, ma che si avvicinano progressivamente alla difficile meta della comprensione reciproca. Dalla regista trans più controversa della Tailandia, una commedia drammatica che sembra iniziare sulle orme del cult "Priscilla, la regina del deserto", ma che certifica presto uno sguardo originale e intelligente sulla condizione esistenziale  e  psicologica del transgender. Un'opera sentita che rilegge in chiave più moderata il trasgressivo "The insect backyard", esordio indipendente di Tanwarin che fu immediatamente censurato. Tre storie solo apparentemente indipendenti, che la Sukkhapisit con notevole acume riesce a intrecciare con un efficace "colpo di teatro" finale.

Voto: 7

The 33D Invader
di Cash Chin, Hong Kong, 2011

Nel 2049 il 99.9% dei maschi della terra è sterile. La bellissima Future viene mandata indietro nel 2011 col compito di trovare un maschio fertile e in ottima salute e farsi fecondare. A complicare le cose vi sono due perfidi alieni e il fatto che Lawrence, il fortunato prescelto, non si vuole concedere perché già innamorato. E' questa, a grandi linee, la trama di questo softcore proiettato al FEFF come spettacolo di Mezzanotte: difficile giudicare una pellicola di questo tipo senza estrapolarla dal genere di riferimento e dagli obiettivi degli autori. Che erano evidentemente mostrare il quantitativo maggiore di beltà femminili, riuscendoci per altro in maniera ammirevole. Complimenti quindi al casting, per un prodotto in realtà sconclusionato e innocuo come lo può essere una barzelletta sporca.

Voto: 3

Songlap
di Effendee Mazlan & Fariza Azlina Isahak, Malesia, 2011

Due fratelli sono coinvolti a vari livelli in piccole attività criminali. Ad, il minore dei due,  entra in crisi dopo aver subito la perdita suo migliore amico, morto per overdose, a cui si aggiunge il desiderio di farsi riconoscere dalla madre, che è una prostituta. Quando capisce che la ragazza incinta finita nelle mani sbagliate è la sorella del suo amico, fa di tutto per aiutarla, anche dovendosi scontrare col protettivo fratello.
"Songlap" va incontro a un eccesso di tematiche forti: criminalità giovanile, la vita dei bassifondi, neonati venduti alle famiglie dell'alta borghesia da una piccola organizzazione criminale. Però i due registi riescono a salvarsi dal patetismo di un "cinema del dolore", tipicamente terzomondista, grazie a una regia nervosa, a una velocità di montaggio di marca occidentale e alla costruzione di una violenza rabbiosa e mai gratuita.

Voto: 6

One Mile Above (Kora)
di Du Jiayi, Cina, 2011

Shuhao deve elaborare il lutto per il fratello perduto. Decide quindi di completare la sua grande sfida: il grande viaggio in bici dallo Yunnan al Tibet, fino a Lhasa. Un viaggio su due ruote che è naturalmente metafora esistenziale della sfida di vivere, del rischiare nel nome di un qualcosa di più alto e indefinito, di un'ideale di bellezza e di pace interiore. Idea interessante e viaggio estremo (quasi herzoghiano per certi versi), purtroppo va incontro a un approccio registico indeciso sul registro da adottare: si passa più volte dal documentaristico al lirico, dallo studio antropologico (e folkloristico nei ruffiani incontri tibetani) a sterzate drammatizzanti estreme (l'incidente accaduto al compagno di viaggio) e la strada verso Lhasa diventa un percorso a ostacoli e di resistenza che si tiene a distanza dal modello ("Into the Wild") e si avvicina invece alle furberie del Boyle" di "127 ore". Un'occasione  sprecata.

