Ondacinema

Sembra ieri quando un giovane e irriverente regista americano frantumava la concezione di postmoderno con un thriller e una black comedy che sapevano di rivoluzione. Ora in occasione dell'uscita del suo ultimo film "The Killer" vi riproponiamo lo speciale dedicato alla carriera di un autore di classe raffinata

Nato a Denver, classe 1962, David Fincher è anche lui uno dei massimi esponenti di quella generazione di autori hollywoodiani esplosa negli anni 90, proprio come gli altri cineasti di cui ci siamo occupati nei mesi scorsi nella nostra rubrica. Apparentemente più strutturato, quanto a connessioni con l'industria delle major, rispetto a suoi colleghi come Paul Thomas Anderson, Wes Anderson, Darren Aronofsky o Sofia Coppola, forse tutti più facilmente definibili registi "indipendenti", Fincher ha, semmai, un peso specifico maggiore, dal punto di vista autoriale, proprio per la sua capacità, dimostrata a più riprese, di saper portare avanti un discorso coerente relativamente alla messa in scena visiva e alla narrazione filmica di assoluta originalità, nonostante la presenza ingombrante delle produzioni magniloquenti, delle star o degli investimenti milionari sui suoi film.

Già entrato nel cerchio degli autori che hanno firmato una pietra miliare della nostra collezione, Fincher ha una filmografia già piuttosto corposa: dieci titoli, se si esclude un semi-sconosciuto documentario di inizio carriera. Affascinato come pochi altri suoi coetanei dalle sperimentazioni che la cinematografia "di genere" consente, il suo stile è andato ripulendosi e facendosi più compassato nel corso degli anni. Dal furore dei suoi esordi alle opere più eleganti e sobrie della maturità, si tratta di un cineasta che non rinuncia mai ai suoi marchi di fabbrica: il montaggio virtuoso, il fascino del paradosso, l'ironia nera che si spande su qualsiasi vicenda. E attraverso questi vezzi, Fincher continua a narrare l'America contemporanea con una lucidità e al contempo con un distacco che ne fanno un osservatore privilegiato della realtà circostante.

Il meccanismo del nostro speciale è il medesimo delle puntate precedenti: analizziamo questo autore attraverso una classifica che la redazione ha stilato dei suoi dieci film, ordinandoli dal meno al più bello. E in aggiunta, ogni redattore scrive una "pillola" personale sul lungometraggio che ha votato nella sua graduatoria individuale, cercando di spiegarci perché, a suo giudizio, è proprio quello e nessuno degli altri il titolo più meritevole di essere considerato il migliore.

L'esito pende a favore del thriller miliare, "Seven", l'opera che già in precedenza è stata per l'appunto inserita fra le pietre miliari di Ondacinema, ma possiamo dirvi già da ora che il secondo e il terzo piazzato sono davvero vicini e non si sta parlando di grosse differenze di valore. Da una parte "Seven", appunto, e "Fight Club", suoi capolavori d'inizio carriera, dall'altra "The Social Network", opera che rappresenta il manifesto di come il cinema di Fincher è maturato negli anni, fino a raggiungere una consapevolezza tale da potersi avvalere anche di sceneggiature complesse come quella firmata da Aaron Sorkin.

Fanalino di coda c'è "Il curioso caso di Benjamin Button", l'ambizioso kolossal sentimentale favolistico con cui Fincher ha inseguito un immaginario hollywoodiano classico, cercando di omaggiare alcuni maestri del passato partendo da una novella di Fitzgerald, sconfinando forse in territori non congeniali al suo autore.


10. IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON
(The Curious Case of Benjamin Button, 2008)

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9. ALIEN 3 (1992)

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8. PANIC ROOM (2002)

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7. MILLENNIUM - UOMINI CHE ODIANO LE DONNE (The Girl with the Dragon Tattoo, 2011)

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6. THE GAME - NESSUNA REGOLA (The Game, 1997)

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5. ZODIAC (2007)

