Ondacinema

Locarno 69: il cinema delle strade perdute

Nel consuntivo finale pensieri e considerazioni sull'edizione del Festival del Film di Locarno appena conclusa.

Consuntivo finale

279 pellicole in meno di due settimane,16 sotto il cielo di Piazza grande e 17 nel concorso internazionale non sono un risultato da poco, soprattutto se spalmate in un itinerario cinematografico organizzato con la puntualità e la precisione tipica di queste parti. Eppure, nonostante l'ottimismo professato dalle direzione artistica del festival che ha sottolineato la riuscita della scommessa fatta in fase di selezione dove le preferenze hanno privilegiato la libertà espressiva degli autori e tutti quei titoli che mettevano al centro l'uomo in tutte le sue sfaccettature, dobbiamo dire che la qualità complessiva dei film si è mantenuta al di sotto delle scorse edizioni. Forse è per questo motivo che la decisione di escludere dal palmares finale due dei lungometraggi più sorprendenti e anarchici dell'intero lotto, e parliamo del nostro "Mister universo" campione d'umanità e di buon umore, e del giapponese "Wet Woman in the Wind", sessualmente troppo libero e trasgressivo per essere preso sul serio dal collegio dei giurati, ci trova tutto sommato indifferenti per la consapevolezza che neanche la presenza di questi film avrebbero cambiato la sostanza del giudizio poc'anzi espresso.

 

Entrando nei contenuti della premiazione annotiamo il carattere ecumenico di scelte equamente divise tra il sentimento del mondo raccontato da un film impegnato e attaccato alla contemporaneità come "Godless" della bulgara Ralitza Petrova, vincitrice del Pardo d'oro per il miglior film, e la vena artistica di opere volte ad espandere - con più o meno costrutto -l'incontenibile ego dei rispettivi autori. E ci riferiamo non solo al premio per la miglior regia assegnato al talento discontinuo di Joao Pedro Rodriguez che nel suo "O' Ornitologo" arriva ad assumere le sembianze di Sant'Antonio e a vivere felice insieme al suo giovane amante; ma pure al premio speciale della giuria andato al rumeno Rude Jude che nel suo "Inimi Cicatrizate" (Scarred Hearts) riesce - con qualche enfasi di troppo - a trasfigurare la fine di un epoca nel ritratto di una gioventù precocemente spezzata. Da ultimo fa piacere segnalare la vittoria assegnata dal pubblico della Piazza grande a "I, Daniel Blake" del combattivo Ken Loach che oltre a regalarci quasi due ore di autentica emozione ci ricorda l'importanza di continuare a impegnarci per una vita più giusta per tutti.

 

 

 


Pardo d'oro

GODLESS di Ralitza Petrova, Bulgaria/Danimarca/Francia

Premio speciale della giuria

INIMI CICATRIZATE (Scarred Hearts) di Radu Jude, Romania/Germania

Pardo per la miglior regia

JOÃO PEDRO RODRIGUES per O ORNITÓLOGO, Portogallo/Francia/Brasile

Pardo per la miglior interpretazione femminile

IRENA IVANOVA per GODLESS di Ralitza Petrova, Bulgaria/Danimarca/Francia

Pardo per la miglior interpretazione maschile

ANDRZEJ SEWERYN per OSTATNIA RODZINA (The Last Family) di Jan P. Matuszyński, Polonia

Menzione speciale

MISTER UNIVERSO di Tizza Covi, Rainer Frimmel Austria/Italia

 

 

Concorso internazionale

O Ornitologo di Joao Pedro Rodriguez

o_ornitologo_locarno69Il sodalizio tra il cinema portoghese e il festival di Locarno non è cosa recente, basti pensare all'importanza che ha avuto la kermesse svizzera per un regista come Pedro Costa ("Cavalho dineiro"), il cui lavoro ha trovato proprio nell'evento ticinese apprezzamenti e successo. L'edizione di quest'anno conferma la tendenza presentando ben due film lusitani nel concorso principale: del primo, "Correspondencias" avevamo parlato a margine della sua presentazione avvenuta nella giornata d'apertura della manifestazione, il secondo invece merita un attenzione particolare perché a dirigerlo è quel Joao Pedro Rodriguez che avevamo avuto modo di applaudire non più tardi di quattro anni fa sempre in questa sede con lo splendido "A Última Vez Que Vi Macau". Il suo nuovo lavoro si offre al pubblico con un'estetica totalmente diversa dal precedente perché "O Ornitologo" nell'iperrealismo dei colori e nell'uso di inquadrature a schermo panoramico sembra voler prendere le distanze dalla voglia di sperimentare e dalle stravaganze narrative del lungometraggio del 2012 a favore di una storia apparentemente lineare nella quale l'armonia tra uomo e natura si concretizza nello stile contemplativo e nella composizione classica delle scene che ci danno modo di seguire il protagonista intento a osservare e a catalogare i comportamenti di alcuni specie di volatili. Diversamente, come spesso succede nelle storie del regista portoghese la realtà è sempre in agguato e l'esistenza delle persone continuamente minacciata dall'incontro con l'altro. "O Ornitologo" non sfugge alla regola perché a causa delle rapide del fiume che lo costringono a un drammatico fuori bordo l'uomo intraprende una sorta di viaggio dantesco all'interno della foresta scandito da una serie di tappe di iniziazione (al sesso, alla vita, alla morte e alla resurrezione) che nel bene e nel male ne ridefiniscano gli orizzonti esistenziali. Strutturato come una sorta di cortocircuito culturale per la commistione di riferimenti alti e bassi che vanno dalla pittura del Caravaggio - citato nella plasticità della posa che ritrae il protagonista nudo e legato alla maniera del San Sebastiano dipinto dal genio milanese - al genere western, che il regista - per sua stessa ammissione - ha utilizzato per conferire una precisa fisionomia al film, "O Ornitologo" si ispira ad un episodio della vita di Sant' Antonio, portoghese di nascita e italiano d'adozione, la cui vita è presa in prestito ed opportunamente trasfigurata nella versione pagana e mitologica pensata da Rodriguez. Peccato che alla resa dei conti la fantasia del regista non riesca a trattenersi e l'abbondanza di onirismo e la volontà di alzare il tiro (ci riferiamo alla sequenza delle amazzoni che parlano in latino) prendano il sopravvento sulla narrazione, pasticciando quello che fin li era stata un' esperienza cinematografica fuori dal comune. (CC)