Voto: 5

The Woodsman and the Rain
di Okita Shuichi, Giappone, 2011

Le commedie giapponesi sono state generalmente apprezzate in quest'edizione del Festival udinese (si è parlato un gran bene anche del gastronomico "Sukiyaki" e di "Afro Tanaka), ma con "The Woodman and the Rain" siamo dalle parti dell'ibrido, del dramedy. Il film è diretto in maniera lieve dal giovane Okita, il quale usa una messa in scena pulita e mai oleografica, costruisce i caratteri con una grande sapienza nella scrittura, rivelandoli, mano a mano, nello sviluppo del plot. Koji Yajusho interpreta con finezza un boscaiolo sulla sessantina, vedovo, che ancora fatica da mane a sera e si dedica insieme alla sua squadra ai boschi che crescono rigogliosi intorno al villaggio, mentre suo figlio è un lazzarone che perde un lavoro dopo un altro. Un giorno il suo tran-tran quotidiano (sta tagliando un albero) viene interrotto da una scalcinata troupe cinematografica che sta girando un film: si tratta di uno zombie-movie a basso costo, diretto da un giovane esordiente che ha lo stesso nome e la stessa età di suo figlio. Aiutandoli nel cercare i luoghi migliori per girare le scene, finisce per fare la comparsa (cioè uno degli zombie) e si sente mano a mano attratto dallo strano mondo del cinema. Si ritrova ben presto ad aiutare il giovane regista, confuso e incapace di prendere decisioni, e a diventare un punto fermo nella realizzazione del film.
Okita evita il citazionismo e il metacinema scontato, per una storia lineare di incontro e integrazione fra mondi e culture diverse: la partecipazione di tutto il paese alla battaglia zombie ha l'ironia sognante di Gondry e quando i parenti del boscaiolo, scesi dal treno, scorgono tutti truccati col cerone occhiaie e macchi di sangue si capisce che l'unicità del cinema ha invaso silenziosamente la quotidianità del reale.

Voto: 7+

The future of children in Fukushima
di Hiroki Ryuichi, Giappone, 2011

Cortometraggio di 3 minuti, dove il regista ha posto semplici domande giovani fanciulli giapponesi: disegna le cose che preferisci e quelle che detesti. Breve ma intensa ricognizione sulle paure velocemente introiettate dai bambini che hanno subito il disastro di Fukushima, in contrapposizione alle normali antipatie che possono avere i ragazzini delle elementari.

River
di Hiroki Ryuichi, Giappone, 2012

Il primo quarto d'ora è un estenuante pianosequenza nel quale il regista pedina la protagonista, Hikari, che torna sulle strade Akihabara dove nel 2008 trovò la morte il suo ragazzo, a causa di uno squilibrato che, dopo aver investito delle persone con un furgone preso in affitto, ne accoltellò altre per un totale di 7 morti. Hiroki voleva partire da questo spunto di cronaca nera per il suo ultimo e personale progetto, ma la tragedia del terremoto e dello tsunami del marzo 2011 l'ha spinto a riscrivere in corsa la sceneggiatura e fondere insieme i due drammi, a partire da due individualità distinte. Così l'elaborazione di Hikari, che torna a vivere dopo un lungo periodo di depressione, finisce per continuare nel percorso di Yuji, un ragazzo che torna nel paese che aveva abbandonato solo per sapere se i genitori tanto odiati erano sopravvissuti al devastante terremoto.
Sebbene Hiroki forzi alcuni passaggi, riesce a individuare la trasformazione del lutto privato in tragedia collettiva.

Voto: 6.5

Love in a puff
di Pang Ho-cheung, Hong Kong, 2010

Per presentare il sequel del 2012, il FEFF ha organizzato un "Info Screening" che ci ha permesso di recuperare l'opera inedita di Pang. Una commedia romantica bizzarra e riuscitissima, tra le cose più belle viste a Udine quest'anno (ed era purtroppo fuori concorso). Jimmy Cheung e Cherie Yue sono un pubblicista e un commessa di Sephora che si incontrano insieme ad altri lavoratori nella "pausa sigaretta" a spettegolare dei propri colleghi (e a raccontarsi storie di fantasmi) . Pang prende infatti spunto dalla legge del 2007 che vieta di fumare nei luoghi chiusi della città e, pertanto, questo break permette al regista di sbizzarrirsi nell'incipit con un rapido e sagace susseguirsi di aneddoti e mini-racconti che vanno dissolvendosi, per concentrare le forze della narrazione su Jimmy e Cherie. Inizia così la cronaca di un amore alla nicotina che cambia le vite dei protagonisti in una sola settimana: gag divertentissime (i due che, beccati in un parco a fumare, si fingono una coppia nippo-coreana), un'abilità nella scrittura dei personaggi perfettamente categorizzabile nella famosa "leggerezza" calviniana, e una regia piena di guizzi che squaderna l'Hong Kong più anarchica e geniale.

