Ondacinema

Speciale registi - Il miglior film di Baz Luhrmann

L'australiano che ha reinventato il genere musicale e sentimentale ha conquistato Hollywood con un prodigioso lungometraggio che sfida il senso comune del buon gusto. Ecco le nostre scelte e le nostre impressioni

Confondere, mischiare, frullare, sperimentare e poi ricreare. Sono tutte azioni tipiche del cinema pazzo e irregolare di uno dei registi che Hollywood ha incredibilmente accolto nella sua industria mainstream nonostante la sua arte di mainstream abbia veramente poco. Stiamo parlando dell'australiano Baz Luhrmann, l'uomo che ha riportato in auge nel nuovo millennio il genere musicale e anche quello sentimentale.

Partito dal suo Paese con un'ossessione per scenografie, costumi, coreografie e luci di scena, Luhrmann ha presto abbandonato le sue velleità da attore per dedicarsi a rappresentazioni teatrali di grande successo, tutte caratterizzate da alcuni elementi imprescindibili. In primo luogo, l'ispirazione classica e colta, la presa a modello di illustri esempi del passato; in secondo luogo l'attualizzazione di questi soggetti, l'ardita trasposizione in un contesto contemporaneo, sfidando il kitsch e le possibilità della coerenza narrativa. E infine, una naturale predisposizione per il melodramma, meglio se accompagnato da un apparato sonoro che ne amplificasse la portata emotiva. E così, dopo il successo del suo primo lungometraggio in Australia, quel "Ballroom" che altro non era se non un adattamento cinematografico di una sua opera teatrale, Luhrmann ci ha messo poco per volare in America e continuare, in assoluta coerenza e indipendenza a professare questa sua follia artistica.

Il frutto di ciò è noto. Prima ci fu il suo blasfemo "Romeo + Giulietta", che del celebre testo shakespeariano riprendeva fedelmente i testi, stravolgendone tutto l'impianto scenico, ambientando la vicenda in una futuribile Verona Beach, sostituendo le spade con le armi da fuoco e divertendosi con una cura maniacale di costumi e scenografie per creare un universo parallelo postmoderno. Poi arrivò "Moulin Rouge!", fusione a freddo di quanto visto nei suoi primi due film: il musical di "Ballroom" e il mèlo di "Romeo + Giulietta" presi e impiantati nel locale simbolo della Parigi di fine Ottocento. I suoi due ultimi lavori si sono in realtà "normalizzati". Mantenendo ancora una perizia da virtuoso della messa in scena stupefacente, Luhrmann sta lentamente diventando un vero e proprio rappresentante della Hollywood industriale. E dimostrazioni tangibili di ciò sono "Australia", intenso dramma amoroso omaggio alla sua patria e alla sua musa Nicole Kidman, e "Il grande Gatsby", con cui è tornato a lavorare con Leonardo DiCaprio.

Perché abbiamo scelto questo regista nel nostro percorso speciale che vi sta guidando nelle filmografie dei più influenti registi contemporanei? Perché nonostante sia poco rinomato in Italia e i suoi film non siano certo quelli che suscitano maggiori discussioni, Luhrmann porta avanti una precisa concezione della Settima arte, ponendosi addirittura in posizione di sfida rispetto ai canoni pre-imposti del mondo in cui opera. E ora facciamo spazio alla nostra classifica a posizioni invertite. Noterete una netta concentrazione di pillole nel film primo classificato, il che vuol dire che in redazione, se non si è trattato di un plebiscito, poco ci è mancato.


5. BALLROOM - GARA DI BALLO (Ballroom, 1992)

ballroom_luhrmann


4. AUSTRALIA (2008)

australia_luhrmann


3. IL GRANDE GATSBY (The Great Gatsby, 2013)

gatsby_luhrmann


2. ROMEO + GIULIETTA DI WILLIAM SHAKESPEARE (William Shakespeare's Romeo + Juliet, 1996)

giulietta_luhrmann.

