Ondacinema

Speciale registi - Il miglior film di M. Night Shyamalan

Diventato celebre per i suoi colpi di scena, il regista di origini indiane nasconde ben altro dietro i suoi finali a sorpresa. Una ricerca sul cinema di genere e un tentativo di parlare delle nostre paure. Anche e soprattutto nel suo film più bello...

Riprendiamo il nostro viaggio nelle filmografie dei cineasti più influenti del nostro tempo. Lo facciamo tornando laddove ci eravamo fermati, ovvero a Hollywood, in quella terra di mezzo tra industria e provincia, fra mainstream e cinema indie, all'interno della quale sono cresciuti molti dei più influenti registi americani degli ultimi quindici anni. Come abbiamo fatto per gli appuntamenti passati, anche per il regista di origini indiane M. Night Shyamalan adoperiamo lo stesso metodo. Ossia, metà gioco, metà riflessione critica.

Il gioco è rimesso alla tecnica della classifica, alla scelta della nostra redazione di comporre una graduatoria di dieci film, dal meno bello al più bello, realizzati da un determinato autore. In questo caso, allarghiamo il discorso a un cineasta che di opere ne ha realizzate più di dieci e, dunque, scegliamo di escludere dal nostro elenco i lungometraggi che abbiamo ritenuto "prescindibili". La parte di critica è invece affidata ai singoli redattori di Ondacinema che, indipendentemente dalla loro scelta e dal loro personale primo posto, ci offrono una riflessione su uno dei film di cui stiamo parlando. Ne esce così un quadro composito della carriera di un regista molto discusso, che ha affrontato almeno quattro fasi diverse della sua vita artistica: gli inizi, acerbi, culminati con "The Sixth Sense", opera clamorosamente di successo, capace di lanciare Shyamalan addirittura tra i favoriti di una non troppo lontana notte degli Oscar. Fu lì che, invece di inseguire le facili sirene del blockbuster hollywoodiano, l'autore decise di proseguire con coraggio in un'idea di cinema personale e rischiosa. Ecco allora la seconda fase, quella dei grandi successi (più di critica che di pubblico, forse): "Unbreakable". "Signs", "The Village".

Da "Lady in the Water" la vena creativa del cineasta trova l'opposizione di produttori che non hanno molta voglia di perdere tempo e soldi dietro lungometraggi difficilmente spendibili sul grande mercato della distribuzione su vasta scala. Ci fu il passaggio dalla Disney alla Warner Bros. e una serie di flop gravissimi che minarono la credibilità del regista. Si arriva così agli ultimi due titoli: "The Visit" e il recentissimo "Split", film caratterizzati da un'inattesa libertà realizzativa, dovuta al ritorno a produzioni a bassissimo costo. Shyamalan, insomma, dimostra che ha ancora voglia di sperimentare, di rischiare in proprio, di mettere alla prova le sue convinzioni radicate sulla Settima arte.

Da sempre criticato come sceneggiatore, per alcuni incapace di dare spessore alle storie messe in scena con la brillantezza di un autore virtuoso e fantasioso, Shyamalan è comunque ancora vivo e vegeto nel mondo del cinema americano e lotta insieme a noi. La sua è una sorta di parabola con un biglietto di andata e uno di ritorno: dal mondo libero della provincia indipendente alla realtà "alterata" delle major e viceversa. Un itinerario difficile da decifrare e ingiustamente ridotto a quello di un cineasta furbo e con il solo obiettivo di stupire il pubblico.