Voto: 6,5


Concorso internazionale

Bangkok Nites di Katsunya Tomita

bangkok_nites_locarno69Di primo acchito aveva stupito la scelta di inserire l'anteprima stampa del film più lungo del festival (il minutaggio supera le tre ore) proprio nell'ultima giornata di proiezioni, quella in cui per forza di cose si arriva un po' a corto d'attenzione. Al termine della visione se ne capisce il motivo, perché "Bangkok Nites", coproduzione internazionale che mette insieme capitali giapponesi e tailandesi non si vergogna di affrontare alcuni temi cruciali della storia di quest'ultimo paese con leggerezza e vivacità davvero rare in un film festivaliero. D'altronde, se dipendesse solo dalla sceneggiatura la vicenda di "Bangkok Nites" avrebbe ben poche occasioni di ilarità perché a farla da padrone sono la vita notturna del quartiere a luci rosse notoriamente riservato alla clientela giapponese e, nelle sue mille sfaccettature, la variopinta umanità (escort, papponi, uomini d'affari, frequentatori più o meno occasionali) che ruota attorno a Luck, la regina del consesso, decisa a servirsi della sua avvenenza per guadagnare il denaro necessario a mantenere la famiglia rimasta in una provincia del nord-est, vicino al confine con il Laos. Considerato che il pretesto di assecondare la nostalgia della ragazza nei confronti del luogo natio da modo di allargarsi in quelle zone del paese dove i segni della guerra, delle occupazioni e del colonialismo francese sono ancora evidenti non solo nella vita delle persone, ancora oggi condizionata dagli antichi abusi, ma anche nella conformazione fisica del territorio (ci riferiamo ai crateri dei bombardamenti diventati una specie di monumento nazionali) si capisce come lo scarto drammaturgico e formale operato dal regista rispetto alla serietà dei contenuti sia stata la vera sfida che i realizzatori del progetto dovevano affrontare. Per riuscire a vincerla Tomita organizza un flambé cinematografico in cui commedia e melodramma si danno man forte per tenere sempre alta l'attenzione dello spettatore, il quale, pur con le differenze del caso, non faticherà a riconoscere nell'esplosione di luci e di colori e nel dinamismo delle parti in causa alcune delle caratteristiche di certo cinema hollywoodiano. Oltre a non far pesare la sua durata, il pregio del film consiste nella pretesa, invero riuscita, di lasciare fuori campo non solo il sesso ma anche il più innocente scambio di effusioni. Un record - per un film del genere, che però in generale paga lo scotto di un' inconsistenza che rimane tale fino al termine dell'ultimo fotogramma. (CC)

Voto: 6 


Concorso internazionale

Godless di Ralitza Petrova

goodless_locarno69Prendendo in prestito William Shakespeare e parafrasando un verso del suo "Amleto" potremmo affermare senza avere il dubbio di esagerare che c'è del marcio in Bulgaria. A ispirare l'accostamento è "Godless", secondo film in concorso che racconta con toni ancora più cupi di "Slava" la realtà un paese che ha fatto dei valori civili e morali della nazione il terreno di conquista per un'umanità rapace e senza scrupoli. Come quella che da manforte a Gana, infermiera di un'anonima cittadina che si prende cura - si fa per dire - di anziani affetti da demenza senile e nel frattempo trova il modo di organizzare per conto del sodalizio malavitoso di cui fa parte il commercio di carte d'identità che la ragazza sottratte agli sciagurati pazienti. Accompagnata da un fidanzato a cui oramai la legano solamente le dosi di morfina consumate negli intervalli di lavoro e con a carico una madre disoccupata e rabbiosa Gana raggiunge il punto di rottura quando il tentativo di spaventare una malata riottosa ai metodi dell'organizzazione si trasforma in tragedia. Più che raccontare il concatenarsi dei fatti che porteranno la protagonista a una redenzione in qualche modo tardiva la Petrova si muove in due direzioni opposte e coincidenti che, da una parte la spingono a scavare nelle psicologie dei personaggi per fare luce sui recessi più oscuri delle loro personalità, dall'altra le permettono di trascendere la fenomenologia della sua rappresentazione per dare vita a un apologo che - alla maniera del decalogo kieslowskiano - sembra parlarci dell'ineluttabilità della condizione umana e delle responsabilità delle nostre azioni. Per questa ragione la mdp più che seguire i personaggi sembra braccarli con una mobilità fatta di riprese a fior di pelle e stacchi improvvisi che nella distanza dei campi lunghi e delle inquadrature dall'alto sembrano affidare il punto di vista della storia a una coscienza superiore e a quel Dio inizialmente negato dall'aggettivo che da il titolo al film. Quello che ne viene fuori è efficace nella restituzione dell'afflizione fisica e morale che opprime i personaggi, un po' meno nel quadro d'insieme che a tratti risulta un po' monocorde. (CC)

Voto: 6,5

 

Piazza Grande

Dans la foret di Gilles Marchand

dans_la_foret_locarno_69Tom, un bambino di otto anni sta giocando con delle composizioni di legno. Le impila uno sopra alle altre, in precario equilibrio mentre discute con una donna le prossime vacanze che farà con il padre in Svezia, divorziato dalla madre e che non vede da quando era molto piccolo. Siamo in una stanza arredata con essenzialità, l'atmosfera è calma, ma ambigua. Il bambino si esprime a fatica, nei suoi occhi si legge un certo timore. La donna gli dice che è fortunato a passare delle vacanze nella foresta. L'incipit di "Dans la forêt" è folgorante e ti fa percepire immediatamente che assisteremo a una storia piena di mistero e di mancate spiegazioni razionali. Gilles Marchand è un affermato sceneggiatore francese che ha lavorato con Laurent Cantet, Valérie Donzelli, Cédric Kahn e Dominik Moll e al suo terzo lungometraggio da regista. La Donzelli e Moll hanno ricambiato la collaborazione con Marchand: la prima è tra i produttori del film, mentre il secondo è co-sceneggiatore di "Dans la forêt". Il film del regista e sceneggiatore francese è opera che indaga sulla psicologia infantile, sulle paure della crescita, sul rapporto con un padre distante e poco conosciuto. Tom ha un fratello più grande, Benjamin, che è già più autonomo e adulto e proprio lui ha un rapporto di sfida con la figura paterna che non riconosce fino in fondo, arrivando ad affermare che dubita sia il vero padre. Lo sguardo di Tom, al contrario, è affascinato dal padre che percepisce come un altro da sé e, allo stesso tempo, parte di sé, in continua fascinazione scopica, dove il timore e la paura lo paralizzano e immobilizzano in una contemplazione dell'adulto come corpo/oggetto/territorio (s)conosciuto. Tutto il film quindi viene visto attraverso lo sguardo dei bambini, in particolare quella di Tom con un allineamento della visione dello spettatore: osserviamo lo sviluppo diegetico attraverso il vissuto psichico del bambino e la sua visione distorta, (de)strutturata della realtà. (AP) Leggi la recensione.