Adattare Shakespeare for dummies
Ciò che dice la classifica è difficilmente sindacabile: è in "Moulin Rouge" che gli elementi melodrammatici e la barocca estetica musical del regista convergono in maniera più equilibrata e sensata. Eppure ritengo sia ingiusto non attribuire all'adattamento shakespeariano del ‘96 un ruolo capitale nella filmografia dell'australiano, indipendentemente dal fatto di aver creato uno standard nella modernizzazione della mise en scène delle opere di Shakespeare (cosa ben più criticabile del film in sé). Difatti sequenze a dir poco memorabili, come il long take sul morente Mercutio oppure le tinte foschissime del finale, comprovano il valore di quello che probabilmente è il più conscio e maturo adattamento del "Romeo e Giulietta", dimostrando che Luhrmann è stato uno dei pochi cineasti in grado di interpretare il Bardo in maniera vitale e non meramente (e facilmente) calligrafica. Non è poco. E pazienza per l'onnipresente kitsch: probabilmente al barocco William Shakespeare non sarebbe neanche dispiaciuto così tanto.
Matteo Zucchi

Romeo + Giulietta: la pillola

Dimenticatevi Tarantino - il film anni 90 definitivo è l'opera seconda di Baz. In quel decennio tutta una serie di fenomeni di nicchia/massa venivano sussunti dalla cultura pop: il postmoderno, la scena queer, il consumo di droghe più o meno sintetiche, la musica crossover. Anni in cui niente era più cool di essere a disagio, e anche e soprattutto anni di profondo romanticismo. Ecco quindi uno Shakespeare assolutamente fedele nel testo ("Ask for me tomorrow and you shall find me a grave man") e assolutamente traditore nelle immagini. Il monologo della regina Mab è recitato da un Mercuzio "queen" su un palco cadente su una spiaggia, mentre propone a Romeo di prendere MDMA, ma non una parola è stata alterata ("Peace, peace, Mercutio, peace! Thou talk'st of nothing"). La colonna sonora, inevitabilmente, era un capolavoro a sé stante, tra gruppi sconosciuti (One Inch Punch?), Des'ree, Garbage e dei Radiohead ancora ai primi passi e già geniali. E poi quel ciuffo. Di che far tremare la mia eterosessualità adolescente...
Alberto Mazzoni


1. MOULIN ROUGE! (2001)

moulin_luhrmann

Parigi cult
Con Moulin Rouge!, Parigi non è mai stata così colorata, eccentrica, trasgressiva e finta allo stesso tempo. Il tutto grazie all’occhio visionario del regista australiano, già sperimentato nelle due opere precedenti, che trova in questo film un’ispirazione e una compiutezza che fa diventare il film da subito un cult dei primi anni duemila. Moulin Rouge! ridà linfa al genere del musical, ispirandosi a La Traviata di Giuseppe Verdi, e ci offre una serie di rivisitazioni di pezzi storici di musica pop: da David Bowie a Madonna. La riuscita è data anche dallo stato di grazia degli attori, Nicole Kidman è ai massimi livelli della sua carriera e Ewan McGregor non è da meno. Qualche anno fa con la scena della festa del Grande Gatsby, Luhrmann ha rievocato i fasti parigini, offrendoci una rivisitazione personale del capolavoro di Fitzgerald. Quest’ultimo film sfiora, senza superare, il cult parigino.
Alessandro Corda

Vedere (e ascoltare) l’impossibile
 Il delirio iperbarocco di Luhrmann incrocia melò e musical in una trita storia d’amore cui non ci si può seriamente appassionare. Il segno lasciato dal film sta tutto in superficie: nelle iperboliche scenografie come nei rocamboleschi movimenti di macchina fuori e dentro Montmartre. Oggi, assuefatti agli esiti estremi della prassi postmoderna di trituramento delle fonti, è difficile capire la sorpresa che il film costituì con la sua colonna sonora pop-rock anacronistica (nei 15 anni che ci dividono da ‘Moulin Rouge!’ anche questa prassi si è rapidamente logorata, da ‘Marie Antoinette’ a ‘Watchmen’). Se con gli anni rivela i suoi limiti, il film rimane uno degli episodi chiave di un periodo in cui, con l’avvento del digitale, si iniziarono ad estremizzare le due anime del cinema, quella contemplativa da un lato (il digitale aprì nuove frontiere di adesione alla realtà) e quella visionaria dall’altro (il digitale rende possibile vedere l’impossibile).
Stefano Santoli

Fedele al passato, desideroso di futuro
Ci sono film che, al netto dei gusti personali, meritano un riconoscimento oggettivo, quello di rappresentare un'unicità irripetibile nella storia del Cinema. Di questo si può parlare quando si ripensa a "Moulin Rouge!", il lungometraggio più bello, ispirato, riuscito e importante della breve filmografia di Baz Luhrmann. In poco più di due ore, traendo una vaga ispirazione dall'opera di Puccini, il cineasta australiano condensa tutto il suo credo artistico: il rifiuto delle regole, la sfida al senso comune del buongusto, l'amore sfrenato per la musica pop, capace di adattarsi a ogni tipo di storia raccontata. E poi, un ideale di narrazione romantica da rispolverare e troppo a lungo dimenticato; sì, perché "Moulin Rouge!" è anche e soprattutto sentito e appassionato omaggio al melodramma hollywoodiano, a quel sentimento amoroso più forte delle avversità, del destino, delle differenze sociali. Ed è questo che rende il film una pietra miliare del nuovo millennio.
Giancarlo Usai