10. AD OCCHI APERTI (Wild Awake, 1998)

occhiapertispeciale

Future inquietudini nascoste
Lo Shyamalan preWillis già copre di attenzioni particolari la minore età. "Ad occhi aperti" è un film a medioalta glicemia con bambini e per bambini, senza fantasmi, omini verdi, mostri notturni e zone d'ombra. Eppure, zitto zitto, si incardina con naiveté sugli argomenti che verranno: inesistenza di casualità e coincidenze, religione - o meglio fede(ltà) - incrinata, decifrazione di segni, importanza del vedere, tutti noccioli dell'edificante vicenda di Joshua, dieci anni e ferma volontà di rintracciare Dio nel mondo materiale per domandargli se l'adorato nonno morto di recente stia bene, ovunque si trovi. Non mero prodotto di allenamento ma storia per famiglie a tinte pastello, riconoscibile sì ma a posteriori, con i tratti di una poetica in nuce ancora inesplorata, lontana da ogni oscurità.
Matteo Pennacchia


9. AFTER EARTH (2013)

afterearthspeciale


8. LADY IN THE WATER (2006)

ladythewaterspeciale

C'è bisogno di Story
M. Night Shyamalan va incontro al primo vero flop che cambierà la sua carriera in negativo, propiziandone la fase discendente (da cui è uscito recentemente grazio alla collaborazione col produttore Jason Blum).  "Lady in the Water" non è però un film come un altro: progetto a cui il regista teneva particolarmente, iniziato come una semplice fiaba raccontata alle figlie, per alcuni si dimostra essere prezioso per la disarmante sincerità e per altri esiziale, considerando come la serietà dello sviluppo si intrecci a una storia che sa quasi di autoparodia del cinema shyamalaniano.
Ambientato per intero nel residence "The Cove" - nome non casuale - l'opera di Shyamalan racconta, nella maniera più esplicita possibile, portandosi dietro una buona dose di didascalica retorica, una classica fiaba, avendo due punti di riferimento cinefili: la Frontiera fordiana di "Ombre rosse" (entrambi i film costruiscono un microcosmo) e la suspense condominiale de "La finestra sul cortile". Quello che resta imprescindibile, come sempre quando si parla di questo autore, è la regia: Shyamalan sa sempre dove piazzare la macchina da presa, il suo occhio è formidabile e raramente banale, riuscendo a creare un'atmosfera di sospensione unica nel panorama contemporaneo. Pur con tutti i suoi limiti, il fragile equilibrio su cui si regge questo film infantile eppure così narcisista (il regista si ritaglia il ruolo dello scrittore-messia) non riesce a rompere la magia che, quando è ispirato, Shyamalan riesce a infondere alle sue pellicole.
Giuseppe Gangi


7. E VENNE IL GIORNO (The Happening, 2008)

vennegiornospeciale

Apocalisse di serie B
Due motivi, nei film di Shyamalan: uno fecondo, la famiglia; l'altro molesto, il coup de théâtre. Si vorrebbe l'uno senza l'altro, l'appassionato discorso parentale, senza il peso del pezzo di bravura. Ambizione da guardare con sospetto: a mancare, nel suo cinema, è anzitutto la coerenza, la sensazione di un progetto unitario, il pudore del limite. Nei migliori film di Shyamalan c'è tutto: il B-movie e la levigatezza formale, la regia classica e il suo voltarsi in parodia, l'orrore e l'inciampo nel ridicolo. Se "The Village" è il progetto più equilibrato, "E venne il giorno" è, forse, il metro del suo cinema. Sghembo e stilizzato, il film può vivere e maturare solo entro i confini di un'iconografia ricalcata su se stessa. L'assunto è folle e lucido: la camminata all'indietro come metafora di una regressione, che è, al contempo, unico veicolo di assestamento sociale. A farvi da contraltare, una messinscena artigianale ed eccentrica, che gioca al ribasso, e nel cui aspetto ordinario e sfilacciato è da leggersi il riflesso dell'assurdo che informa le pieghe di una realtà sull'orlo del precipizio.
Matteo Pernini