 

Concorso internazionale

Dao Khanong (By the Time It Gets Dark) di Anocha Swicharnpong

by_the_time_it_gets_dark_locarno69Nell'approccio alla visione di "By the Time It Gets Dark" della tailandese Anocha Swicharnpong la dimestichezza con il cinema proveniente da quel paese - e pensiamo a lungometraggi come "Tropical Malady", "Lo zio Boonmee chiesi ricorda le vite precedenti" - può tornare utile nella decifrazione delle immagini e dei significati contenute all'interno del film e, allo stesso tempo, potrebbe essere il limite per cui si finisce di non apprezzare in pieno il lavoro della nostra autrice. Incrociando le vite di più personaggi all'interno di un eterno presente che diventa presto l'anello di congiunzione di eventi già accaduti o sul punto di accadere, la regista tailandese si serve di luoghi, temi e categorie che rappresentano il cote storico, artistico e culturale entro cui si muove la cinematografia del sud-est asiatico. In questo modo non sorprendono i riferimenti agli orrori del regime dittatoriale ricordati attraverso la ricostruzione dell'eccidio (realmente compiuto) che costò la vita a una moltitudine di innocenti, e ancora l'utilizzo di una narrazione a maglie larghe in cui la trama è soggetta a continue ridefinizioni di senso che quasi sempre hanno a che fare con lo scorrere del tempo e con le riflessioni sulle contraddizioni dello strumento cinematografico (tra i vari personaggi spiccano quelli di una regista e di un attore impegnati nella produzione dei rispettivi film). Nè ci si trova spiazzati dalla presenza di nessi logici che nella labile parvenza di consequenzialità permettono a chi dirige di inserire a piacimento inserti apparentemente gratuiti come quello in cui un momento della lavorazione delle foglie di tabacco da parte di un gruppo di operai interrompe (anche in termini di prosaicità del soggetto) l'eccezionalità degli eventi fin li raccontati, come pure l'inclusione di alcuni frammenti di "Viaggio nella luna" di Georges Méliès giustificati - se proprio si vuole trovare una spiegazione - dalla presenza nel film francese di un particolare di scena a cui la storia di "By the Time It Gets Dark" fa un breve cenno. Se poi teniamo conto che il gioco di specchi che fa dei personaggi altrettanti varianti della stessa matrice spirituale trova una possibile coerenza nel non detto rappresentato dalla teoria della reincarnazione e della trasmigrazione delle anime, allora si capisce che l'unico modo per godere appieno di "By the Time It Gets Dark" è quello di lasciarsi trasportare dal flusso delle immagini e dal passo contemplativo che ne scandisce il ritmo, accettando l'insufficienza della ragione come strumento per decifrare i segreti del film. (CC)

Voto: 6

 

Concorso internazionale

Jeunesse di Julien Samani

jeunesse_locarno69Ancora prima di entrare nel merito della storia e dei suoi significati "Jeunesse" aveva attirato la nostra attenzione per un cast che comprendeva due tra gli attori più interessanti del cinema francese. Parliamo di Azim Karim protagonista di "Les Combattants" in assoluto uno dei film più belli della scorsa stagione e di Samir Guesmi che avevamo appena applaudito nella commedia "L'effetto acquatico" della compianta Solevi Anspach. In più il film di Julien Samari annoverava tra i suoi crediti nientedimeno che il grande Joseph Conrad, ricalcato per ambientazioni, spirito d'avventura e introspezione psicologica, e perché di fatto la sceneggiatura rielaborava uno dei suoi libri. Almeno nella trama bisogna dire che "Jenusse" fa le cose per bene, rispettando il suo modello con una struttura da romanzo di formazione che racconta del giovane Zico, desideroso di imbarcarsi su una nave mercantile per conoscere il mondo e diventare adulto e però costretto a scoprire sula propria pelle e su quella dei suo compagni il costo di tale scelta. Realizzato in regime d'economia con uno stile di ripresa che rinuncia alle immagini di ampio respiro tipiche delle produzioni americane per concentrarsi sugli spazi angusti delle cabine della nave e sui volti di chi le abita, le scelte del regista in questo caso poteva favorire un interpretazione meno scontata del campione conradiano. E invece lungi da tutto questo "Jeunesse" in termini cinematografici si accontenta di essere un surrogato della grandi produzioni hollywoodiane, ottenendo come unico risultato quello di evidenziare i limiti della sua natura low cost. Un difetto suggellato nella sequenza conclusiva dalla mancata corrispondenza tra l''epica romantica che scandisce la voce over del protagonista e la qualità televisiva (nonostante un suggestivo uso del colore) delle immagini che le commentano. Per un film del genere e per il concorso si tratta di un vero e proprio autogol. (CC)

Voto: 5

 

Concorso internazionale

Der Traumhafte Weg di Angela Schanelec

der_traumhafte_weg_locarno69Chi segue i festival sa bene che ogni selezione è fatta anche da scelte insondabili, destinate a fare scalpore tanto più è alta la posta in palio. Per questa ragione in una giornata in generale poco eclatante a fare notizia almeno tra gli addetti ai lavori, ma siamo pronti a scommettere che accada la stessa cosa nelle proiezioni avete al pubblico, e' la presenza nel concorso internazionale del film tedesco "Der Traumhafte Weg". Il motivo di tanto sconcerto è presto detto e riguarda soprattutto le smodate ambizione della sua regista che, decidendo di mettere in scena un film incentrato sulla crisi delle persone ma anche sui limiti dei vari modelli che ne regolano le forme di convivenza - la coppia, la famiglia e addirittura la nazione visto che il film si apre con una manifestazione di protesta politica collocata nella Grecia del 1986) ne affida i significati a una messa in scena tanto criptica quanto insulsa. Ad essere complessa non è certo la trama che si risolve in un quartetto di anime costrette per ragioni diverse a separarsi non senza qualche recriminazione e sullo sfondo di una disfacimento che assume i contorni della malattia della madre di uno dei protagonisti, la morte della quale diventa - volutamente o per caso non siamo in grado di dirlo - il punto di non ritorno per il resto dei personaggi e per il corso stesso della storia. Recitato dagli attori in maniera catatonica per la necessità di esprimere il malessere dei personaggi con una fissità marmorea al limite del ridicolo e girato con ellissi che vorrebbero avere lo stesso significato di quelle presenti nei film di Michelangelo Antonioni "Der Traumhafte Weg" aspira al grande cinema ma si contenta di banalità. (CC)

Voto: 3

 