Postmodernità tra musica e immagini
Immagine Movimento deleuzeiano in un tour de force nei primi trenta minuti di un maelstrom visivo e sonoro e scenografico di un’opera che reinventa il musical, il mélo, il dramma, il comico, lo storico, tra fonti alte e basse, ispirazioni teatrali pucciniane e verdiane e musica pop e rock anni 80 e 90, mixato con danze della Belle Époque, Tango, Can Can, Valzer, Moderne Jazz. Scene barocche e costumi e accessori sgargianti, surreali, iperrealista visione da assenzio cinematografico. Il tutto con una grande Nicole Kidman che, bellissima, recita, canta, balla. Un esempio ormai classico di cosa vuol dire cinema postmoderno in apertura del nuovo millennio. Semplicemente miele per la vista e l’udito dello spettatore.
Antonio Pettierre

Meltin-pop
Cinque anni dopo il "Romeo + Giulietta di William Shakespeare" Luhrmann impasta un altro dramma sentimentale che riprende il musical del suo film d’esordio. Nella Parigi tra fine Ottocento e inizio Novecento si consuma una storia d’amore ispirata a Verdi e Puccini, che si innesca grazie a un equivoco e poi divampa, alimentata dal circo notturno del Moulin Rouge. Il Moulin Rouge è la corte di un regno fuori dal tempo, avvolto nel blu della notte parigina e tinto dal rosso della tormento amoroso, illuminato dalla bellezza fragile di Satin e dall’esplodere pirotecnico dell’immaginazione. La scenografia e i costumi sono premiati con l’Oscar, ma il tratto forse più originale - e surreale - è la colonna sonora, un coraggioso "meltin-pop" che reinterpreta successi di Beatles, Beck, Bowie, Elton John, Madonna, Queen, Sting, U2, Wainwright, per dirne alcuni, memorabile il can can sulle note di "Lady Marmalade" e "Smell Like Teen Spirit". Prima che cali il sipario la pistola vola via dalla finestra e in coerente direzione surrealista colpisce la tour Eiffel. Sorprendono molto di più le doti canore di Kidman e McGregor.
Lorenzo Taddei

Ma che cce frega ma che cce 'mporta…
Rivitalizzatore di un genere quasi dimenticato, il genio eccentrico di Baz fonde la joie e le mal de vivre, la malattia di Violetta e le folli notti del can-can, in una tela di cui non è pittore Toulouse-Lautrec ma un Pollock che assimila cineserie, indianate da marajah, musica pop e pure Erik Satie. Birichinamente eterodosso, completa la (più fedele) disamina del French Can Can di Jean Renoir e anche l’agiografia un po’ demodé di John Huston. Evviva la libertà!
Piero Calò

A story about love
E che altro, dopo Shakespeare tra i Latinos? Per molti: uno sgarbo, un insulto, il bardo che si rivolta nella tomba - come se già gli Zeffirelli non ne avessero fatto una trottola. Luhrmann non cede e punta ancora il bersaglio grosso: Giuseppe Verdi. L'esito è una Traviata al Moulin Rouge con Toulouse-Lautrec tra i caratteristi e Madonna alla console. E mentre Violetta (qui Satine) plana seducente dal cielo per ricordarci - come la Marilyn di Hawks - che Diamonds Are a Girl's Best Friend, Alfredo (qui Christian) non smentisce la sua fama di babbeo. Il plot è essenziale, le maschere immutabili. Che entriate, mesdames et messieurs, al principio o nel mezzo di quest'incubo carnascialesco di lustrini e paillettes poco importa, sarete comunque travolti dai suoi colori, suoni, ritmi, riflessi in una irrefrenabile orgia del kitsch più fiero. Luhrmann l'eccessivo, Luhrmann il barocco, Luhrmann il visionario mette a punto il suo film più esemplare - se non il più bello, ma a poco valgono i criteri consueti per un cinema siffatto, ognuno ha il prediletto - e che si risolve in un delirio sovraccarico, nel rimpianto che la vita non sia, in definitiva, il sogno allucinato di un poète maudit.
Matteo Pernini