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Il cambio di marcia dello zodiaco
Presentato a Cannes nel 2007, Zodiac segna un prima e un dopo: una cesura netta e marcata nella filmografia di David Fincher tra i film degli anni 90, dirompenti e sperimentali, e quelli del nuovo millennio più complessi e controllati. Dopo aver raccontato, con mirabolante capacità visiva, i sette vizi capitali e la violenza di un "Fight Club", Fincher cambia registro e lascia il male fuori campo, seguendo unicamente le indagini di due giornalisti. La capacità di raccontare il male, morale e materiale, e di fotografare gli ambienti, illuminati con luci fredde, rimane coerente e con Zodiac il racconto diventa più maturo e stratificato. Non è più solo intrattenimento, ma una complessa riflessione sulle conseguenze del male nella società e sulla utilità/inutilità delle nostre azioni nel corso del tempo. E il finale con Jake Gyllenhall in cantina gioca con le paure ancestrali dell’uomo. Dopo questo film tutto non sarà più come prima, il cinema del regista di Denver volerà sempre più alto fino a raccontare come il male possa lambire il nuovo millennio nei social network e alla Casa Bianca.
Alessandro Corda

Vivere e morire a San Francisco
Decidendo di filmare un'indagine impossibile, quella che a partire dall'estate del '69 impegnò la polizia di San Francisco nella caccia ad uno dei serial killer più mediatici della storia criminale americana, David Fincher compie l’ultimo atto di una rilettura del genere thriller che da Seven a Zodiac interiorizza le conseguenze della pratica omicida, non più fautrice di pulsioni cinetiche e spettacolari ma occasione per spalancare le porte a un esistenzialismo cupo e ossessivo, volto a delineare una filosofia della sconfitta che non lascia speranze. Un incubo ad aria condizionata in cui pathos emotivo e tensione drammaturgica sono raggelate dalla perfezione formale delle inquadrature che, nella prima parte di Zodiac, mettono in scena una metafisica del male come non si ricordava dai tempi dello Shining kubrickiano. Non esente da difetti, Zodiac si distingue anche per la capacità di trasformare le sue mancanze in virtù, come capita a Fincher quando riesce a mascherare le incertezze della struttura narrativa facendole ricadere sulla precarietà del soggetto narrato e non sulla difficoltà di un montaggio che per ragioni commerciali ha richiesto tagli sostanziali alla prima versione pensata dal regista.
Carlo Cerofolini

Un requiem per il thriller
Dopo le visioni sovraccariche di "Figth Club" e prima che l'epitomico manifesto di "The Social Network" ne raggelasse del tutto l'esuberanza formale, David Fincher impresse su pellicola il suo incubo più anarchico ed elusivo. Frutto di un'ambizione smodata e irrisolta, "Zodiac" è un film imprendibile: giallo-inchiesta contrappuntato da squarci delittuosi - quasi microfilm di misurata crudeltà -, thriller investigativo, ma dal sapore teorico, affresco corale, libero gioco intessuto di metacinema, calcolato omaggio a una precisa tradizione (quella che guarda a "Tutti gli uomini del presidente"), ironico contraltare del seminale "Seven". Nel fascino cumulativo degli intrecci, in questa evoluzione rizomatica dei modi narrativi più di una volta si imboccano strade senza uscita. L'intero film ne è una, a dire il vero: in essa pure Fincher si smarrisce, e noi con lui. Come in un racconto di Dürrenmatt, la logica cede ai labirinti del reale e l'illusione deduttiva soccombe al peso degli archivi. Nessun colpevole, infine, ad assistere il nostro bisogno di una catarsi, mentre il male, come un mormorio ovattato, torna a dissolversi nel quotidiano fragore del mondo. In seguito Fincher troverà una propria misura, un modo preciso di dosare gli elementi e interagire con la sceneggiatura, produrrà opere di valore, corrette ed equilibrate, ma prive dell'irruenza dei primi lavori. "Zodiac" fa deflagrare queste due anime e ci regala un fascinoso esempio di cinema teso, sbilenco, logorroico e ambizioso come pochi. In una parola: irripetibile.
Matteo Pernini