Piazza Grande

Le ciel attendra di Marie Castille Mention Schaaar

le_ciel_attendra_locarno69C'era grande attesa ieri sera in Piazza grande per la proiezione di "Le ciel attendra", il film di Marie Castille Mention Schaaar dedicato al reclutamento islamico in territorio occidentale perché dopo i recenti attentati terroristico la storia delle adolescenti francesi adescate via internet e convinte a raggiungere la Siria per combattere la guerra santa andava a toccare il nervo scoperto dell'opinione pubblica europea. In questa sede non è il caso di approfondire i motivi per i quali un film del genere aveva catalizzato da giorni l'interesse dei mass media e del pubblico festivaliero,; nè di ribadire che la trattazione di simili argomenti può rivelarsi a seconda dei casi un rischio a causa della mancanza della prospettiva necessaria per ragionare su situazioni in corso d'opera, o un vantaggio, per l'empatia del pubblico nei confronti di fatti cosi eclatanti e dolorosi . A giudicare dagli applausi che al termine della proiezione sono stati tributati alla regista e alle sue attrici sembra aver prevalso l'emozione e quindi la predisposizione dello spettatore ad identificarsi con i problemi e le paure evocate dalla vicenda raccontata sullo schermo. Un successo che però non riesce a convincerci sulla bontà de "Il ciel attendra" che per quanto ci riguarda non funziona né come prodotto di denuncia, tanto superficiale è quella della sceneggiatura sul problema del reclutamento telematico messo a punto dagli agenti del califfato, né come film di genere, per le caratteristiche di un melodramma che nonostante il tempo a disposizione (105') non riesce a spostarsi di una virgola dal clima tragico e concitato che ne caratterizza l'incipit così come dalle reiterate discussioni tra genitori e figli volte a rappresentare il gap generazionale tra le parti in causa. Senza un minimo approfondimento del contesto sociale in cui si svolgono i fatti, e con un'esposizione pubblicitaria dei meccanismi e delle strategie dei temibile avversario "Le ciel attendra" si rivela un istant movie che fa il gioco di chi in cambio di sicurezza non vedrebbero l'ora di ridurre le libertà dei singoli cittadini. (CC)

Voto: 5

 

Interviste

Intervista a Tizza Crovi e Rainer Frimmel autori di "Mister Universo"

Abbiamo incontrato in conferenza stampa la coppia di registi italo-austriaca che ci ha raccontato la lavorazione e i temi del loro nuovo docu-fiction. (CC) Qui potete leggere l'articolo.

 

Concorso Internazionale

Mister Universo di Tizza Crovi e Rainer Frimmel

mister_universo_locarno69Se c'è una costante nel cinema di Tizza Covi e Rainer Frimmel, questa si manifesta nell'assoluta priorità che i personaggi hanno nell'economia generale delle cose. A dircelo c'è innanzitutto la filmografia degli autori e il filo rosso che, a partire da "Non è ancora domani (La pivellina)" e arrivando ai nostri giorni con il lungometraggio appena presentato a Locarno, sembra unire in un unico libro i non molti titoli del loro curriculum. Perché, se già nel bellissimo e misconosciuto "The Shine of Day", anche lui passato in concorso al festival ticinese, il punto di snodo dei tanti rivoli narrativi era costituito dalla centralità dell'attore Walter Sabel già coinvolto nella realizzazione del film del 2009, così adesso a ritornare sullo schermo nei panni di se stesso è quel Tairo Cairoli che avevamo conosciuto ancora bambino ne "La pivellina", opera davvero seminale per la coppia di registi italo-austriaca. Neanche a farlo apposta, ad avvalorare tale analisi ci viene incontro "Mister Universo" e la novità metodologica utilizzata da Covi e Rimmel per narrare il mondo che ruota attorno alle vicissitudini dell'estroverso domatore di leoni e al viaggio che egli intraprende per incontrare Arthur Robin, primo uomo di colore a vincere il titolo di Mister Universo nel lontano 1957 al quale il ragazzo vorrebbe chiedere in regalo uno degli amuleti portafortuna che l'uomo usava nel corso dei suoi spettacoli, ricavati piegando a mani nude barrette di metallo. (CC) Leggi la recensione.

 

Concorso Internazionale

La idea de un lago di Milagros Mumenthaler

la_idea_di_un_lago_locarno69Una domanda ci si pone assistendo alla visione di questo film: perché molti giovani si dedicano a storie personali, ma senza aver un respiro vasto? Perché sono autocentrici e si guardano l'ombelico (che non è il mondo) in autocitazione e autoesaltazione come se fosse la cosa più importante da raccontare? Certo la storia personale di un autore è importante, pensiamo a uno Scorsese o a un Moretti, ma lì c'è anche una ricerca di universalità, di metonomia narrativa per raccontare il mondo. Forse l'intento della giovane regista argentina voleva essere lo stesso ma il risultato sa fin troppo di aneddoto familistico che interessa veramente a pochi e trattato nemmeno con una certa drammaticità, tanto che la ricerca del padre (o meglio il suo ricordo) non riesce a suscitare nessuna empatia, ma un certo distacco e disinteresse tanto la protagonista è così concentrata a raccontare se stessa, il rapporto con la madre e il fratello. Anche la recitazione frontale direttamente rivolgendosi allo spettatore facendo cadere la parete (lo schermo) divisorio è un dejà vu stucchevole. Anche la scelta di effettuare la narrazione episodica, utilizzando il montaggio alternato, su tre piani temporali differenti (la protagonista da bambina, giovane ragazza appena fidanzata e moglie in crisi in attesa del suo primo figlio) non dà alcun ritmo drammaturgico né uno sviluppo diegetico (in)coerente, ma solo confuso, randomico. Troppo evidente il divario tra ciò che viene realizzato e quello desiderato che rendono "La idea de un lago" un'opera prima velleitaria, senza alcun coraggio visivo e alquanto legata a un gusto intellettuale festivaliero di cui sinceramente se ne poteva fare a meno in un concorso internazionale. (AP)

Voto: 4

 

Concorso Internazionale

Marija di Michael Koch

marija_locarno69La giovane ucraina, protagonista del film di Koch, lotta tenacemente per raggiungere il sogno di aprire un negozio da parrucchiera in una Dortmund livida e grigia, dove ci sono più immigrati di diverse etnie che cittadini tedeschi. Perso il lavoro come donna di pulizie in un grande albergo si arrabatta prima con il padrone di casa, un tunisino che tra caporalato e affitti di camere a immigrati clandestini, impone con la violenza lo sfruttamento della sua stessa gente; poi con un imprenditore tedesco che sfrutta la manodopera illegale nell'edilizia. Il giovane regista svizzero al suo primo lungometraggio, vorrebbe raccontare una realtà in modo naturalistico, quasi entomologico, ma si capisce che non conosce bene l'ambiente che mette in scena: appare inverosimile e falso che Marija riesca a cavarsela e alla fine ad aprire il negozio mettendo in scacco due uomini che in ambienti simili potrebbero far sparire facilmente una persona (figuriamoci un'ucraina, di cui le cronache sono piene). Sarebbe stato più corretto un approccio totale di fiction, ma questa ricerca naturalistica risulta falsa e anche l'utilizzo della macchina da presa che pedina Marija, sempre quasi in primo piano, è derivativo di un certo cinema dei fratelli Dardenne (a cui Koch è indubbiamente debitore), senza mai distaccarsi dai padri putativi e ispiratori. Non basta la prova magnifica della protagonista da parte di Margarita Breitkreiz per salvare un film di un autore ancora molto acerbo e senza una voce personale. (AP)

Voto: 5

 

Concorso Internazionale

Inimi Cicatrizate (Scarred Hearts) di Rude Jude

scarredhearts_locarno69Quando ancora si moriva di tubercolosi la speranza di poter sopravvivere alla malattia si trasformava, per chi poteva permetterselo, in una vacanza da se stessi e dal proprio mondo nella speranza che le cure ospedaliere e la divina provvidenza facessero il resto. Di questo limbo esistenziale e delle giornate trascorse nel sanatorio deputato alla promessa guarigione si occupa "Scarred Hearts" di Radu Jude, regista romeno - gia premiato a Berlino come migliore regista per "Aferim!" - che, per raccontare la clausura forzata del ventenne Emanuel (Lucian Teodor impegnato in un ruolo che si avvicina all' Amalric de "Lo scafandro e la farfalla"), allettato da una tubercolosi ossea che gli impedisce di deambulare, si ispira al romanzo autobiografico del connazionale Max Blecher, scritto dall'autore prima di morire a ventinove anni, dopo dieci anni di atroci sofferenze. (CC) Leggi la recensione.