6. THE VISIT (2015)

thevisitspeciale

Bu Bu Settete!
In un battito di ciglio, la tensione di una situazione pericolosamente inquietante viene troncata di netto dal primissimo piano di un ragazzino che fa le boccacce guardando direttamente in macchina. In questo stacco brusco e inaspettato, che spezza la suspense e spiazza lo spettatore, risiede l'essenza di "The Visit", piccolo gioiellino del cinema di spavento che fa dell'imprevedibilità la propria cifra stilistica. Dopo i roboanti fiaschi formato kolossal di "After Earth" e "L'ultimo dominatore dell'aria", l'eterna promessa Shyamalan torna a confrontarsi con il suo genere più congeniale con la expertise del veterano. Ma con il graffio autoriale che gli è proprio, si diverte a rivisitare codici e immaginari classici per dare vita a uno squisito divertissement orrorifico che non rinuncia mai a stupire e a disattendere ogni aspettativa, con un tocco di genialità perversa, alternando toni e registri senza soluzione di continuità, come nella giostra impazzita di un circo degli orrori.
Stefano Guerini Rocco


5. SPLIT (2016)

splitspeciale

La necessità aguzza il plot twist
E' raro che si rifletta sul costo di un film. Che oggetto diventa un film che costa più di 100 milioni di euro, quali logiche deve seguire? Gli unici due film veramente brutti di Shyamalan - After Earth e The Last Airbender - sono gli unici due costati più di 100 milioni di euro. Il miglior film da lui girato negli ultimi dieci anni - Split - è costato meno di 10 milioni. Una cifra ragionevole, soprattutto a fronte di un incasso di venti volte tanto. Il set è limitato e gli effetti speciali assenti, ma per un horror psicologico questi due elementi sono dei vantaggi. Due bravi attori danno senso al film: il buon McAvoy (X Men, Wanted) ha l'occasione di dare la migliore interpretazione della sua carriera, e Anya Taylor Joy (Witch) si conferma attrice capace di personaggi complessi. La trama è ben scritta - vedi tutta la storia delle magliette, che all'inizio sembra una gag... - la regia non virtuosa ma efficace. E allora ben tornato Shyamalan, viva la Blumhouse e viva il cinema emozionante.
Alberto Mazzoni


4. SIGNS (2002)

signsspeciale

E di' a Merril di colpire forte
Forse Joshua, il bambino protagonista di "Ad occhi aperti", c'era già arrivato: nella vita bisogna saper cogliere i segni, il sovrasenso celato dal piano letterale, lo straordinario contenuto nell'ordinario. C'è qualcosa, oltre a ciò che ci circonda, un fine ultimo intuibile ma incomprensibile (o che, solo attraverso un twist sorprendente e impronosticabile, svela la propria essenza). "Signs" è l'apice emotivo di una filmografia estremamente coerente nella sua inafferrabilità, un saggio di regia cinematografica a metà tra Hitchcock e Spielberg - guardate la lunga scena ambientata nella cantina: un capolavoro di tensione grazie al geniale uso del fuori campo, delle luci e delle ombre, dei rumori improvvisi e dei respiri affannati - innestato in un racconto doloroso, intimo e toccante. "Signs" è la chiave ermeneutica per la ricostruzione della complessa Weltanschauung di Shyamalan e, insieme, una straordinaria dichiarazione di poetica: così come bisogna vedere oltre il caos apparente della realtà, allo stesso modo bisogna vedere al di là del dato puramente estetico e materiale della messinscena. Ad esempio, facendo molta attenzione a quel movimento di macchina finale: dopo la ripresa dell'esterno, non è uno stacco di montaggio a immortale l'interno - come invece avviene all'inizio della pellicola - ma un fluidissimo piano-sequenza, che letteralmente spezza ogni equilibrio spazio-temporale. Nel cinema di Shyamalan, è bene ricordarlo, le coincidenze non esistono.
Emanuele Richetti

Segni di una splendida tradizione
Dopo avere rischiato di essere bollato come il regista dei colpi di scena, spesso criticato per un eccessivo autocompiacimento registico, a scapito della cura nei dettagli di sceneggiatura, Shyamalan arriva al suo quinto lungometraggio con una carica di ambizione e voglia di cambiare evidenti. "Signs" è fantascienza nostalgica, che guarda al passato, da Don Siegel a Steven Spielberg, ma al tempo stesso rilegge la definizione stessa di racconto gotico. Alla luce del sole, in pieno giorno, in aperta campagna: il dramma sci-fi si innesta nella crisi familiare dei contadini Hess, divisi fra materialismo pessimista e fede religiosa. Non c'è, stavolta, un finale a sorpresa: o meglio, l'incedere narrativo ci sorprende nel suo arrivare a un mesto lieto fine. La fantascienza del nuovo millennio che Shyamalan ci presenta è il pretesto per fotografare l'alba di un'epoca colma di paure e di bassi istinti incontrollabili.
Giancarlo Usai