4. L'AMORE BUGIARDO - GONE GIRL (Gone Girl, 2014)

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"There Will Be Blood" 2014 Edition
David Fincher=regista di videoclip. Gran parte della critica, annebbiata dalla patina accecante e apparentemente ludica del suo cinema, ha utilizzato spesso quest'equivalenza per evitare di confrontarsi con la grandezza della sua poetica pessimista. Questo fino a "The Social Network", il quale, grazie anche della sceneggiatura di Aaron Sorkin, ha reso innegabile il talento di Fincher nell'indagare i tratti della contemporaneità neocapitalista e dell'umanità alienata che la popola. Ma allora per quale ragione ho optato per l'ultimo "Gone Girl", derivato anch'esso da un'ottima sceneggiatura "d'autore" ? Semplice: il film del 2014 è la resa dei conti del cinema tutto di Fincher, un curioso gioco che mostra, dal di dentro e dall'esterno, la lotta colma di odio di una coppia ritenuta perfetta (l'ultimo pilastro rimasto della civiltà borghese ?), impegnata a distruggersi fin quasi ad annichilirsi, senza sfiorarsi. Che diventa, soprattutto nel magnifico finale, l'ennesima terribile radiografia della nostra civiltà.
Matteo Zucchi

Misogino e/o femminista?
Fincher è un regista che dà il meglio di sé quando ha tra le mani una sceneggiatura potente. Ne è conferma "Gone Girl", adattato da Gillian Flynn a partire dal proprio omonimo romanzo. La sua scrittura affilata e minuziosa ci regala un thriller fulminante, sagacemente in bilico tra intrattenimento spettacolare e accenti da commedia grottesca, che gioca a fare a pezzi le principali istituzioni dell'America contemporanea. Rientra in questa feroce eppure sottile critica sociale anche il ritratto della protagonista Amy, non a caso oggetto di infuocate polemiche. Vittima sacrificale e sadico carnefice allo stesso tempo, Amy è una vera eroina femminista, pronta a tutto pur di sovvertire l'ordine sociale e famigliare precostituito (fallocentrico). Uno dei personaggi femminili più sfaccettati, intriganti e coraggiosi del cinema mainstream dell'ultimo decennio. Una manipolatrice machiavellica e determinata, erede ideale dell'indimenticabile Barbara Stanwyck de "La fiamma del peccato".
Stefano Guerini Rocco

The Lady Vanishes - Scene (del crimine) da un matrimonio
La mattina del suo quinto anniversario di matrimonio, la signora Dunne scompare. Tutto sembra provare la colpevolezza del marito, (ovviamente) innocente. David Fincher suggella il rapporto, da sempre privilegiato, col cinema di Hitchcock, e realizza la più esauriente dimostrazione del proprio talento d'autore. Il repertorio del Maestro è una macchina perfetta: se De Palma l'ha aperta, scomposta ed esaminata ossessivamente, isolandone i meccanismi e rimontandoli in nuovi raffinatissimi congegni tecnico-formali, Fincher si è limitato a selezionare alcuni ingranaggi e a farne un puzzle, costruendo il suo giocattolo. Nonostante la sopraffina essenzialità della veste, questa volta il Game è tremendamente serio. Senza alcuna necessità di scavo, servendosi dell'imbelle ordinarietà di Affleck e della virginale, mefistofelica avvenenza di Rosamund Pike, si muove su un'insidiosa superficie di apparenze, rebus, incastri, inganni e man mano frantuma idoli e certezze sulla famiglia, la vita di coppia, la comunicazione, le pericolose incongruenze tra rappresentazione pubblica e sfera privata, il potere evanescente e falsante dell'immagine. Beffardo e ineccepibile.
Vincenzo Lacolla


3. FIGHT CLUB (1999)

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Prima regola del Fight Club, non scrivere su Fight Club
Seconda regola del Fight Club, non scrivere su Fight Club. Terza regola del Fight Club, è il primo film da vedere di David Fincher. Quarta regola del Fight Club... La storia di un assicuratore (Edward Norton) e del suo doppio Tyler Durden (Brad Pitt) non è solo una messa in scena della schizofrenia del protagonista, ma il racconto lucido della malattia che colpisce nel profondo la società consumistica contemporanea. Ritmo sincopato, flashback continui in una mise en abyme che trascina lo spettatore nella psicosi del narratore, afflitto da un'insonnia che diventa metafora della vita vissuta in un eterno presente, dove ciò che consumiamo ci possiede. Pieno di invenzioni visive, un utilizzo della colonna sonora che amplia il conflitto interiore, i due creano i fight club che, da incontri clandestini di uomini che vogliono riprendere possesso del loro corpo, si trasformano ben presto in nuclei di una vasta organizzazione segreta e rivoluzionaria che colpisce al cuore il sistema finanziario capitalistico. Un film visionario, con attori in stato di grazia (compresa Helena Bonham Carter nel ruolo di Marla Singer la donna che porterà scompiglio tra le due personalità), una sceneggiatura ricca e stratificata, tratta dall'omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, Fincher crea uno dei capolavori della postmodernità pop del nuovo millennio.
Antonio Pettierre