 

Piazza Grande

Paula di Christian Schwochow

paula_locarno69Vita e opere di Paula Becker, pittrice tedesca vissuta a cavallo tra il XIX° e XX° secolo, prima donna a cui è stato dedicato un museo personale a Brema negli anni 50, ma in vita osteggiata e poco riconosciuta con un difficile rapporto con il marito Otto pittore anche lui. Vissuta per un certo tempo a Parigi, entra a far parte del primo Impressionismo e la sua arte sarà riconosciuta solo dopo la sua morte avvenuta dopo il parto della sua unica figlia a quasi trentadue anni. Il film ne ripercorre l'apprendistato di artista, dalla comunità di pittori (molto maschilista) di Worpswede in Germania alla capitale francese dopo che il matrimonio entra in crisi.  Interpretato in modo brioso dalla giovane attrice svizzera Carla Juri (che vedremo presto nel nuovo "Blade Runner" di Denis Villeneuve), la sceneggiatura porta avanti una narrazione didascalica, piatta, da manuale scolastico di storia dell'arte, con una regia di Schwochow (al suo quarto lungometraggio) formalmente da sceneggiato televisivo, senza alcuna originalità nel linguaggio cinematografico, un profilmico che rasenta uno scenario da cartolina e una fotografia dai colori tenui e uniformi, che rendono ancora di più una certa atmosfera artefatta nella costante ricerca di un naturalismo un po' fuori luogo, visto che si parla di un'artista che vedeva il mondo con occhi nuovi. Ecco, la regia e il film di Schwochow sembrano proprio quei quadri dei pittori della scuola di Worpswede, fatti con "precisione ed esattezza", e che la Becker combatteva con tutte le forze e la sua ironia. Un biopic che somiglia a un'agiografia, un santino di una grande donna che meritava forse una sceneggiatura più originale e una regia più coraggiosa per il suo sguardo ribelle. (AP)

Voto: 5

 

Concorso Internazionale

La prunelle de mes yeux di Axelle Ropert

la_prunelle_de_mes_yeux_locarno69La presenza nel concorso ufficiale di una commedia sentimentale come quella diretta da Axelle Ropert sorprende due volte: la prima, di natura squisitamente statistica, nasce dal pregiudizio di taluni degli aventi causa che, considerando il genere in questione troppo frivolo per l'importanza di un festival cinematografico tendono a escluderlo dalle selezioni; la seconda invece, di tipo realizzativo, riguarda il coinvolgimento di Arte, la casa di produzione diretta da Olivier Père abituata a target diversi da quelli che l'hanno vista coinvolta nella progetto di "La prunelle de mes yeux". In realtà, fatte salve le divergenze di opinione che, se indirizzate a dovere possono trasformarsi in un ritorno pubblicitario a costo zero, è doveroso premettere che le credenziali della regista francese sono tutt'altro che disprezzabili, essendosi la stessa fattasi le ossa dapprima lavorando come critica cinematografica di prestigiose riviste francesi e, passata dietro la macchina da presa, partecipando con il suo primo film al festival di Cannes del 2009. (CC) Leggi la recensione.

 

Piazza Grande

Interchange di Dain Iskandar Said

interchange_locarno69Kuala Lumpur, giorni nostri. Siamo all'Eden, un locale dove delle drag queen si esibiscono tutte le sere in numeri canori, nei loro vestiti sgargianti e il loro trucco pesante e marcato. Una di loro alla fine dello spettacolo scopre il corpo di una donna mutilato. Sotto la pioggia scrosciante della notturna metropoli arriva il detective Man che si trova davanti a uno strano omicidio rituale. È l'incipit folgorante di questa sorpresa in Piazza Grande al 69° Festival del Film a Locarno del regista (e scrittore) malese Dain Iskandar Said che ci trasporta in un thriller venato di fantastico, giocando con tutti gli stilemi del cinema di genere. Man chiede aiuto quasi subito all'amico Adam, fotografo della polizia scientifica e dotato di una spiccata sensibilità per le scene del crimine. Man si rende subito conto che l'omicidio è una replica di un altro accaduto cinque mesi prima e ci vede la mano di un serial killer. Adam è momentaneamente a riposo e si diletta a fotografare i vicini dei palazzi intorno al suo appartamento cercando di distrarsi da strani incubi che lo perseguitano. In questo modo conosce la strana Iva, una donna che sembra abbia un oscuro passato. Ben presto i due amici si trovano invischiati negli interessi di alcuni componenti di un'antica tribù del Borneo, resi immortali da fotografie scattate su lastre di vetro e con l'aiuto di un essere divino (un uccello che si trasforma in uomo) cercano di liberarsi da questa maledizione. (AP) Leggi la recensione.

 

Piazza Grande

Cessez-le-feu di Emmanuel Courcol

cessez_le_feu_locarno_69Il problema del rientro nella vita civile per i reduci di qualsiasi guerra è la tragedia personale di uomini che sono sfruttati dalle nazioni per cui hanno combattuto e poi abbandonati a se stessi. Il regista francese sceglie la Prima Guerra Mondiale e dopo un fulminante incipit di alta drammaticità sul fronte francese nel 1916, abbiamo una ripresa del tempo narrativo nel 1923, dove un uomo, Marcel, non riesce a parlare per i traumi subiti e inizia a prendere lezioni della lingua dei sordi dall'insegnante Hélène. Con un stacco in montaggio, ci ritroviamo a seguire le vicende di Georges Laffont (fratello di Marcel) nell'Alto Volta e del suo rapporto di amicizia con Diofo. Il dipanarsi della vicenda di una sceneggiatura ricca di episodi, ma a tratti con soluzioni semplicistiche (come, ad esempio, il rapporto che nasce tra Georges ed Hélène; oppure la sequenza dell'incidente occorsa a Marcel) e una messa in serie che utilizza il montaggio alternato, parallelo, oppure i flashback che lentamente disvelano la complessa psicologia di Georges, l'unico dei tre fratelli che si salverà e riuscirà a rifarsi una vita. Il regista francese Emmanuel Courcol (classe '57, al suo primo lungometraggio e in prima mondiale) è molto bravo a utilizzare la macchina da presa: in particolare in esterno, con i campi lunghi e totali in funzione drammaturgica e per dare respiro all'immagine nell'azione oppure quando è in movimento (il plongée iniziale ti getta subito all'interno della trincea con un punto di vista che potrebbe essere quello di una bomba che cade dall'alto), trattando anche una materia ormai abusata e che non è sufficiente l'ambientazione post Prima Guerra Mondiale per rinnovarne i temi. Ma il risultato è piacevole, a tratti emozionante, e Roman Douris interpreta Georges in maniera intensa e partecipe. (AP)