Voto: 8

Love in the buff
di Pang Ho-cheung, Hong Kong, 2012

Ancora una volta l'incipit è un racconto totalmente slegato dal resto: se nel film precedente si trattava di una ghost story (stile leggenda metropolitana), stavolta Cherie racconta a Jimmy le accidentali e inquietanti morti accadute ai 3 fidanzati di una sua vecchia amica. Inutile dire che le trovate sono degne del miglior cartoon e il film meriterebbe la visione solo per i primi cinque thrillerissimi minuti.
Sono passati 5 mesi da quando avevamo lasciato i due nostri amici, ma la loro storia d'amore non va a gonfie vele. Jimmy decide così di accettare un lavoro a Pechino e cambia subito vita: sull'aereo conosce una hostess e inizia con lei una relazione. Cherie, per la stessa congiuntura economica che ha portato Jimmy nella capitale cinese, finisce per fare la capo commessa in un'altra filiale di Sephora. Casualmente si reincontrano per le strade pechinesi e, nonostante anche Cherie abbia un galante e serissimo spasimante, incominciano una relazione clandestina. Pang ragiona su una coppia esule dalla patria che ha perso la freschezza originale e si nasconde dietro meccanismi narrativi e sentimentali piuttosto canonici: non è ovviamente una presa di posizione nei confronti della potenza normalizzante del cinema cinese nei confronti di Hong Kong, ma che il risultato cinematografico sia questo può far riflettere. "Love in the buff" perde il confronto con "Love in a puff", ma è una commedia romantica comunque riuscita e divertente, che può contare su un cast collaudato e la regia sempre ispirata di Pang.

Voto: 7

Silenced
di Hwang Dong-hyuk, Corea del Sud, 2011

In-ho prende servizio in una rinomata scuola per non udenti. Perplesso dai lividi e dalle escoriazioni sul corpo dei suoi studenti (tutti spaventatissimi da qualsiasi figura di autorità), cerca di far luce sulla quotidianità della vita in istituto scoperchiando un vaso di Pandora: i bambini venivano seviziati, picchiati selvaggiamente e alcuni di loro anche violentati. La cosa più sconvolgente del film di Hwang è che sia basato a un fatto di cronaca e la cosa che può far piacere e che questo dramma giudiziario abbia scosso le coscienze di una Corea che aveva già dimenticato l'accaduto, avvenuto a metà del decennio '00.
La struttura di "Silenced" è comunque troppo scricchiolante per incidere davvero: a parte certi passaggi di scrittura molto ingenui, è l'impianto estetico del film che non sa decidersi tra suggestioni thriller, asciutto documento degli orrori e urlato legal-drama a lasciare insoddisfatti. Per quanto se ne possa stimare l'importanza, questa congerie di codici finiscono per dare una patina ambigua a un'operazione cinematografica irrisolta.
Un po' a sorpresa ha comunque stravinto il festival, aggiudicandosi sia l'Audience Award che il Black Dragon Award.

Voto: 6

The Cockfighters
di Jin Rui, Cina, 2012

E' l'altra faccia di "Song of Silence", visto che dietro vi è un apparato produttivo molto simile (il produttore esecutivo è lo stesso). Un'opera d'esordio indipendente e molto forte, girata con estro e personalità. Se il film di Chen Zhuo cercava l'astrazione di uno sguardo autoriale, trovando forse il suo momento migliore in una scena onirica che avrebbe reso fiero Fellini, Jin Rui focalizza il suo cine-occhio sulle conflittuali dinamiche della società cinese, viste rigorosamente dal basso. Infatti è dai "cockfighters" del titolo che prende spunto l'opera prima di Jin Rui, il quale segue la vita di Lao Wei, un allenatore di galli che si ritrova a vincere contro Xiao Mao, un ricco e prepotente ragazzo che spadroneggia nella piccola città dell'entroterra cinese. Qui iniziano le sue peripezie che lo porteranno a scelte estreme.
Jin Rui predilige la macchina a mano e l'avvicinarsi il più possibile ai corpi dei protagonisti con una frenesia che rende la sua regia molto fisica e diretta. L'opera va sfilacciandosi in un finale che può risultare un eccesso drammaturgico volto a dimostrare la tesi che sottende l'intera narrazione: il pesce più grande mangia sempre quello piccolo. Imperfetto ma prezioso esordio di un altro regista da tenere d'occhio.