3. THE SIXTH SENSE - IL SESTO SENSO (The Sixth Sense, 1999)

thesixthsensespeciale

Il trucco è davanti a noi
La madre del piccolo Cole entra in casa e vede il figlio seduto in silenzio. Lo chiama e lo porta fuori campo, mentre in scena rimane il dottor Crowe che ha osservato tutto senza dire nulla. Questa è una sequenza, da "Il sesto senso", che, più di ogni altra, rende al meglio il senso del cinema di M. Night Shyamalan. Il regista gioca a carte scoperte. Il suo marchio di fabbrica più noto, il twist ending, è posto davanti allo spettatore, senza mai imbrogliare, almeno nei film più riusciti. "Il sesto senso" è la pellicola che ha dato la notorietà a Shyamalan e risulta programmatico in molte scelte di forma e contenuto. La città di Filadelfia farà da sfondo a molte altre storie, il richiamo religioso pure. La regia non è mai invasiva, ma scandita da classici campi controcampi e rari primi piani, poca colonna sonora e una fotografia plumbea, dai colori poco accesi. Le storie dei personaggi sono molto spesso attraversate da un'autentica angoscia che mette a nudo il male di vivere e la solitudine umana. Le prime pellicole sono state folgoranti e hanno saputo rileggere molti generi, dopo alcune opere mediocri Shyamalan sembra aver ripreso la strada verso un cinema più personale.
Alessandro Corda


2. UNBREAKABLE - IL PREDESTINATO
(Unbreakable, 2000)

unbreakablespeciale

Il sesto (super)senso
A 17 anni di distanza l'esplorazione condotta da M. Night Shyamalan nel territorio del fumetto si conferma una tra le più feconde mitografie cinematografiche del supereroismo del XXI secolo. Come nel precedente "Il sesto senso", si indaga il paranormale e il peso di quest'ultimo sui destini personali, ma ad arricchire questa variazione sul tema (una ulteriore sarà in "Lady in the Water") contribuiscono in maniera decisiva la scelta di campo operata rispetto allo statuto del sottogenere supereroistico e il conseguente impianto estetico-narrativo prediletto. Per raccontare la genesi del Superman interpretato da Bruce Willis, non si ricorre al canone Marvel o DC, che viene destrutturato dall'interno, ma a una poetica composta e classicheggiante, in funzione della quale l'interiorità dei personaggi conta più del gesto acrobatico e spettacolare, quasi del tutto assente in "Unbreakable". Imbevendo il fantastico nel realistico, Shyamalan riabilita i poteri semantici (l'antagonismo e il parallelismo, ad esempio) dei tipici film del genere e dimostra, a sua volta, un senso d'autore che raramente ritroverà lungo la sua carriera.
Alessio Bottone


1. THE VILLAGE (2004)

thevillagespeciale_01

La paura dentro e fuori
Se è vero che Shyamalan verrà universalmente ricordato dal pubblico per quello che si rivelò il suo più grande successo professionale, "Il sesto senso" ("vedo la gente morta" è un tormentone intramontabile), il punto più alto della sua discontinua carriera autoriale ebbe luogo in una foresta e in un villaggio adiacente del XIX secolo, un microcosmo immaginario della "sua" Pennsylvania. "The Village" è uno straordinario trattato sulla paura, una favola che si appresta, a seconda della prospettiva da cui la si osserva, a un'analisi socioculturale della politica bushiana o a un allegorico percorso di formazione e crescita personale, in puro stile spielberghiano (non a caso il regista indiano indugia molto sulla psicologia dei bambini e dei giovanissimi, come la bella Ivy). La parabola favolistica si intreccia con l'horror, con il thriller fino alla decisiva rivelazione (cavallo di battaglia dell'autore, come ne "Il sesto senso") consegnando un'opera estremamente matura, la sua più compiuta. Una luce accecante prima che il buio pesto torni a ripiombare sulla filmografia del regista, tra flop commerciali ("Lady in The Water") e pellicole di rara bruttezza ("L'ultimo dominatore dell'aria").
Matteo De Simei

