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Intervista a Daniele Gaglianone

Daniele Gaglianone è uno dei registi più interessanti della scena cinematografica italiana, il suo è un cinema sincero che colpisce per onestà etica ed estetica. Abbiamo il piacere di incontrarlo a casa sua, dove prima ci prendiamo un caffè (amaro per entrambi) e poi ci facciamo una lunga chiacchierata sul suo ultimo, bellissimo, film "Qui"

Io sono di parte, sono dichiaratamente NoTav e sono stato un manifestante, il film, oltre a essermi piaciuto molto, mi ha coinvolto emotivamente. Rispetto al tuo film penso che l'argomento Tav sia molto scomodo in Italia, non se ne parla quasi mai (a parte ovviamente sui canali dei NoTav) e quasi sempre con una certa reticenza che mi pare sospetta.
Mi domandavo, fare un film su un argomento così scomodo ha delle conseguenze? Tu ti sei esposto, ma direi che pochi, di quelli che possiamo intendere come intellettuali o "artisti" possano dire di aver fatto la stessa cosa...

Mah, guarda, che se ne vadano tutti a fare in culo, ma per davvero, quelli che stanno zitti per comodità.
Su una questione di questo tipo, che è paradigmatica in tutto e per tutto, si astengono in molti dal parlare. Qui si tratta di un paradigma perché emerge tutto il lato nemmeno oscuro, ma il lato esposto di come funzionano le cose in questo Paese (ma volendo anche in altri Paesi eh, ma noi abbiamo questo). È un paradigma anche per vedere come reagiscono le persone in determinate situazioni di ingiustizia, di come le persone possono rivoltarsi alle autorità, perché spesso nelle situazioni estreme emerge ciò che è latente.
Per spiegare il silenzio si devono tenere in conto molti fattori: c'è la pigrizia, la codardia, la sciatteria intellettuale del nostro ceto culturale. Tranne pochissimi casi, nessuno ha, non dico preso una posizione, ma anche solo cercato di capire quello che sta succedendo. Pochissimi hanno mostrato interesse rispetto a una situazione che è centrale in questo periodo.
Ti racconto una cosa, parlando con Zerocalcare esce fuori che di tutte le cose che posta lui sui social network la vignetta, per altro bellissima, che riguardava i quattro arrestati per terrorismo, ora assolti da tale assurda accusa, è una di quelle che ha avuto meno successo, meno diffusione e che è piaciuta meno. Non è quindi solo una questione di potere, di politica, di mafie... c'è una sorta di chiusura quasi pavloviana su questo argomento che fa riflettere. È una cosa che trascende l'argomento in sé, dato che questa è una cosa che mette in crisi in maniere totale l'idea del mondo in cui crediamo di vivere: qui mettono in galera delle persone perché hanno distrutto un compressore, e viene chiesta la stessa pena di chi uccide un uomo.  E nessuno dice un cazzo.
Pensando alla nostra città, Torino, chi è che ha detto qualcosa? Diciamo fra i "personaggi di cui i media ogni tanto parlano", chi si è esposto? A me vengono in mente solo Luca Rastello e Piero  Gilardi...e gli altri? Questa è una città che se la canta e se la suona sulla cultura, ma nessuno si è domandato cosa stia succedendo in val di Susa? Oppure pensano che sia una storia di poco conto...
L'uso della polizia per contrastare un dissenso è un metodo che in Val di Susa è stato utilizzato in maniera sistematica e si è consolidato. E nessuno si fa delle domande?
Ma per tornare alla tua domanda, scusa le lungaggini... io non ho mai ragionato in quei termini lì, ho fatto sempre quello che volevo fare quindi non ho pensato ad una eventuale "carriera".
Un ostracismo ulteriore nei miei confronti direi che non è possibile [ridiamo]. Però ho sentito un distacco anche da parte di persone che so che apprezzano il mio lavoro nel momento in cui ho fatto sapere che avrei fatto un film sul TAV. Questo sì, ed è una roba incredibile. A me a questo punto non mi interessa più nemmeno la questione Torino-Lione... mi interessa la situazione che si è creata lì perché è il paradigma di una rivolta sociale. Sono emerse delle criticità del sistema democratico di per se stesso. Perché la democrazia utilizza dei metodi antidemocratici per mantenere il suo status. Di contro gli abitanti della valle in questi quindici-venti anni stanno facendo politica attiva come in pochi altri luoghi.


Ecco, a proposito, consideri "
Qui" un film politico?