Sono l'alienante oppressione di Jack
Intriso di nichilismo punk e di critica verso i valori tradizionali della società consumista, "Fight Club" riesce a mettere per immagini il dramma e la paranoia di quella generazione X, la quale fu incapace di trovare un proprio obiettivo in uno scenario retto sulla burocrazia e sul mercato. "Le cose che possiedi alla fine ti possiedono": l'individuo è perduto nell'omologazione e per fuggire da questa verità si abbandona ad un grottesco fatalismo allucinogeno fatto di combattimenti e di cicatrici autoinflitte. Fincher, pur concedendosi qualche libertà, riesce a confezionare una delle migliori trasposizioni cinematografiche di sempre; a rendere, mediante le immagini, le stesse atmosfere che si respirano nelle pagine del romanzo di Chuck Palahniuk. Pellicola aptica, in cui domina la dimensione onirica (grazie ad una regia che favorisce l'immersione dello spettatore nello stato di semicoscienza del protagonista), il film è un cult che va visto. Senza "Se" e senza "Ma".
Eugenio Radin

Il trucco c'è, ma si vede solo se lo si vuole davvero
Forte di una messa in scena dirompente, di trovate registiche sensazionali, di una scrittura mai pedante o didascalica, di un tris di prove d'attori fuori dal comune, "Fight Club" si erge a film-simbolo della Hollywood anni 90, in bilico costante tra istanze indipendenti e vocazioni mainstream. Partendo dal romanzo di Chuck Palahniuk, Fincher apporta alcune modifiche che rendono ancora più efficace questa parabola sull'irreparabile istinto autodistruttivo dell'uomo e fa a brandelli l'abusato concetto di caduta e redenzione. Molto più solare e brillante di quanto l'ambientazione lugubre possa far credere, è un'opera che esalta il potere della libera determinazione del proprio destino e che sperimenta con spregiudicata libertà la possibilità di mostrare per immagini la potenza dissimulatrice del cinema. E in mezzo a tutto questo c'è l'interpretazione monumentale di Edward Norton, il nuovo Robert De Niro ancora in stato grazia, prima che tradisse le nostre attese.
Giancarlo Usai

Il suo nome è
Questo lo so perché Tyler lo sa. A partire dalla locandina. Il colpo di Tyler sposta l'inquadratura - come la scatola blu di Mulholland Drive, o la scala d'emergenza di 1Q84 ci trasla in un mondo parallelo. Cosa vuoi fare prima di morire? Costruire una casa. Dipingere il mio ritratto. Bere vino rosso ed ascoltare Beethoven. Non lo so, che razza di domanda. Riuscire a riassumere la tematica omosessuale in un singolo movimento di macchina. Fincher, Pitt, Norton, Palhaniuk. Nessuno di loro è tornato così in alto. Case Ikea dove vivono persone che non riescono a dormire, viaggiare in aereo come stress invece che come privilegio, le truffe delle aziende automobilistiche (una delle maggiori), in breve, la grande crisi - nel 1999. Edward Norton in vestaglia e sanguinante tiene la mano di Helena Bonham Carter (snodata, la porca) mentre sento per la prima volta Where is my mind e crollano verticalmente i grattacieli della finanza (nel 1999) ed è allora che appare. Un gran. Bel.
Alberto Mazzoni


2. THE SOCIAL NETWORK (2010)

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La tua ragazza ti lascia e per vendetta diventi miliardario
Mark Zuckerberg è un nerd dell'Università di Harvard, ma anche un vero stronzo. La tagliente penna di Aaron Sorkin non salvaguarda il suo protagonista, ma ne fa il motore attorno al quale orbita una generazione che tutto meccanizza: parole, azioni, sentimenti. La parola non è nè forbita nè giovanilista e Zuckerberg non è afflitto da maledettismo. Quasi agisce per noia. Genio per vocazione, è il paradigma del capitalismo dell'era digitale. Facebook è lo strumento attraverso il quale passa una linea di comunicazione debordante di numeri e tecnicismi. La folgorante verbosità della sceneggiatura di Sorkin viene orchestrata mirabilmente da un David Fincher che stacca la spina dal film di genere e amministra la materia con morbide articolazioni. Illuminante ma anti-didattico. Il volto di Jesse Eisenberg e la colonna sonora industrial-ambientale di Trent Reznor e Atticus Ross contribuiscono alla straordinaria riuscita di questo ritratto epocale di un momento storico tecnologico e asettico che continua a tenerci lobotomizzati davanti ad un notebook. Dove i click e i refresh suonano come echi di solitudine.
Diego Capuano