Il timore necessario alla politica
Quando, dopo il trauma subito dall'Occidente nel Settembre 2001, il cinema è chiamato, per una sorta di tacito dovere che da sempre accompagna la produzione artistica, a metabolizzare il dolore di una nazione in lutto, Shyamalan vede nel genere thriller-horror un mezzo vincente per analizzare i mali e le angosce della società contemporanea.
Ecco allora che la grande potenza occidentale si trasforma metaforicamente in un piccolo villaggio su cui incombe la minaccia di un male spietato, che colpisce dall'esterno e che conduce alla paura e all'isolamento forzato.
Ma, sapendo andare oltre alla contingenza dei fatti storici più contemporanei, la favola del regista indo-americano si configura come la tematizzazione di una delle caratteristiche universali di ogni comunità politica esistente, ovvero la sua necessità di costituirsi attorno a un timore comune e di contrapporsi a esso. Ciò che da sempre lega gli uomini in una koinè non è altro se non l'angoscia verso ciò che si configura come diverso, come alterità: collante paradossalmente più efficace rispetto al vantaggio positivo a cui l'unione di più individui può portare.
Eugenio Radin

Il villaggio al di fuori del mondo
Per tenere fuori le paure del villaggio globale bisogna rifugiarsi nell'isolamento del passato. Ma la paura è esorcizzata con altro diverso tipo di terrore: che differenza c'è tra il suo racconto e la pratica? Nessuna, sembra dirci il regista anglo-indiano, e la strada - pardon, il bosco - che conduce alla perdizione dei valori, che si vogliono tenere al riparo, è piena di buone intenzioni che rendono ciechi i personaggi. Letteralmente, se la protagonista della favola moderna è veramente priva di vista come in metafora lo sono tutti. Ma in un mondo dove regna la cecità della ragione solo chi possiede i mezzi di riproduzione (di massa) può svelare l'arcano costruito ad arte. Tra archetipi, simboli, iconografie popolari, Shyamalan riesce a costruire un meccanismo di controllo della psiche umana indagandone la genesi dal di dentro, instillando il dubbio nello spettatore che tutti viviamo in un villaggio isolato (caverna platonica) circondato da una fitta coltre di pregiudizi. La conoscenza è per pochi e per gli altri resta l'ignoranza (auto)castrante.
Antonio Pettierre

Fiabe morali per il villaggio (globale)
Abituato al mutare di opera in opera dei contesti nei quali il suo beniamino ambientava le proprie narrazioni il pubblico del regista indo-americano non dovette stupirsi molto dell'ambientazione rurale e tardo-ottocentesca di "The Village", tanto meno del già allora prevedibilissimo plot twist che anticipa l'ultimo segmento. Ma Shyamalan, compreso di essere a rischio maniera, ridusse quest'ultimo a mero tassello tra i tanti che conduce a una ben più consistente rivelazione. E questa si accompagna al valore metacinematografico del colpo di scena e rafforza e chiarifica la metafora sottostante il film. Metafora evidente fin da subito e quasi risibile nella sua semplicità, eppure, forse proprio per questo, adattissima 13 anni fa come (se non più) ora. Modelli sociali diversi che convivono, l'onnipresenza e la necessità dell'irrazionale e di qualcosa che lo sostanzi, la speranza come primo motore dell'agire umano, etc...
I due film precedenti lo suggerivano già, "The Lady in the Water" e "The Visit" lo grideranno ad alta voce. Tanti volti per la medesima fiaba.
Matteo Zucchi