È un film politico nel senso che secondo me parlare di persone è un fatto politico. Non è un film militante, perché non è un volantino e il mio sguardo cerca un distacco. Però è partigiano.
La differenza fra dire una cosa (come fanno tanti giornali) e raccontare è questa: raccontare comprende anche l'assumersi la responsabilità di sposare un punto di vista; un racconto è sempre politica in questo senso.
Mi considerano un regista impegnato, e la cosa mi fa sorridere, perché nei film parlo solo dei fatti miei... solo che i fatti miei sono questi.
"Qui" è un film che parla di rivolta, nel senso più specifico, perché rivoltarsi significa cambiare verso, parla di persone che in vita loro mai avrebbero pensato di trovarsi in questa situazione e che sono costrette alla rivolta, a ripensare a loro stessi e a ripensare al mondo in cui vivono.


Qual è il pubblico di questo film?

Io volevo fare un film in cui le persone di cui parlo si potessero ritrovare e che le persone che non sono coinvolte, o che anzi sono indifferenti alla questione, dicessero quantomeno: potrei trovarmi al loro posto.


Sono stati circa due anni e mezzo di lavoro, un'eternità per un film. Quando uno decide che non si deve andare oltre e chiudere il film?

In realtà, fossi Steven Spielberg avrei creato una task force di registi che ogni sei mesi si sarebbe occupata di andare in valle e documentare la situazione e fare più episodi, tipo una saga. Ma siccome non ho né le capacita né i mezzi di Spielberg ho lavorato sempre in emergenza.
Nel 2012 avevo parecchio girato, ma mi sembrava insufficiente; allora, nel tempo, sono andato su più volte con vari collaboratori cercando nuovo materiale. Alla fine di tutto ho scelto praticamente solo il materiale originale del 2012, perché aveva già tutto quello che mi serviva e cioè il racconto di quel paradigma di cui parlavamo prima.
Alla fine avevo più che altro bisogno di tempo per far riposare le immagini e poterle poi montare con Enrico Giovannone.


Il titolo?

Qui è qui e non è là. Qui è dove sono io (un io generico) implicitamente. Quindi il titolo funziona sia come valore individuale sia come sistema universale, tutti gli individui sono nel proprio "qui". Ognuno può trovarsi in quella situazione.


Rispetto alle storie? Sono dieci persone, otto storie diverse... banalmente, perché loro?

L'obiettivo era quello di rappresentare il movimento popolare, le sfaccettature. Questo mi ha affascinato: persone così lontane per carattere o formazione si sono trovate costrette a scegliere la strada della rivolta e quindi a trovarsi uno a fianco all'altro, e ognuno portando il proprio bagaglio culturale, umano, politico.
Avevo sentito molte altre persone, però ho dovuto fare delle scelte; anche dal punto di vista ritmico delle storie, mi sembrava che queste fossero quelle che funzionavano meglio. E mi pare siano un campione tipico, quando vai a vedere una manifestazione del genere vedi uno a fianco all'altro la catechista con l'antagonista, il genitore con i ragazzi, gli anziani.
C'era anche l'idea di fare un percorso filmico. Sono sì tutte storie separate, come otto documentari diversi, ma in realtà c'è un discorso (strettamente ritmico e concettuale) che si dipana lungo tutto il film.


A proposito dei personaggi devo chiederti un chiarimento: il ragazzo di Radio Blackout mi pareva fosse più staccato dal discorso del film. Perché si dichiara pessimista e che solo nella lotta ha trovato la felicità. Mentre gli altri protagonisti in qualche modo la lotta la subiscono. Ecco a me questa cosa ha dato da pensare... c'è questa discrepanza?

Assolutamente no. Anzi, al contrario, quel ragazzo funziona alla perfezione proprio perché riesce a esprimere il concetto di base che sottende alla rivolta ed è il pezzo che mi piace di più dal punto di vista cinematografico. Lui riesce a fare un'analisi molto precisa della lotta forse proprio perché viene da fuori.
Io non l'ho voluto mettere all'inizio o alla fine del film perché altrimenti assumeva un altro valore secondo me.
Tu ti aspetti che un antagonista dica delle cose del genere. Però poi ascolti le altre storie... e allora alla fine gli dai ragione, le altre vicende confermano la sua tesi. Li vedi in faccia, sono persone che mai si sarebbero immaginate di diventare dei "rivoltosi". La famiglia alla fine per esempio dice: noi crediamo nella democrazia e stiamo male; non è come il ragazzo di radio Blackout che magari crede che la democrazia sia una truffa punto e basta quindi quello che succede in val di Susa non è che lo sconvolga, anzi. Il padre di famiglia invece si trova a dover fare i conti con una cosa più grande di lui. Vive un conflitto che deve risolvere. E deve fare delle scelte molto forti, attivarsi nella rivolta.





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