Voto: 7

The Bounty
di Fung Chih-Chiang, Hong Kong, 2012

Presentato come un omaggio all'umorismo di Michael Hui, "The Bounty" narra la storia di un detective che segue un ricercato in una strana isoletta. La comicità vintage emanata dall'ottimo cast capitanato da Chapman To, però, si dissolve dopo i primi minuti. Il film infatti è un vero e proprio poliziesco con gag comiche, ma molto lontano dagli stilemi di quell'Hui che Fung si proponeva di omaggiare (gli è molto più vicino nello spirito il "The Great Magician" di Derek Yee ).
"The Bounty" quindi si rilassa presto in una sorta di "giallo degli equivoci" dall'umorismo stralunato, non riuscendo però a valorizzare né l'intreccio né le performance degli attori: Fung fallisce su tutta la linea rendendo lo spettacolo prolisso e noioso.

Voto: 5

Blind
di Ahn Sang-hoon, Corea del Sud, 2011

Soo-ah è una giovane agente di polizia che sorprende il suo fratello (d'orfanotrofio) ancora a fare gare di break-dance, così lo porta via e per punizione lo ammanetta dentro l'abitacolo della macchina. I due hanno un incidente e  se il ragazzo perde la vita, lei diventa cieca. Passa qualche anno e Soo-ah si trova a fare i conti con la vita da non vedente che le permette di fare ben poco: una sera crede di prendere un taxi, mentre sale a bordo di una macchina guidata da un serial killer. Grazie a un fortuito incidente riuscirà a salvarsi, ma insieme a un ragazzino che passava per caso saranno gli unici testimoni di questo fantasmatico assassino.
Thriller che non ha la pretesa di inventare niente, con un plot che sembra mischiare "Gli occhi della notte" di Terence Young con il bel "The Chaser" , esordio folgorante di Na Hong-jin, il film di Ahn ricalca stereotipi del genere senza grande personalità. Grazie all'ottima orchestrazione del comparto sonoro e a un uso intelligente del montaggio alternato, azzecca una serratissima sequenza ambientata nella deserta metropolitana di Seoul. Tutto il resto è nell'accademia del "serial thriller" con tanto di psicopatico omicida invisibile e indistruttibile.

Voto: 5.5

Vulgaria
di Pang Ho-cheung, Hong Kong, 2012

Ennesima pellicola di Pang Ho-cheung portata in anteprima europea al Far East Film Festival, tanto per ribadire l'affetto che nutre il regista di Hong Kong per la vetrina udinese: e terzo film di Pang nella stessa edizione, quasi un record nel record.
La trama di faceva presagire a molti il Pang peggiore, mentre il film sorprende sin dalle prime battute. Distillato di caustica ironia, "Vulgaria" è il ritratto impietoso e sarcastico delle produzioni di serie Z, del suo bestiario umano e dei compromessi a cui si deve scendere per realizzare un film. Tutto inizia sul palco di un auditorium, dove il produttore interpretato da Chapman To, accettando di essere intervistato da un suo amico professore davanti a un corso di studenti di cinema, inizia a raccontare episodi della sua vita privata e lavorativa che si intrecciano continuamente. Pang compone così un dissacrante processo di demistificazione: infatti, tutte le verità e le confessioni del produttore non sono altro che un modo per destare curiosità nel suo ultimo progetto e generare "hype" nel web, affinché il film possa uscire nei cinema. Un curioso mcguffin metacinematografico per mettere alla berlina i vizi e le pratiche comuni (ma ufficialmente occultate) di molti cineasti. Già cult la sequenza della cena in Guangxi, ospiti di un gangster della Triade (un istrionico Ronald Cheng) che offre una cena a base di piatti esotici, dalla tartaruga al gatto fino alla vagina di bue.

Voto: 7.5  

Six degrees of separation from Lilia Cuntapay
di Antoinette H. Jadaone, Filippine, 2011