Voto: 7

 

Concorso Internazionale

Kaze ni nureta onna (Wet Woman In The Wind) di Akihiko Shiota
 
wet_woman_in_the_wind_locarno_69Il decimo film del regista Akihiko Shiota è stato prodotto dalla Nikkatsu, antica casa di produzione del Sol Levante (attiva dal 1912) che, durante gli anni 70, proprio per rilanciare il cinema in crisi per lo strapotere della televisione, inventò il genere softcore definito "roman porno" ("roman" contrazione della parola "romantic"). Il roman porno ebbe i suoi anni d'oro fino alla fine degli anni 80 e, come ha dettagliato il regista durante la conferenza stampa al Festival del Film a Locarno, aveva poche regole ben precise: lavorazione di sette-dieci giorni, una durata massima di 80' e almeno una scena erotica ogni 10'; per il resto, l'autore aveva massima libertà espressiva. Accettando la sfida proposta dalla Nikkatsu, che, per festeggiare l'anniversario della nascita del genere, ha invitato cinque registi a dirigere un film (ci sono anche Sion Sono, Hideo Nakata, Isao Yukisada e Kazuya Shiraishi), Shiota ha scritto la sceneggiatura in soli sette giorni e ha girato il film in altrettanto tempo con un gruppo di giovani attori che all'epoca non erano ancora nati e non conoscevano questo genere. In particolare, il protagonista maschile Tasuku Nagaoka ha confessato di essere specializzato in film di azione e ha interpretato le scene erotiche come se lo fossero. Del resto, "Wet Woman In The Wind" è estremamente movimentato, e il confronto-scontro tra il commediografo Kosuke (Tasuku Nagaoka), isolatosi in un bosco vicino a un lago, per attraversare un periodo di crisi creativa ed esistenziale, con la ragazza apparsa dal nulla Shiori (la bella e brava Yuki Mamiya), appare come un lungo duello tra i due (anche nelle scene erotiche, dove il confronto corporeo è spinto allo scontro fisico tra i due personaggi). (AP) Leggi la recensione.

 

Piazza Grande

Jason Bourne di Paul Greengrass

jasou_bourne_locarno69Collocato in quella che a Locarno è la sede naturale delle produzioni più costose e popolari, "Jason Bourne" nuovo capitolo dedicato alle avventure dell'omonimo personaggio rischia di restare un eccezione non solo nell'ambito dell'intera rassegna ma anche all'interno del concorso della Piazza Grande che, considerati i titoli di quest'anno  si propone alla pari delle altre sezioni con una selezione tutta da scoprire. Ad eccezione appunto del film di Paul Greengrass su cui prima della proiezione erano riposte le aspettative di quella parte di pubblico festivaliero che seppur sposato alla causa del cinema impegnato ogni tanto ha bisogno di riprendere fiato rilassandosi con visioni più scanzonate e meno militanti. A costoro, lo diciamo subito le due ore di azione serrata e ipercinetica offerta da "Jason Bourne" non può fare che bene perché pur non ambendo a scalare le classifiche di preferenza dello spettatore cinefilo il film di Greengrass, tornato a dirigere la serie dopo la parentesi di "Bourne Legacy", (capitolo che per gli amanti della saga rischia di diventare in termini apocrifi il corrispettivo dello 007 interpretato da George Lazeby ("Agente 007 -Al servizio segreto di sua maestà") aveva in cartellone una serie di nomi non del tutto estranei al cosiddetto cinema d'essai; a cominciare per l'appunto dallo stesso regista, consacrato dalla critica con un film di denuncia come "Bloody Sunday", e proseguendo con quello di Tommy Lee Jones prestato al ruolo di Robert Dowey, il capo della CIA impegnato a ostacolare il ritorno a casa di Jason Bourne e anche lui non certo estraneo alle platee festivaliere, per non dire dell'altra new entry, la sempre più lanciata Alicia Wikander fresca di Oscar grazie a un film - "The Danish Girl" - promosso da un festival - quello di Venezia- che fa dell'arte cinematografica il suo vessillo distintivo. Insomma questo per dire che seppur con le stimmati del prodotto commerciale "Jason Bourne" offriva degli spunti per stimolare una curiosità a largo raggio di età e di gusti. (CC) Leggi la recensione.

 

Concorso Internazionale

Al Ma' wal Khodra wal Wajh El Hassan (Brooks, Meadows and Lovely Faces) di Yousry Nasrallah

nasrallah_locarno69L'incipit del film è la messa in scena dell'organizzazione di un pranzo ufficiale in un piccolo villaggio della provincia egiziana: un uomo d'affari vorrebbe comprare la benevolenza della gente e delle autorità locali per poter costruire nuovi quartieri con la promessa di scuole, ospedali e servizi vari. Ma fin dall'inizio si capisce che scorre una tensione sotterranea. Con un lungo flashback torniamo indietro di qualche settimana e la narrazione si sviluppa nel racconto di come siamo arrivati a questo punto: un matrimonio segreto agevolato da un famoso locandiere con l'aiuto del padre e del fratello, incontri amorosi e la preparazione del banchetto di un matrimonio, dove il cuoco si destreggerà tra la cucina, un amore in arrivo e uno lasciato, e la violenza dell'uomo d'affari che vorrebbe impadronirsi della locanda gestita dalla sua famiglia. Tra mélo, musical, commedia, una fotografia dai colori saturi e variopinti, una recitazione eccessiva e a tratti parodistica, l'anziano regista egiziano vuole raccontare con divertimento e un certo ottimismo (anche se venato da tragedia) la storia di una famiglia e quella di un intero paese. Il film non è esente da molti difetti: le scelte registiche a volte troppo insistite che dal mélo scadono nella parodia; la recitazione di alcuni interpreti non è all'altezza dei personaggi, forzata, eccessiva, piena di smorfie; infine, il mix di generi, non sempre ben amalgamate, ne fanno un'opera discontinua ed episodica con un finale fin troppo compiacente e velocemente risolto. Purtroppo "Al Ma' wal Khodra wal Wajh El Hassan" risulta un film che non porta nulla di nuovo al cinema contemporaneo e anzi si percepisce il sentore di obsolescenza. (AP)

Voto: 4

 

