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Roma VII: l'inizio di una nuova era?

Il bilancio della settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, appena entrato nell'era Müller: anche con un piccolo confronto con la Mostra del Cinema di Venezia, possiamo leggere luci e ombre di una manifestazione che comincia ad avere una propria fisionomia. Ma il lavoro di perfezionamento sarà ancora lungo e faticoso. E rimanda il giudizio al prossimo anno.

Con il verdetto della giuria presieduta dal regista americano Jeff Nichols (classe 1978), che ha visto "Marfa Girl" di Larry Clark vincere il Marc'Aurelio d'Oro e l'inaspettato trionfo di Paolo Franchi (miglior regia) con la sua protagonista Isabella Ferrari per "E la chiamano estate", si è concluso il settimo Festival Internazionale del Film di Roma. La prima edizione della gestione Müller era iniziata con la famosa polemica con Gianni Amelio per l'avvicinamento del festival a quello di Torino, che quest'anno festeggerà i suoi primi 30 anni, ed era proseguita, nonostante il direttore romano abbia tagliato corto al riguardo, dicendo che non poteva fare altrimenti se voleva evitare che il "market" gli precludesse la possibilità di avere alcune anteprime mondiali (come "Bullet to the Head" di Walter Hill), anche con alcune pepate dichiarazioni di Alberto Barbera che, assemblando il cartellone veneziano con cura certosina, si era visto costretto a negare il concorso anche a qualche autore importante e a qualche amico. Si faceva intendere che a Roma restavano solo gli scarti, ma quali fossero i nomi in gioco non è dato saperlo.

Partendo da un confronto ravvicinato delle due manifestazioni italiane si può affermare subito che nella gara dei festival europei Cannes ha stravinto la partita. La 69. Mostra del Cinema di Venezia non si è fatta trovare impreparata di fronte alla crisi, con un concorso di tutto rispetto, sebbene gli addetti ai lavori abbiano sottolineato un evidente calo rispetto all'anno precedente: un'edizione sottotono, degna dell'austerity.
Che nel cinema si stia vivendo una crisi profonda e nerissima, nella quale anche realizzare festival di alto profilo sia un'impresa titanica, non è una novità. Il Festival di Roma si è quindi dovuto scontrare con problemi oggettivi: meno soldi da spendere, meno possibilità per accaparrarsi film importanti (poiché viene dopo i grandi festival europei e non offre la stessa prestigiosa vetrina), meno tempo, visto che Marco Müller ha firmato il contratto solo lo scorso giugno, avendo a disposizione solo un terzo del tempo che occorre generalmente. Il risultato è quello di aver visto trasportato a Roma la formula mülleriana della sua Mostra del Cinema di Venezia, mentre Barbera non ha ancora dato un'impronta personale, sopprimendo soltanto il Controcampo Italiano (effettivamente un ghetto) e sfoltendo la programmazione (solo diciotto le opere in concorso). Müller, oltre ai film che hanno gareggiato per il Marc'Aurelio d'Oro, ha creato la sezione CinemaXXI (che ha incorporato e sostituito idealmente l'Extra curato da Mario Sesti) e Prospettive Italia, ricostituendo quindi Orizzonti e Controcampo. Si nota, però, come una selezione dedicata al cinema di ricerca e sperimentale sia una creazione di Müller, visto che a Venezia Orizzonti era stato svuotato del suo significato, presentando film che potevano essere inseriti senza problemi nel concorso internazionale come "L'intervallo" di Leonardi Di Costanzo o "The Millennial Rapture" di Koji Wakamatsu. La sezione in collaborazione col MAXXI (il museo delle arti del XXI secolo) si è invece presentato con una programmazione variegata e interessante: i film premiati non hanno destato lo stesso scandalo dei premi del concorso, anzi, sono stati accolti come un azzeccato palmarès; inoltre, va ricordata l'anteprima internazionale di "Goltzius and the Pelican Company" di Peter Greenaway, quella mondiale di Julio Bressane con "O batuque dos astros" oltre che opere di estremo interesse come il realismo zen del gongfupian di "Judge Archer Liu Baiyuan" di Xu Haofeng, l'esperimento collettivo di "Tar", il visionario "Tasher Desh" di Q, ma anche un film sbagliato, come "Tutto parla di te", diviene importante per seguire il discorso sulla donna nel cinema della Marazzi.