The Loneliness Network
Vanno ad Aaron Sorkin – e anche a Trent Reznor ed Atticus Ross – i meriti maggiori per il film più riuscito di Fincher. Film privo di eroi, è un'allegoria impietosa e implacabile del nostro mondo, in cui siamo tutti contro tutti, dove ‘arrivare’ conta più della felicità, dove la solitudine è divenuta inevitabile e imprescindibile proprio lì, nel luogo – il social network – che rappresenta l'evanescente terreno di condivisione della superficie di noi stessi. Il film apre squarci di desolazione: la comunicazione si è ridotta ad emulazione e dissimulazione, le regole della concorrenza e dell’economia liberale sono divenute regole di comportamento, e hanno quasi annullato il valore dei sentimenti e dell’intimità. "The social network" è il lucido ritratto di un mondo nichilista: e, in questo, è emblematico della visione che ha Fincher del mondo.
Stefano Santoli


1. SEVEN (1995)

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Il mondo è un bel posto
Piove ed è buio, i colori sono bagnati, i volti tirati e sofferti. I palazzi di una non-Los Angeles che sembra quasi Blade Runner ma in un tempo sospeso. Brad Pitt che da un paio di anni cerca di dimostrare di non essere solamente il belloccio biondo riuscendoci, Morgan Freeman perfetta spalla archetipica del cinema americano degli ultimi trent’anni, Kevin Spacey tanto dentro da non voler comparire come nome nei titoli di testa. Un film dove attori e atmosfere si mescolano manco fossero sfondi e primi piani compenetrati. Seven ha più di venti anni, e il peso di pietra miliare al collo. Eppure è oggi così contemporaneo. L’uso della macchina da presa, la fotografia, la linearità di un montaggio frenetico. Elementi che David Fincher mutua dal suo passato da videoclip, per trasformarli in materia cinematografica di ottima fattura. Di tale solida fattura che potrebbe essere di cinquanta anni prima per quanto perfetto. Successivamente il regista non riuscirà più a essere così preciso.
Alessandro Viale

È un mondo bello e per cui vale la pena lottare (Ernest Hemingway)
Chiamiamo ineluttabile quel momento in cui neanche Morgan Freeman riesce a gestire una situazione decisamente complessa. L’invidia va a braccetto con l’ira ma in un modo che difficilmente avremmo immaginato e diventa così ineluttabile, che è poi il piano di John Doe, un gigantesco, e spesso sottovalutato, Kevin Spacey. Sciarada schematica ma travolgente, Se7en è un film chirurgico, nel senso del bisturi che affonda letale quel millimetro in più, in cui si decide tutto.
- La seconda che hai detto (Morgan Freeman, in risposta a Hemingway)
Piero Calò

Nichilismo Pop
Autore eclettico e multiforme, David Fincher accetta la richiesta della New Line di dirigere il suo secondo lungometraggio dopo aver esibito il suo talento visivo all’esordio nel terzo e conclusivo episodio della saga horror di culto “Alien”. Un gioco da ragazzi per uno cresciuto nella Industrial Light and Magic di George Lucas. “Se7en” è un thriller dalle robuste componenti horror, diretto con mano scaltra e intraprendente, che dosa sapientemente i trucchi della suspense con l’estetica virtuosa del videoclip, mestiere caro a Fincher (i meravigliosi titoli di testa, che fanno il paio con quelli altrettanto meravigliosi di “Millennium”). Opera acerba e impetuosa, ambientata in una città inventata (ma non diversamente violenta e imbruttita dalla nostra) cristallizzata dalla pioggia e albergata da spietati serial killer senza nome (il gergo John Doe), “Se7en” è pellicola di culto, si, ma anche un capolavoro di orrore pop-contemporaneo, angosciosamente chirurgico nel tratteggiare con un nichilismo quasi da fumetto i gironi infernali all’interno dei quali si stagna la natura umana.
Matteo De Simei





Speciale registi - Il miglior film di David Fincher