Concorso Internazionale

Hermia e Helena di Matías Piñeiro

hermia_e_helena_locarno69La storia di Camila, giovane argentina che va negli Usa per un periodo di studio è il cuore del nuovo film del regista Piñeiro. Camila è una regista teatrale alla ricerca di se stessa, tra amori contrastati, un padre che non ha mai conosciuto, ma soprattutto alle prese con la traduzione di "Un sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare. Con continui flashback e flashforward, il regista mette in scena una storia che sta tra i personaggi nevrotici e inconcludenti di Baumbach e un'atmosfera rohemeriana in un racconto morale in forma leggera. Tutto questo però porta a una difficile gestione della materia filmica, con una messa in serie non proprio perfetta, a tratti confusa, e comunque senza un vero nucleo narrativo né un forte tema che sorregga la narrazione, ma piuttosto una serie di episodi riuniti come un collage visivo, lasciando il compito allo spettatore di mettere ordine alle idee (non proprio chiare) dell'autore. Il risultato è deludente e non sono sufficienti le interpretazioni delle giovani e simpatiche attrici per rendere interessante un film che, tutto sommato, risulta noioso e senza alcuna originalità. (AP)

Voto: 4

 

Concorso Cineasti del Presente

Pescatori di corpi di Michele Pennetta

pescatori_di_corpi_locarno69Docu-fiction ambientato tra i pescatori di Augusta in Sicilia, il giovane regista Michele Pennetta al suo primo lungometraggio sceglie di parlare della tragedia sociale dei migranti. Certo nulla di nuovo sotto il sole dopo “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi e siamo nel solco ormai collaudato e diciamo anche di una certa maniera dello stile documentaristico sociale italiano ormai affermato nel mondo. La peculiarità che salva l’opera di Pennetta è la decisione di mostrare in modo indiretto la tragedia: ecco quindi in un montaggio parallelo, la doppia storia di un immigrato clandestino che vive su una nave nel porto e la vita di una nave di pescatori locali che solo alla fine saranno coinvolti in un allarme generale per il recupero di un barcone. Il regista italiano lavora quindi su metonimie, sull’assenza visiva dell’evento principale mostrando elementi secondari (le nave spiaggiate, la ricerca di oggetti di valore da parte del clandestino, la vita faticosa del mare), ma questo però non supportato da una certa urgenza nella messa in scena e montando un finale alquanto tranciante e poco convincente. (AP)

Voto: 6

 

Interviste

Intervista a Kristina Grozeva e Petar Valchanov autori di “Slava”

Abbiamo intervistato Kristina Grozeva e Petar Valchanov, registi di “Slava”, presentato nel concorso internazionale del 69° Festival del Film a Locarno. Secondo film della trilogia aperta da “The Lesson”, presentato Italia nel corso della scorsa stagione, “Slava” sarà distribuito il prossimo anno nelle nostre sale da I Wonder Pictures. Questo è quello che ci hanno raccontato. (CC) Qui potete leggere l'articolo.

 

Concorso Internazionale

Slava (Glory) di Kristina Grozeva e Petar Valchanov

slava_locarno69Gli eventi  descritti in "Slava" sono ispirati a un fatto realmente accaduto in Bulgaria qualche tempo fa, quando un operaio delle ferrovie dello stato si presentò ai propri superiori per restituire un ingente somma di denaro trovata per caso lungo i binari della ferrovia. L'onestà dell'uomo diventò un esempio per l'intera comunità al punto di trasformare il buon samaritano in una specie di eroe nazionale. Partendo dunque da un episodio di cronaca la sceneggiatura del film immagina (ma non troppo) che il clamore dell'avvenimento e l'attenzione ricevuto dalla stampa e dalla televisione altro non siano che lo stratagemma utilizzato dal sistema per sviare l'attenzione dalle accuse di corruzione e di malgoverno rivolte al ministro dei trasporti; la macchinazione messa a punto dalla spregiudicata Julia Staikova, responsabile dell'ufficio stampa del ministero, funziona però fino a quando Petrov - questo il nome del protagonista maschile - a causa di un orologio mai sostituito, cercherà di far valere le proprie ragioni inimicandosi coloro che ne avevano esaltato le gesta. Secondo atto di una trilogia dedicata a fatti ricavati da articoli di giornale, "Slava" mette in scena la corruzione del proprio paese attraverso una storia di relazioni umane in cui la distanza tra vittime e carnefici è più sottile di quello che sembra. Tra cinema sociale e noir esistenziale il film bulgaro denuncia ed emoziona tenendo lo spettatore incollato allo schermo fino al sorprendente finale. Candidato a un premio del palmares finale. (CC) Leggi la recensione.

 

Concorso internazionale

Correspondências di Rita Azevedo Gomes

correspondencias_locarno69Non è la prima volta che ci si chiede quale sia il confine oltre il quale il cinema smette di essere tale per diventare altro. Nel caso di un film come "Correspondencias" il quesito è lecito perché, nel raccontare del poeta portoghese Jorge de Sena, costretto all'esilio dal regime di Salazar, la regista e sceneggiatrice Rita Azeveda Gomez decide di ritrovarne il pensiero e soprattutto la poesia componendo un collage di immagini di diversa origine e formato. In questo modo l'audio con le parole del malinconico protagonista e della collega Sophia de Mello Breymer, con la quale il poeta intrattenne un epistolario ventennale, viene inserito all'interno di una cornice filmica che solo  per breve tratti risulta omogenea e che invece il più delle volte nasce dalla compresenza di materiale fotografico, filmini in super otto, reportage etnografici e paesaggistici, reading letterari e inserti di pura fiction. Se la struttura del film, di per sé frammentaria e volutamente anti narrativa, materializza attraverso la forma estetica le vicissitudini esistenziali del protagonista, individuate nella negazione di uno spazio unitario e coerente - la patria - a favore di un paesaggio umano e geografico parziale e discontinuo - i luoghi dell'esilio - rappresentato da interni di case e scorci di natura sempre diversi volti a richiamare l'esistenza raminga di de Sena,  "Correspondencias"  finisce per perdere le caratteristiche intrinseche del cinema per diventare video arte. Da qui la sensazione di trovarsi di fronte a un'opera fuori posto rispetto al concorso internazionale di un festival cinematografico e a cui magari gioverebbe l'esposizione in un contesto museale. Al contrario, nel cartellone di Locarno lo sperimentalismo della Gomez sembra un dejà vu estrapolato da Fuori Orario, la trasmissione curata da Enrico Ghezzi. Intellettualismo e maniera regnano sovrane. (CC)

Voto: 4

 