I veri problemi arrivano quando si mette sotto la lente di ingrandimento la selezione del concorso internazionale: i bei film ci sono stati e per molti, che seguono la kermesse romana dal suo inizio, è il primo concorso ad avere un suo senso, una sua coerenza interna. D'altra parte è stato sempre il punto forte dell'attuale direttore artistico ma, forse, da Müller ci si attendeva di più, ci si attendeva troppo. Come detto, in quattro mesi non si possono operare miracoli, e l'aver messo in piedi un festival che sulla carta appariva interessante è già stata una piccola impresa, se rammentiamo che, le precedenti direzioni, avevano puntato essenzialmente sulle anteprime di richiamo, più l'apprezzabile lavoro di Sesti nella sua sezione, mandando avanti un Giano bifronte a metà tra la festa del cinema e la sagra di paese. Va da sé che il livello è stato mediocre e a salvarlo dal disastro c'hanno pensato proprio "gli amici" Miike, Fedorchenko, Muratova, To e l'esordiente regista di "Alì ha gli occhi azzurri", fortemente voluto dal direttore.

Ad affossare un lavoro che aveva una sua traballante dignità c'ha pensato la giuria presieduta da Jeff Nichols (probabilmente troppo giovane per fare il presidente) e che aveva come membri P.J. Hogan, Valentina Cervi, Timur Bekmambetov, Edgardo Cozarinsky, Chris Fujiwara e Leila Hatami. I premi assegnati, infatti, sono quanto di peggio si potesse fare: prendere i film più invisi a tutta la critica (soprattutto italiana, visto che Franchi ha avuto all'estero i suoi estimatori) e innalzarli a trionfatori del festival. L'immagine che si proietta deforma i valori in campo, anche se ci permette di aprire una piccola parentesi: la vittoria di "Marfa Girl", ennesima opera di Clark su adolescenti borderline che esprime solo vacue provocazioni che diventano misere esibizioni di genitali, o la mediocrità della sceneggiatura telecomandata di "The Motel Life", che finiranno presto nel dimenticatoio, non ci stuzzicano quanto i premi alle pellicole italiane. "E la chiamano estate" (premio alla regia e alla miglior attrice protagonista) e "Alì ha gli occhi azzurri" (Gran Premio della Giuria e Migliore opera prima o seconda) sono due diversi esempi di fare cinema: il secondo addentando la realtà, il primo evitandola per immergersi nell'interiorità dei suoi protagonisti. Giovannesi scrive avendo ben presente i personaggi e i luoghi che vengono raccontati, Franchi ha la pretenziosità intellettualistica di chi sfoga le proprie ombre volendo provocare con spudorato coraggiosi ma finendo per apparire fuori controllo e andando ben oltre le ridicolaggini del trash. Entrambi, parimenti, hanno conquistato delle giurie internazionali (Giovannesi due) e, pertanto, ci si potrebbe chiedere se è questa la via per un cinema italiano più proiettato verso l'esterno e meno provinciale, l'accusa capestro rivolta all'ultima Mostra del Cinema - e la domanda è stata posta a Nichols dal nostro Cerofolini in conferenza stampa. Se da una parte la risposta sembra semplicistica, dall'altra, visto il film di Franchi, addirittura inquietante. Di certo c'è che si è andati via dall'Auditorium con molte perplessità e non poche cose da recriminare: perché non a "Spose celestiali dei Mari di pianura" il Marc'Aurelio d'Oro o un premio collettivo al cast femminile? perché Johnnie To non considerato per la regia? La risposta ce l'avevano data soprattutto Jeff Nichols e P.J. Hogan: hanno scelto i film che li hanno divisi, quelli che hanno amato o odiato col medesimo fervore.
Se questi sono i risultati di questo modo di intendere il ruolo di giurato, forse è bene rivalutare il tante volte bistrattato "premio di compromesso".

Fatte queste considerazioni, Müller passa l'anno con il debito che dovrà colmare con l'ottava edizione. Il tempo a disposizione sarà pari a quello di tutti gli altri direttori artistici e si potrà dedicare senza fretta alla selezione e all'organizzazione della manifestazione: a quel punto, vi saranno ben poche scuse da accampare. Ci si augura, altresì, che anche da parte dei giornalisti (e di chi controlla le sale) ci sia maggiore serietà, evitando l'uscita e il rientro di decine di persone durante un'anteprima (scandaloso l'esodo per "Eterno ritorno: provini"), oppure il comportamento da asilo nido osservato nella prima proiezione di "E la chiamano estate" (sebbene i dialoghi non aiutassero).
 
Purtroppo è più facile migliorare le cose che le persone e, quindi, per il 2013 ci accontenteremo di poter partecipare a un festival di livello superiore rispetto a quello da poco conclusosi.  





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