Appena arrivata al Teatro Giovanni da Udine questa vecchietta di 76 anni ha attirato l'attenzione di tutti. E' lei la protagonista del mockumentary firmato dalla giovane e intraprendente Antoine H. Jadaone, un intero film dedicato a una storica presenza del cinema horror filippino, di cui però nessuno ricorda il nome. Una grande sconosciuta o una grande dimenticata? Il mockumentary è la descrizione della vita quotidiana di quest'attrice nei quartieri più popolari e poveri della città, e la regista la segue per alcuni giorni dopo che, per la prima volta, riceve una candidatura come miglior attrice (non protagonista).
"Six degrees of separation from Lilia Cuntapay" è un documentario ricco di cuore ma povero di mezzi: pochi sono gli inserti di repertorio che avrebbero aiutato oltremodo l'affacciarsi nel mondo dell'anziana attrice e mal gestita anche l'intuizione di base, quella dei sei gradi di separazione che dovrebbero unire tutto il mondo del cinema, perché, come dice la regista, Lilia nelle Filippine è un po' come Kevin Bacon a Hollywood. La parte finale, quella dedicata all'attesa per la serata della premiazione, dedicata alla personalità umile e umana di Lilia non può che risultare un delicato e commovente omaggio a tutti quei lavoratori nell'industria del cinema che, nonostante abbiano fatto tanto e per molti anni, vengono relegati in un cantuccio e oscurati dalle prime pagine. Ogni cinematografia dovrebbe riscoprire la propria Lilia Cuntapay.

Voto: 6.5

The woman in the septik tank
di Marlon Rivera, Filippine, 2011

Lo si può affermare senza timori: l'esordio di Marlon Rivera dietro la macchina da presa ha prodotto il film-sorpresa della quattordicesima edizione del Far East Film Festival. Quasi a dialogare col trailer del FEFF, dove si prende in giro il cosiddetto "poverty porn", etichetta americana sul cinema che spettacolarizza il dolore e la povertà, "The woman in the septik tank" inizia con una lunga sequenza che vede protagonista una tormentata madre degli slums di Manila, che per sfamare i suoi sette figli è costretta a vendere la sua bambina a un pedofilo occidentale. E' la sequenza clou della sceneggiatura che stanno rileggendo tre cineasti indipendenti: una scena che rivedremo numerose volte nel corso dell'opera, una variazione sul tema che è un'acuta e acuminata satira nei confronti di un modo di fare cinema stereotipato e acquiescente nei confronti di un pubblico (quello dei festival in primis) sottilmente perverso.
Libero nello stile, visti i continui cambiamenti di ispirazione, ma realizzato in bassa definizione con una camera miniDV, il satirico j'accuse di Rivera ha almeno tre picchi: l'incontro col più famoso regista filippino che torna dal festival di Venezia (con caustica ironia nei confronti della sua figura da parvenu, che non sa l'inglese né conosce i posti dove ha la fortuna di andare); le scene 36-40 riviste in versione musical, con balletti tra le baracche, canzoni strappalacrime e il coro dei poveri intorno alla superstar protagonista; il colloquio con la star Eugene Domingo, che si prende in giro con maestria e notevole autoironia.

Voto: 7.5

The Viral Factor
di Dante Lam, Hong Kong, 2012

Uno dei film più attesi dell'edizione 14 del FEFF è anche una delle più cocenti delusioni della rassegna.
"The Viral Factor" prende l'avvio durante una missione in Giordania, dove una task force deve scortare uno scienziato e la sua famiglia, poiché l'uomo è l'unico a conoscere la "ricetta" di un nuovo e potentissimo virus. La missione fallisce, lo scienziato viene rapito, la task force viene uccisa, fatta eccezione per Jon che rincasa per stare con la madre. Qui scopre dalla madre ammalata che il padre che credeva morto è ancora in vita e che vive col fratello maggiore. Lasciamo perdere per un attimo il plot in cui anche a scriverne sovviene il dubbio se sia stata usata la minima dose di logica, e facciamo un passo indietro: come si è salvato Jon? Jon ha una pallottola conficcata nel cervello, naturalmente inoperabile, e col tempo la pressione provocata da quel pezzo di metallo lo ucciderà. La domanda scatta in automatico: come si può impostare un film dall'azione muscolare e continua su un protagonista che ha una pallottola conficcata nel cervello? E nel 2012 per di più. La sospensione della credulità latita, a ciò si aggiunge un utilizzo di questo stratagemma assolutamente pretestuoso e discontinuo e un accavallarsi di subplot insulso. L'action Dante Lam lo sa dirigere, ma se manca la struttura portante dell'opera (caratteri definiti e/o empatici, motivazioni credibili, una linea di trama efficace) si sta scrivendo nell'acqua.