Concorso Internazionale

Ostatnia rodzina (The Last Family)  di Jan P. Matuszyński

the_last_family_locarno69Storia vera del pittore polacco surrealista Zdzisław Beksiński, nato nel 1929 e famoso per la sua pittura inquietante, seguiamo l'artista e la sua famiglia, la madre, la suocera, la moglie Zofia e il nevrotico figlio Tomasz nell'arco di trent'anni di vita familiare. Nell'incipit abbiamo il protagonista nel 2005 che racconta un sogno di morte al suo psicanalista, poi, dopo i titoli di testa, inizia un lungo flash back che parte dal 1975, anno in cui l'intera famiglia Beksiński si trasferisce a Varsavia in un appartamento di un palazzo di periferia. Lo sviluppo narrativo si muove con sbalzi in avanti, dove vengono messe in scene le vicende grottesche e il dramma e la commedia si mischiano: oltre alla descrizione dell'artista, con uno spiccato senso dell'umorismo ed estremamente egocentrico, è interessante il rapporto tormentato con il figlio che più volte tenta in suicidio (fino a riuscirci all'ennesimo tentativo). Divenuto un famoso Dj e doppiatore di film, Tomasz ha un rapporto conflittuale con le donne e in particolare con la madre, che al contrario è il baricentro di questa famiglia un po' particolare. Il tema forte del film è, prendendo spunto da vicencede reali, il senso della vita e soprattutto della morte: se ne andranno via tutti, in modi diversi, e per ultimo lo stesso Zdzisław in modo tragico rimasto solo con i suoi ricordi e la sua pittura. L'altro tema fondante della pellicola è l'utilizzo dei mezzi visivi, siano esse macchine fotografiche e videocamere, con le quali Zdzisław scatta foto e compie riprese continue della vita quotidiana della famiglia non solo nei momenti felici, ma anche tragici (come la morte dell'amata moglie), in un travaso continuo tra finzione e realtà, tra (re)interpretazione dei fatti attraverso la messa in scena e lo sguardo del regista. Troviamo quindi quasi una simbiosi e un allineamento di sguardo tra spettatore-regista-protagonista proprio quando lui si riprende in uno specchio o viene registrato dalla moglie, mentre, a suo volta, contemporaneamente, lui compie la stessa azione. La pulsione scopica del resto è quello che spinge il pittore per tutta la vita: non ama il contatto fisico (più volte tiene a distanza il figlio), ma ha una costante necessità, quasi fisica, di osservare e registrare tutto. Forse anche per questo motivo, il figlio si dedica, al contrario del padre, all'ascolto della musica, alla parola in radio oppure per i film e tenta vanamente di trovare l'amore perfetto (surrogato con quello contrastato con la madre, in un classico complesso edipico). Il giovanissimo regista polacco (nato nel 1984) Jan P. Matuszyński, alla sua prima esperienza con un lungometraggio, ha talento da vendere e già un'idea di cinema, in particolare per il senso del montaggio del tempo e dello spazio e il controllo della materia narrativa. Una piacevole sorpresa da seguire nel futuro. (AP)

Voto: 7

 

 Piazza Grande

 The Girl With All The Gifts di Colm McCarthy

the_girl_spSchermo nero e conto alla rovescia. La voce di una bambina che scandisce al buio una serie di numeri. Poi urla. Lei che si veste velocemente e si siede su una sedia di contenzione Entrano due militari in assetto di guerra e la legano stretta, conducendola in una classe sotterranea dove c'è un gruppo di bambini simili a loro. Colm McCarthy getta lo spettatore in questa prigione claustrofobica e  per i primi venti minuti della pellicola il dubbi di dove ci troviamo e in che momento storico rimane sospeso. Poi, abbiamo una svolta con il trasporto della bambina verso un laboratorio per essere vivisezionata e con uno scarto narrativo improvviso ci troviamo in un futuro distopico, in una base militare sotto attacco di un'orda di zombi. Nello sviluppo diegetico scopriremo che la ragazzina, di nome Melanie, è nata con la malattia che ha colpito l'umanità (questa volta si tratta di un fungo, le cui spore s'installano direttamente nel cervello per via area oppure per contatto immediato dopo un morso da persone infettate) e che trasforma in zombi gli esseri umani. Apertura con un horror movie in prima mondiale ma dal modesto respiro per un Festival blasonato come quello di Locarno. (AP) Leggi la recensione.

 

Un Festival di storie da vedere

Ci hanno lasciati da poco Michael Cimino e Andrzej Zulawski che appena lo scorso anno erano presenti a Locarno. Carlo Chatrian, direttore del Festival, dedica la rassegna di quest'anno al primo grande ospite scomparso e all'altro grande regista mancato in questo funesto 2016: l'iraniano Abbas Kiarostami.

Diventa difficile presentare la rassegna di questa edizione che, sulla carta, non ha grandi nomi di richiamo riconosciuti nel concorso internazionali, ma Locarno ci ha abituati a scoperte, sorprese, perlustrazioni in territori cinematografici alternativi e poco frequentati che hanno sempre rivelato dei piccoli gioielli e grandi film, facendo emergere nomi che poi in futuro si sono affermati. E, dunque, su cosa puntare nell'edizione numero sessantanove del Festival del Film di Locarno? Noi crediamo su due percorsi.

Innanzitutto, le storie. Mancando nomi riconosciuti, la narrazione diventa la cartina di tornasole per una scelta ragionata, andando a scavare nei soggetti dei film in concorso: dall'esilio volontario dalla propria terra o dalla propria vita, siano i protagonisti artisti in cerca di una rivalsa o di una nuova affermazione; scontri familiari sempre dolorosi che portano a inevitabili rotture; viaggi interiori o sul mare o all'interno di strutture chiuse ospedaliere; l'handicap come mezzo di comunicazione e risveglio di coscienze e conoscenze. Insomma un pot-pourri di tematiche forti, impegnate, complesse che potrebbero (ri)svelare nuovi registi con un grande respiro visivo.

L'altro percorso è la scoperta di cinematografie liminari come quella egiziana (Yousry Nasrallah), tailandese (Anocha Suwichakornpong), polacca (Jan P. Matuszyński), bulgara (Kristina Grozeva , Petar Valchanov); con tante coproduzione e ben due registi giapponesi (Katsuya Tomita, Shiota Akihiko). L'unica presenza italiana è quella di Tizza Covi che insieme all'austriaco Rainer Frimmel presentano il docu-fiction "Mister Universo", dove un giovane domatore di leoni intraprende con una scusa un viaggio in Italia alla ricerca di un ex Mister Universo con cui era legato in passato.

Dall'altra parte, in Piazza Grande si potrà vedere l'immancabile blockbuster americano con il ritorno di "Jason Bourne" di Paul Greengrass, ma tra i tanti film di diverse cinematografie è interessante notare che l'apertura del Festival è affidata al semisconosciuto giovane regista scozzese Colm McCarthy con una storia distopica e di genere, che, tra fantastico, horror, noir e melodramma, fa capolino in diverse pellicole. "Interchange" del malese Dain Iskandar Said in questo caso potrebbe rivelarsi una sorpresa (vedremo quanto positiva o negativa). E infine l'omaggio a Ken Loach con il suo "I, Daniel Blake", fresco vincitore della Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes, e al ritorno di Alejandro Jodorowsky con "Poesía sin fin" surreale autobiografia della sua giovinezza. Insomma, ancora una volta un festival da seguire con attenzione, nel suo ricco e variegato programma in tutte le sezioni.





Locarno 69: il cinema delle strade perdute