Voto: 4

 

Il decennio oscuro: i registi coreani negli anni ‘70


Iodo
di Kim Ki-young, 1977

Iodo è un'isola al largo della costa coreana meridionale, popolata da donne che vivono dei frutti del mare e le cui vite sono strutturate "secondo le vecchie tradizioni". Lontana dagli influssi moderni della terraferma, l'isola è una società separata dove gli antichi usi e costumi prevalgono e lo sciamano locale esercita un'autorità molto forte. Quando uno dei figli dell'isola, che era andato in terraferma, scompare dal ponte di una nave turistica, l'uomo d'affari sospettato di gettato in mare arriva sull'isola insieme a uno giornalista, datore di lavoro dello scomparso, nella speranza di scoprire la verità dietro questa strana sparizione.
Il visitatore viene a conoscenza della complicata storia che riguarda la stirpe maledetta dell'uomo scomparso, e nel contempo viene intrappolato nelle vicende della stessa isola a causa dell'ammaliante barista.
Opera che richiama al passato sciamanico e folkloristico della Corea con suggestioni fantasmatiche e naif, quest'opera di  Kim Ki-young (autore del celebre "The Housemaid") scarta subito dalla via del realismo per abbracciare una messa in scena che sfocia presto nel soprannaturale e nell'inspiegabile: logica e senso occidentalmente intesi non possono far parte di questo mondo, anche se eccessi melodrammatici e kitsch, svarioni di montaggio, e alcuni passaggi così arditi da essere recepiti come ridicoli inficiano il risultato complessivo.

Voto: 5

Wang Sib Ri - My Hometown
di Im Kwon-Taek, 1976

Dopo 14 anni di esilio, Joon-Tae torna nella sua città natale. Tutto è cambiato e i suoi vecchi amici hanno quasi tutti combinato qualcosa nella vita. Si intuisce che lui ha fatto strada nella malavita, ma cerca di nascondere agli amici i soldi guadagnati, che gli hanno permesso questa breve vacanze per chiudere i conti col passato; in particolare, con la sua antica fidanzata abbandonata improvvisamente quattordici anni prima.
Opera nostalgica del grande maestro Im Kwon-taek che ci introduce al presente della sua Corea attraverso il personaggio di un esule che torna a casa: qui, scavando sotto la superficie, scopre come i puntelli della società siano saltati, come sia una gara tra cani randagi per spolpare l'osso più succulento. Joon-tae finisce abbindolato dalla sua ex-donna, divenuta una truffatrice incallita, e non se ne cura affatto, tanto grande è il suo senso di colpa: vorrebbe solo riparare le cose, riprendere le fila di un tempo perduto. L'unica persona che sembra nutrire per lui un sincero affetto (oltre a gran parte dei vecchi amici) è una prostituta con cui si vede ogni notte. Im realizza il romantico ritratto di un uomo perduto, disperatamente alla ricerca delle sue radici in una Corea depressa e cinica. Film amarissimo ed elegante che demolisce quanto di buono aveva creato nell'ultimo quarto d'ora, dove probabilmente, a causa delle imposizioni di censura, tutti i personaggi si redimono improvvisamente.

Voto: 7.5

A woman chasing a killer butterfly
di Kim Ki-young, 1978

Nella didascalia sul programma del festival si leggeva: "A prima vista potrebbe sembrare semplicemente il peggiore dei B-movie, ma il regista Kim Ki-young, che è noto per infarcire i suoi film con riferimenti a Nietsche e Freud, non è uno che scherza(...)". Noi diciamo che ci si poteva fermare tranquillamente prima dell'apposizione e trasformare il periodo ipotetico in un'affermazione. Il film di Kim Ki-young è indubbiamente la pellicola più folle e trash proiettata al Far East di quest'anno, oltre a poter vantare una storia talmente sconclusionata che è persino difficile da riassumere in poche righe. Basti sapere che si passa da un ragazzo che acchiappa farfalle tenute da dei fili visibilissimi (!) a una coetanea che tenta di avvelenarlo, dallo scoramento di questi che vorrebbe completare l'opera suicidandosi (!!!) a un hitleriano barbone che predica la volontà di potenza e perseguita il ragazzo persino quando è solo uno scheletro (anche qui lo sketsches è talmente grottesco con questo scheletro-marionetta da poter risultare geniale). Tecnicamente poverissimo, scrittura ad alto livello alcolemico e interpretazioni incredule: sono tutti aspetti che rendono "A woman chasing a killer butterfly" un piccolo (s)cult, paragonabile solo ai capolavori di Ed Wood.

s.v.





Far East Film Festival 14, l'Estremo Oriente più vicino